Nuovi rabbini e cura del territorio: ecco le necessità dell’ebraismo italiano
Rav Ariel Di Porto, dopo 8 anni a Torino, è tornato a casa. A Riflessi spiega cosa ha imparato da questa esperienza
Ariel, da un paio di mesi la tua esperienza come rabbino capo di Torino è terminata. Innanzitutto: per quanti anni hai ricoperto la carica?
La mia esperienza torinese è durata otto anni, un periodo senz’altro significativo, anche alla luce della mia età e di quella dei miei figli, che hanno passato la maggior parte della loro vita a Torino. In questi anni ho potuto maturare una visione più completa della comunità. A Roma, per via delle dimensioni della comunità, spesso non è possibile avere una visione di insieme.
Quali obiettivi ti eri dato all’inizio? Possiamo provare a fare un bilancio del tuo mandato?
Forse sono riuscito a costruire meno di quanto avrei voluto, ma devo riconoscere che negli ultimi due anni il Covid non è stato di aiuto… Torino è una comunità dotata di una struttura di tutto rispetto, la quale, pur essendo una comunità di medie dimensioni, presenta degli aspetti da grande comunità, anzitutto per l’ampiezza e la capillarità della sua circoscrizione. Gli stimoli e le suggestioni, interni ed esterni alla comunità, sono sempre stati molteplici. Quando sono arrivato il problema principale era rappresentato dalla profonda spaccatura in seno alla comunità. Posso dire di avere cercato in questi anni di parlare con tutte le anime della comunità, e spero di avere lasciato, anche grazie all’impegno costante del Consiglio, una comunità pacificata, e credo che, al di là degli aspetti puramente tecnici, questa sia la principale eredità che lascio a Rav Finzi, al quale vanno i miei auguri per il nuovo incarico.
L’Italia è il paese dei mille comuni, ognuno legato alle proprie tradizioni. È così anche per gli ebrei italiani? Quali sono (se ci sono) le differenze maggiori che ti hanno colpito tra la comunità di Roma e quella di Torino?
La differenza principale risiede nell’impegno culturale degli ebrei torinesi, anche quelli più lontani dalla vita del bet ha-keneset. Per questo il rabbino a Torino deve scrivere molto di più rispetto ad altre realtà. Il livello socioeconomico della comunità è molto diverso, e di conseguenza le problematiche che si affrontano sono molto differenti. Un aspetto che mi ha colpito, e al quale non ero abituato, è collegato a una reticenza abbastanza diffusa rispetto a mitzwot collegate ad aspetti identitari, come la milah e la sepoltura ebraica. Il mio impegno ha prodotto scarsi risultati in questi ambiti.
Nei tuoi anni torinesi hai vissuto in una realtà ebraica profondamente radicata, con una lunga storia, ma con piccoli numeri (sebbene Torino non appartenga a quelle che vengono definite “piccole comunità”, avendo numeri maggiori). Uno dei problemi su cui da sempre gli ebrei italiani si interrogano è: ce la faremo a resistere al declino demografico? Ti sentiresti di rispondere a questa domanda?
Per contrastare il declino demografico, che è comunque una realtà ampiamente presente nella società circostante, l’unica strategia attuabile è quella di incentivare più possibile i matrimoni ebraici, considerandoli una priorità assoluta. Altre soluzioni, come favorire l’immigrazione, non sono in nostro potere. Ciò che è fondamentale comunque è lavorare per costruire comunità forti e compatte. Tante grandi comunità del passato avevano numeri paragonabili, e a volte anche più contenuti, dei nostri, ma avevano una vita più intensa e significativa della nostra. Questa è una discriminante fondamentale.
A Roma, nella tua città, di cosa ti occupi attualmente?
A Roma ricopro diversi incarichi, principalmente assisto Rav Di Segni, faccio parte del tribunale rabbinico, insegno in un programma avanzato presso il liceo Renzo Levi, e sovraintendo la vita religiosa in zona Marconi, principalmente presso il Bet shalom, che è una realtà molto interessante con buoni margini di crescita.
Tu hai un ruolo anche nell’Ucei, dove sei stato nominato dall’ARI come uno dei rabbini chiamati a fa parte del Consiglio. Quale è stato l’impegno del rabbinato italiano in questo primo anno di consiliatura?
Sono anche membro della Consulta rabbinica e quindi consigliere UCEI. Personalmente faccio parte di due commissioni, Scuola e Statuto. Sono poi il segretario del Consiglio, e mi occupo principalmente di dialogo interreligioso. L’agenda del Consiglio è in buona misura determinata da quanto avviene in seno all’Unione e nelle Comunità. Posso garantire che non ci si annoia…
Una domanda che Riflessi pone ai suoi interlocutori, soprattutto ai rabbanim, è conoscere il loro punto di vista sullo stato di salute dell’ebraismo italiano: a tuo parere, quali sono i nostri principali problemi? E quali proposte si potrebbero trovare per risolverli?
Alcuni problemi sono stati ricordati nelle domande precedenti; un tema da non sottovalutare è quello della formazione rabbinica. Già oggi la domanda di rabbini giovani e validi supera ampiamente la disponibilità, e nei prossimi anni il divario si accentuerà ulteriormente. Per questo ritengo che la formazione rabbinica rappresenti una priorità assoluta per l’ebraismo italiano. Un altro aspetto da tenere in considerazione è quello della piena copertura del territorio, visto che la presenza ebraica è storicamente e comprensibilmente concentrata in pochi centri, mentre le sollecitazioni esterne arrivano in modo abbastanza uniforme, ed anzi è possibile che da certi punti di vista i luoghi meno presidiati necessitino di maggiore sostegno. È necessario ideare modelli nuovi e sostenibili
Per leggere le altre tappe del viaggio:
Rav Alfonso Arbib, Rav Della Rocca, Rav Momigliano (qui e qui), Rav Spagnoletto, Rav Dayan (qui e qui), Rav Di Porto, Rav G. Piperno, Rav Sermoneta, Rav Somekh, Rav Hazan, Rav Punturello, Rav Caro, Rav U. Piperno, Rav Lazar, Rav Finzi, Rav Canarutto, Rav Ascoli , rav Di Martino, rav Pino Arbib, e rav Locci, Rav Caro, rav Toitou, rav G. Di Segni (puntata 1 e 2)