Superare gli steccati, investire sui giovani: questo è il nostro futuro
Parla Amedeo Spagnoletto, 52 anni, da meno di un anno direttore del MEIS.
Abbiano chiesto anche a lui, dopo rav Arbib e rav Della Rocca, come vede il futuro dell’ebraismo italiano.
Caro Amedeo, cominciamo con la tua poliedricità: rav, sofer, esperto di paleografia, insegnante al liceo e al Collegio rabbinico, rabbino capo a Firenze, infine (per ora!) direttore di un museo d’arte: il MEIS (museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah) di Ferrara. Dietro tanta attività, immagino, ci deve essere anche molta curiosità e molto amore. Ce ne vuoi parlare?
Ridimensioniamo. Molto è condotto con tanta passione ma senza professionismo, ma forse anche questo non è detto che sia una pecca. Dietro c’è la voglia di sperimentare e di non annoiarmi, ma alla base di tutto un grande e sconfinato amore per la tradizione declinata in qualsiasi maniera. Trasmettere, divulgare e aderenza, anche pratica per quanto possibile, ad un passato glorioso.
Ci racconti un po’ di questa tua nuova esperienza? Il Meis è una porta d’ingresso nell’ebraismo italiano; inoltre hai preso il testimone da Simonetta Della Seta, una figura riconosciuta sul piano internazionale. Ti sei insediato in piena emergenza Covid: e adesso? Siete pronti a ripartire? Che cosa hai immaginato per far crescere il MEIS ancora di più?
Sento la responsabilità di salvaguardare l’eredità di Simonetta. Lei e i consigli di amministrazione che si sono altern
Nell’intervista che hai rilasciato a Repubblica nel 2020, hai detto: “io mi sento un ebreo all’italiana, attento a contemperare precetti e un modo di vita tollerante”. Puoi spiegarci un pò di più questa posizione?
Potremmo parlarne in termini di prassi. Dal mio punto di vista è una condizione da salvaguardare e di estremo valore ma che richiede enormi sforzi. Rav Riccardo [Di Segni, n.d.r.] solo pochi giorni fa riconosceva in un suo scritto come specificità romana, ma potremmo dire anche italiana, quella di non riuscire a trovare una propria collocazione nel contesto della polarizzazione delle posizioni tra laici e religiosi. Si tratta di un equilibrio di cui si sono fatti interpreti per generazioni in primis i maestri italiani ma direi anche larga parte dei fedeli. Una ricchezza certamente, che però ha bisogno di un patto reciproco: tolleranza nelle due direzioni e inclusione di chi viene da esperienze diverse dalla nostra. L’altra condizione imprescindibile è quella dei numeri. È chiaro che sotto una certa soglia tutto questo discorso precipita. Non so quale sia la cifra, ma ho paura che stiamo a ridosso del limite e forse non ce ne rendiamo conto.
A Firenze soffrivi la lontananza da Roma e dalla famiglia. E a Ferrara? Come ti trovi in una piccola comunità come quella ferrarese?
Ho un grande rispetto della comunità ferrarese per ciò che è stato e quello che pure nei ridottissimi numeri rappresenta. Con Rav Caro che la guida da oltre 20 anni ho un rapporto di grande rispetto e amicizia. Sono convinto che sia la sinergia fra MEIS e comunità a costituire la chiave di successo per entrambi seppur ciascuno nel proprio ruolo. Venire al MEIS senza visitare le scole ferraresi o il cimitero è una esperienza incompleta. D’altro canto il nostro museo è pronto a mettere al servizio della comunità le proprie professionalità per farle raccontare e divulgare al meglio il messaggio ebraico. Compatibilmente con il covid, abbiamo organizzato già alcune attività insieme e il mio impegno è a sviluppare questa collaborazione.
Nel tuo impegno da direttore ti confronti regolarmente anche con le istituzioni dell’ebraismo italiano. Tra poco l’UCEI rinnoverà i suoi organi. Se dovessi dare un suggerimento a chi si insedierà nel consiglio, da dove vorresti che si cominciasse a lavorare?
Nel mio ruolo mi confronto molto con gli aspetti legati al patrimonio culturale. Ho sempre trovato un partner affidabile che ha facilitato ogni passaggio burocratico. Ma non è questo l’aspetto importante. Mi spoglio quindi dal ruolo di direttor
In questo girovagare, resti un rav, e un uomo, molto legato alla tradizione dell’ebraismo romano. Per concludere, ci parli della nostra comunità? Cosa ti piace, e cosa ti piace meno, di noi ebrei romani?
È difficile parlare di sé stessi. Il mio sogno è quello di vedere superati gli steccati. Non dico che sul campo questo non avvenga in tante situazioni, eppure si ha la sensazione che uno sia chiamato sempre a schierarsi, da una parte o dall’altra. In termini di appartenenza religiosa, di supporto a Israele, di sostegno e identificazione con il rabbinato. Offro una ricetta sperimentata. Condividere momenti di studio. Lo studio insieme, soprattutto con chi è lontano dalla nostra visione delle cose, assottiglia le differenze, allena a un sistema di confronto, ci fa rinunciare a screditare l’altro ed è veicolo di rispetto e considerazione. Cosa c’è di più ebraico ?
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