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Superare gli steccati, investire sui giovani: questo è il nostro futuro

Parla Amedeo Spagnoletto, 52 anni, da meno di un anno direttore del MEIS.

Abbiano chiesto anche a lui, dopo rav Arbib e rav Della Rocca, come vede il futuro dell’ebraismo italiano.

Caro Amedeo, cominciamo con la tua poliedricità: rav, sofer, esperto di paleografia, insegnante al liceo e al Collegio rabbinico, rabbino capo a Firenze, infine (per ora!) direttore di un museo d’arte: il MEIS (museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah) di Ferrara. Dietro tanta attività, immagino, ci deve essere anche molta curiosità e molto amore. Ce ne vuoi parlare?

Ridimensioniamo. Molto è condotto con tanta passione ma senza professionismo, ma forse anche questo non è detto che sia una pecca. Dietro c’è la voglia di sperimentare e di non annoiarmi, ma alla base di tutto un grande e sconfinato amore per la tradizione declinata in qualsiasi maniera. Trasmettere, divulgare e aderenza, anche pratica per quanto possibile, ad un passato glorioso.

Ci racconti un po’ di questa tua nuova esperienza? Il Meis è una porta d’ingresso nell’ebraismo italiano; inoltre hai preso il testimone da Simonetta Della Seta, una figura riconosciuta sul piano internazionale. Ti sei insediato in piena emergenza Covid: e adesso? Siete pronti a ripartire? Che cosa hai immaginato per far crescere il MEIS ancora di più?

Sento la responsabilità di salvaguardare l’eredità di Simonetta. Lei e i consigli di amministrazione che si sono alternati in questi anni hanno fatto cose straordinarie, la cui portata continuo a scoprirla giorno dopo giorno. Grazie al Cielo Simonetta è una risorsa su cui posso contare ancora per consigli e suggerimenti e questo mi da tranquillità. Il covid è stata come si dice “una mazzata in testa” per i musei tutti. Di più per quelli delle città d’arte, ancora di più per quelli come il nostro, nato da poco e  in fase di difficile crescita. Ciò detto, a un anno e più dalla pandemia, facendo i primi bilanci di un periodo così critico,  il Meis spicca per aver saputo rapidamente trasformare i propri contenuti e lanciarsi in un ricchissimo programma di eventi e progetti on line. Questo, ha determinato un fenomeno sorprendente; grazie alla tecnologia i contatti sono decuplicati. Le partecipazioni sono state sempre in crescita e da tutto il mondo, con numeri impensabili prima. Non credo di sbagliare quando affermo che grazie a zoom abbiamo finalmente svolto quel ruolo di museo “nazionale” che la legge ci ha affidato. Oltre alle grandi mostre, sogno a questo punto di raccogliere i risultati “virtuali” di questo lungo periodo e trasformarli in qualcosa di più concreto. Credo fermamente che la attenzione principale del MEIS debba rivolgersi agli studenti, per questo il mio principale impegno sarà fare in modo che il numero più grande possibile di scuole programmi una visita al MEIS, meglio se accompagnata dai laboratori che offriamo.  Rimuovere pregiudizi, favorire fratellanza, rispetto e dialogo fra le culture. Siamo lì per questo, il resto è corollario.

Nell’intervista che hai rilasciato a Repubblica nel 2020, hai detto: “io mi sento un ebreo all’italiana, attento a contemperare precetti e un modo di vita tollerante”. Puoi spiegarci un pò di più questa posizione?

Potremmo parlarne in termini di prassi. Dal mio punto di vista è una condizione da salvaguardare e di estremo valore ma che richiede enormi sforzi. Rav Riccardo [Di Segni, n.d.r.] solo pochi giorni fa riconosceva in un suo scritto come specificità romana, ma potremmo dire anche italiana, quella di non riuscire a trovare una propria collocazione nel contesto della polarizzazione delle posizioni tra laici e religiosi.  Si tratta di un equilibrio di cui si sono fatti interpreti per generazioni in primis i maestri italiani ma direi anche larga parte dei fedeli. Una ricchezza certamente, che però ha bisogno di un patto reciproco: tolleranza nelle due direzioni e inclusione di chi viene da esperienze  diverse dalla nostra. L’altra condizione imprescindibile è quella dei numeri. È chiaro che sotto una certa soglia tutto questo discorso precipita. Non so quale sia la cifra, ma ho paura che stiamo a ridosso del limite e forse non ce ne rendiamo conto.

A Firenze soffrivi la lontananza da Roma e dalla famiglia. E a Ferrara? Come ti trovi in una piccola comunità come quella ferrarese?

Ho un grande rispetto della comunità ferrarese per ciò che è stato e quello che pure nei ridottissimi numeri rappresenta.  Con Rav Caro che la guida da oltre 20 anni ho un rapporto di grande rispetto e amicizia. Sono convinto che sia la sinergia fra MEIS e comunità a costituire la chiave di successo per entrambi seppur ciascuno nel proprio ruolo.  Venire al MEIS senza visitare le scole ferraresi o il cimitero è una esperienza incompleta. D’altro canto il nostro museo è pronto a mettere al servizio della  comunità le proprie professionalità per farle raccontare e divulgare al meglio il messaggio ebraico. Compatibilmente con il covid, abbiamo organizzato già alcune attività insieme e il mio impegno è a sviluppare questa collaborazione.

Nel tuo impegno da direttore ti confronti regolarmente anche con le istituzioni dell’ebraismo italiano. Tra poco l’UCEI rinnoverà i suoi organi. Se dovessi dare un suggerimento a chi si insedierà nel consiglio, da dove vorresti che si cominciasse a lavorare?

Nel mio ruolo mi confronto molto con gli aspetti legati al patrimonio culturale. Ho sempre trovato un partner affidabile che ha facilitato ogni passaggio burocratico.  Ma non è questo l’aspetto importante. Mi spoglio quindi dal ruolo di direttore MEIS concentrandomi sugli aspetti che mi stanno a cuore come insegnante e come padre. Usciamo da un periodo che è stato disastroso per i nostri giovani.  Non si sono incontrati. Non hanno stretto quelle amicizie che di solito attraverso i campeggi o la frequentazione dei Talmud Torà si creano e li accompagnano in quel processo di riconoscimento e condivisione indispensabile a forgiare una identità ebraica. Questo vale per chiunque non frequenti il liceo ebraico, ovvero oltre il 70 per cento. Come recuperare il tempo perduto? Io investirei enormi risorse per organizzare appena si potrà, raduni estivi ed invernali in posti di grande appeal ed a prezzi invitanti, con buoni contenuti, ospiti di richiamo e sperare di recuperare quelle relazioni che la pandemia ha interrotto bruscamente.

In questo girovagare, resti un rav, e un uomo, molto legato alla tradizione dell’ebraismo romano. Per concludere, ci parli della nostra comunità? Cosa ti piace, e cosa ti piace meno, di noi ebrei romani?

È difficile parlare di sé stessi. Il mio sogno è quello di vedere superati gli steccati.  Non dico che sul campo questo non avvenga in tante situazioni, eppure si ha la sensazione che uno sia chiamato sempre a schierarsi, da una parte o dall’altra. In termini di appartenenza religiosa, di supporto a Israele, di sostegno e identificazione con il rabbinato. Offro una ricetta sperimentata. Condividere momenti di studio.  Lo studio insieme, soprattutto con chi è lontano dalla nostra visione delle cose, assottiglia le differenze, allena a un sistema di confronto, ci fa rinunciare a screditare l’altro ed è veicolo di rispetto e considerazione.   Cosa c’è di più ebraico ?

 

 

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