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Una scelta quotidiana

Firenze è una media comunità ebraica, guidata da un giovane rabbino capo. A Gadi Piperno abbiamo chiesto come vede il futuro dell’ebraismo italiano

Gadi, da circa due anni sei rabbino capo della comunità di Firenze. Ci puoi descrivere la realtà ebraica fiorentina e che linee stai seguendo nella tua attività di rav?

Il tempio di Firenze è sede anche di incontri culturali

A Firenze e dintorni vivono meno di 900 iscritti. Questa è una comunità articolata ma coesa, con diversità di vedute che si traduce in un confronto franco e prolifico. È inoltre una comunità dalla grande tradizione e attenzione al minhàg. Pesa l’assenza di una scuola ebraica, ma il Talmud Torà raccoglie oltre 40 bambini e ragazzi, e l’organizzazione giovanile (il CGE) locale attira circa la metà dei giovani, che non è poco. È poi una comunità a vocazione turistica, con ebrei che vengono, anche solo temporaneamente, per studio o per lavoro, alcuni dei quali poi si iscrivono in comunità, come l’attuale vice presidente della comunità, Brett Lalonde. In questa realtà, io sono arrivato alla prima esperienza di Rabbino Capo. All’inizio l’obiettivo che mi ero dato era seguire la linea del mio predecessore, rav Spagnoletto; poco dopo però è arrivato il Covid, che ha rimescolato completamente le carte, obbligandomi a gestire situazioni nuove, che però hanno consentito alla comunità di esprimere al meglio una grande solidarietà. Il nostro Tempio Maggiore è sempre stato in funzione, a parte il periodo iniziale di lockdown stretto, e riusciamo ad avere minian, oltre allo shabbat, il giovedì, di rosh hodesh, i moadim e digiuni.

E per quanto riguarda “gli effetti collaterali” di questa scelta? Ha comportato un cambiamento per la tua famiglia, come ad esempio cambio di scuola dei tuoi figli. Come hanno vissuto questo passaggio importante i tuoi?

Il cambiamento è stato importante. Firenze è città certamente meno caotica di Roma, anche se, come detto, pesa l’assenza di una scuola ebraica. Per la famiglia un cambio di residenza non è mai indolore, soprattutto allontanandosi dal luogo in cu si è nati. In questo passaggio siamo stati aiutati dalla comunità, che ha accolto con calore me, mia moglie e i nostri tre figli.

 In questo viaggio nel rabbinato mi piacerebbe, se possibile, provare ad andare un po’ oltre l’immagine pubblica che abbiamo dei nostri maestri. Per esempio, quella di diventare rabbino è una scelta, una vocazione o un risultato che ha margini di casualità? Nel tuo caso, cosa ha determinato la tua formazione?

Renzo Gattegna (1939-2020), è stato presidente dell’Ucei dal 2006 al 2016

Pur avendo studiato al Collegio Rabbinico dall’età di 8 anni, ero convinto che quella del rav fosse una responsabilità per me insostenibile.  Poi a 20 anni, a un campeggio del DAC rav Michel Monheit mi fece notare che infondo, così come ogni giorno avrei comunque messo i tefillin, allo stesso modo avrei potuto reggere quel peso. Lì per lì non capii. Oggi forse riesco a comprendere cosa ha voluto dirmi. I tefillin portano con sé i concetti di miztvà, di quotidianità, e del legame tra braccio e testa, cioè tra pensiero e comportamento. Sono tre elementi fondamentali per un rav. Interiorizzare bene questi 3 concetti, è la strada per poter essere d’aiuto alla propria comunità in un ruolo così cruciale. Ho lavorato inizialmente come ingegnere elettronico, specializzato in software, poi sotto la presidenza del compianto Renzo Gattegna mi fu chiesto di entrare a lavorare nell’Ucei, e così ebbi la possibilità di riprendere in modo più intenso gli studi rabbinici, che comunque non avevo mai lasciato. Non credo nella casualità, credo nelle scelte, anche se devo dire che nel prendere delle decisioni ho sempre sentito un Guida che le ha rese più semplici. Determinanti sono stati l’incoraggiamento dei miei maestri, la volontà di essere utile alle nostre comunità, e, soprattutto, il sostegno della mia famiglia, mia moglie in primis.

