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Napoli, una comunità che dà e chiede solidarietà 

Rav Ariel Finzi da sei anni presta la sua attività in una città multicolore come Napoli (avendo come rav di riferimento prima Rav Elia Richetti e ora Rav Riccardo Di Segni).  A Riflessi parla del suo rapporto con la comunità, e di cosa auspica per il suo rafforzamento.

 

Rav Finzi, lei è ingegnere informatico, laureato al Technion di Haifa, ma originario di Torino, e vive a Milano. Come è iniziata la sua storia con gli ebrei di Napoli?

Il tempio della comunità ebraica di Napoli

In realtà la mia esperienza è nata un po’ per caso. Anni fa fui contattato per Rosh Hashanà, perché la comunità si era ritrovata senza una presenza rabbinica. Accettai, e così quella che doveva essere un’esperienza temporanea si è trasformata in un legame saldo, e per me molto positivo, al punto che quando mi è stato offerto di lavorare in altre comunità, ho preferito restare a Napoli. Le caratteristiche principali che mi hanno fatto entrare in sintonia con la Comunità sono l’approccio di sostegno verso Israele e forse quel senso di umorismo che permettono di affrontare con serenità i problemi.

Che situazione ha trovato?

Quando sono arrivato c’erano dei conflitti interni che pian piano si sono appianati, e oggi c’è una grande serenità e unità di intenti. È vero che Napoli è una comunità ad alta mobilità. Basti pensare che oggi qui si segue il rito sefardita, dopo alcune alternanze. Originariamente, infatti (prima dell’inquisizione), la Comunità di Napoli era di rito italiano, fu poi rifondata a metà dell’Ottocento dai Rothschild come ashkenazita, ma poi, con l’arrivo di molte famiglie provenienti da Salonicco, divenne Sefardita e tale è rimasta fino ad oggi.

Villa Pignatelli, sede della famiglia Rothschild a Napoli a fine ‘800

Quant’è grave il problema demografico in una piccola comunità come quella di Napoli?

Il problema dei numeri riguarda l’intero ebraismo italiano, non solo Napoli o le piccole comunità, anche se qui, naturalmente, la crisi dei numeri si fa sentire con maggior peso. Tuttavia a Napoli ho sempre trovato lo spirito giusto per affrontare i problemi, e possibilmente per risolverli. Quello che apprezzo di Napoli è la capacità di dialogare, di affrontare le difficoltà. Probabilmente è anche l’effetto del carattere dell’intera città, con momenti di solidarietà che a volte mi lasciano sbalordito.

Cosa intende?

Le faccio due esempi. Se capita che se ci sia un funerale ad agosto, nonostante le enormi difficoltà, siamo sempre riusciti a formare un Minian, oppure, di shabbat, io racconto sempre del “miracolo” del nostro Minian, infatti nonostante che teoricamente i numeri non lo permetterebbero, riusciamo sempre a farcela e a leggere la Torà dal Sefer, perché, alla fine qualcuno prova quel sentimento di solidarietà che le dicevo e il “decimo” arriva sempre. Certo, i ragazzi israeliani, che qui studiano all’università e con i quali abbiamo un bel rapporto ci hanno sempre dato una grande mano.

Napoli è anche la punta più a sud dell’ebraismo italiano. Lei è incaricato dall’UCEI di seguire il progetto Meridione, che in precedenza era seguito da Rav Gadi Piperno. A che punto stanno le cose?

Quello dell’attenzione del meridione d’Italia per l’ebraismo – provato ad esempio, dal gettito dell’otto per mille – è un fenomeno molto difficile da interpretare. Da un lato ho assistito a Napoli a conversioni cui non ero abituato. Spesso infatti non nascono da un’esigenza famigliare – come ad esempio “regolarizzare” una relazione con un partner ebreo – ma più intimamente dalla fede spontanea della persona, che poi si mantiene nel tempo. È probabile che questo interesse derivi anche dal passato di queste famiglie, ex marrane. Tuttavia è difficile poi esprimere un giudizio per tutto il meridione in modo univoco: da un lato è vero che ci sono molti che hanno questo forte interesse ad avvicinarsi, dall’altro lato dobbiamo sempre tenere presente che la conversione è comunque finalizzata a diventare ebreo religioso, e non ci si converte per diventare ebreo laico. Quando la prospettiva e l’obiettivo è osservare la Halakà, le difficoltà aumentano. Quanti sono disposti a sconvolgere la loro vita per rispettare le regole della kasherut, dello shabbat e della Tharàt mishpachà [purità della famiglia, n.d.r.]? in fondo, però, questo è un problema che riguarda tutti gli ebrei d’Italia e forse del mondo.

In questa situazione, come organizza le sue attività di rabbino a Napoli e responsabile Progetto meridione?

Sono a Napoli per lo Shabbat e i Moadim e tutte le occasioni in cui è necessaria la mia presenza. Faccio poi lezioni settimanali e seguo gli iscritti al progetto Meridione: la pandemia paradossalmente ci ha aiutato molto. Infatti, visto che non era possibile l’incontro diretto, siamo subito partiti con delle lezioni via zoom, e velocemente abbiamo costituito un gruppo che attualmente conta tra le 20 e le 30 persone che si collegano con grande costanza, per due volte alla settimana da diverse città: siamo arrivati a contare fino a quindici diverse località.

E per le nuove generazioni di ebrei napoletani, cosa si può fare?

Da quando sono qui ho portato 7 ragazzi al bar mitzvà. Ho incontrato ragazzi eccezionali, capaci, in un anno, di cominciare da zero e arrivare a leggere un’intera parashà. Quello che succede dopo, però, è comune anche ad altre comunità. Il tasso di allontanamento è alto, e solo in alcuni casi si continua a studiare in altri si fa fatica. L’idea, d’accordo con il consiglio, è di pensare a organizzare incontri con cui cercare il coinvolgimento. Su questo come su tutti i temi importanti c’è un totale accordo con il consiglio della comunità.

Per concludere, se dovesse indicare delle priorità per Napoli, di cui la prossima Ucei dovere farsi carico, a cosa penserebbe?

La costiera sorrentina

Per mantenere in vita le piccole comunità importante è creare lavoro. Qui a Napoli ci sarebbe poi la scommessa di attirare il turismo ebraico, penso a quello americano e israeliano innanzitutto. Servirebbe un forte investimento per creare una struttura recettiva adeguata. Si potrebbe pensare a una “iscrizione non residenti” degli stranieri, per coinvolgerli nella vita comunitaria. Insomma, occorre riuscire a creare una rete che generi un indotto. Un altro sogno nel cassetto è l’idea è aprire Yeshivà a Napoli, portando studenti a studiare Napoli, che possano rinvigorire la comunità. In altre città è stato fatto, quando ero piccolo a Torino Rav Dario Disegni guidò cosi la rinascita della Comunità nel dopoguerra. Occorrerebbe trovare un mecenate, e tentare a Napoli la stessa strada.

Questa è la quindicesima tappa del nostro viaggio nel rabbinato italiano.

Per leggere le altre tappe del viaggio: Rav Arbib, Rav Della Rocca, Rav Momigliano (qui e qui), Rav Spagnoletto, Rav Dayan (qui e qui), Rav Di Porto, Rav G. Piperno, Rav Sermoneta, Rav Somekh, Rav Hazan, Rav Punturello e Rav Caro, Rav U. Piperno, e Rav Lazar

 

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