Oggi sono molti i rabbanim romani assegnati a varie comunità: Bologna, Torino, Mantova e Ferrara, Firenze. Può dirsi ormai che c’è una scuola romana? E se c’è, cosa la caratterizza?

Non so se c’è una “scuola” rabbinica romana, certamente c’è una scuola italiana, che nasce dalla tradizione del Collegio rabbinico e dal suo programma di studio, che tiene insieme Talmud e Halakhà, come altrove, ma pone un’attenzione particolare anche allo studio specifico del Tanàch, letteratura e storia. Inoltre, negli ultimi vent’anni la formazione rabbinica è un po’ cambiata, in particolare è stato intensificato ulteriormente lo studio di Talmud e Halakha, senza però perdere quei connotati tipici della formazione rabbinica italiana. Quanto alle caratteristiche romane, ciò che accomuna in maggior parte i rabbini romani, anche se non tutti, è di essersi formati dapprincipio come hazanim (cantori, n.d.r.) con una grande attenzione al minhàg, e questo aspetto nelle comunità italiane è particolarmente sentito.

 A Firenze probabilmente si può avvertire con maggiore consapevolezza il rischio dell’ebraismo italiano: calo demografico, disaffezione, declino. È un processo irreversibile secondo te? Si può contrastare, e in che modo? Insomma, quale futuro attende l’ebraismo italiano?

Il problema esiste. Il concetto di irreversibilità del declino però non mi convince. Ogni comunità soffre i numeri, e di più quelle più piccole. Escluse Roma e Milano, credo sia impensabile che le altre comunità possano rigenerarsi dall’interno. Bisogna prenderne atto per comprendere il fenomeno e fronteggiarlo. Come uscirne? Vedo un’unica ricetta: l’ebraismo deve essere coltivato quotidianamente, non può essere relegato a pochi giorni l’anno, e nemmeno a un solo giorno a settimana. Se l’identità ebraica diventa l’ultima delle priorità, allora poi non ci si può lamentare del rischio di assimilazione. Ritengo che elementi come l’istruzione, i momenti di incontro e di studio, il favorire la nascita di famiglie ebraiche, siano fondamentali. Essenziale è anche fare vita comunitaria a tutto tondo, non solo religiosa e di studio. La comunità deve diventare un elemento che attragga, per questo deve impegnarsi a favorire la partecipazione degli iscritti con continuità.

Tra pochi mesi si andrà al rinnovo dell’Ucei, presso cui i rabbini italiani sono rappresentati con 3 seggi. Secondo te, qual devono essere le nuove frontiere che l’Ucei avrà davanti nel prossimo quadriennio?

gli ultimi stati generali dell’Ucei

Come rabbino, al primo punto metto la necessità di risolvere le situazioni conflittuali, in cui l’altro è visto come un pericolo. Si vedano in proposito alcune reazioni a dir poco scomposte a livello di social, anche recenti. Ciò nasce perché a mio avviso ormai ci si confronta solo sui social o quando si tratta di decidere, e sempre meno per affrontare assieme i problemi. Ad esempio, ritengo è che l’eliminazione del congresso dell’Unione sia stata una decisione assolutamente deleteria in questo senso, perché esso era l’occasione di confrontarsi per tre giorni tra le diverse anime dell’ebraismo italiano, che ne costituiscono la ricchezza, e poi trovare una mozione di compromesso, cercando la sintesi. Al di là di questo, sento la necessità quotidiana di lavorare per la coesione delle varie anime presenti nelle nostre comunità. Inoltre, ripeto che è strategico lavorare per i giovani, favorendo il più possibile incontri tra coetanei in Italia, ma anche in Europa e in Israele. Altrettanto strategico è continuare a migliorare la fruibilità di servizi ebraici in generale, e, in particolare, la reperibilità di prodotti kasher.

Questa è la settima tappa del nostro viaggio nel rabbinato italiano.

Per leggere le altre tappe del viaggio: Rav Arbib, rav Della Rocca, rav Momigliano (qui e qui), Rav Spagnoletto, Rav Dayan (qui e qui), Rav Di Porto.

Una risposta

  1. Interessante….
    Rabbini provenienti da Roma
    Da ingegnere elettronico….a rav della Comunità di Firenze …!!!
    E grazie a Renzo Gattegna z.l.

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