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Vi racconto un po’ della mia vita: l’ammissione all’Università di Gerusalemme (Agosto-Dicembre 1973)

Continua il racconto biografico di Rav Gianfranco Di Segni. Stavolta si va in Israele

Gianfranco, torniamo alla tua aliyà. Come fu presa in famiglia la tua decisione di andare in Israele dopo il periodo passato a Strasburgo, di cui ci hai parlato nella puntata precedente?

Erano un po’ preoccupati. Comunque, non andavo solo e questa fu una rassicurazione (anche per me). Eravamo un bel gruppetto di boghrim del Benè Akiva che facevamo la aliyà dall’Italia: da Roma, Genova, Bologna, Milano ecc. Io in realtà non avevo il visto di olè chadàsh (nuovo immigrante) ma quello di toshàv araì (residente temporaneo). Feci le pratiche alla Sokhnut a Corso Vittorio, incluso un colloquio e, mi sembra, un test scritto per valutare le mie conoscenze d’ebraico.

Prima della partenza per Israele (e dell’esame di Istologia ed Embriologia) ero andato al campeggio estivo del Benè Akivà. Non mi ricordo dove fosse, ma ricordo che feci un devar Torà sull’importanza del Galut e fu molto apprezzato, anche dagli israeliani lì presenti. Sfruttavo le conoscenze acquisite in Yeshivà, citando passi dalla Ghemarà e dal Midrash. A inizio agosto del ’73 partii per Israele, mi inviarono in un alloggio della Sokhnut a rechov Shemuel haNavì, fra Meà Shearim e Ramat Eshkol. Abitai lì un paio di mesi (agosto e settembre). Quando fui poi accettato all’Università ebraica di Gerusalemme, mi trasferii nei Me’onot haStudentim (Case degli studenti) “Reznik” dell’Har haTzofim (Monte Scopus).

il monte Scopus, oggi

Questi ultimi, a differenza dei primi, erano edifici moderni, con stanze da due con lavandino in camera, cucina in ogni pianerottolo dotata di fornelli, frigoriferi e armadietti per ogni stanza. Bel posto. Ci rimasi due anni. In stanza stavo con il mio amico, già dai tempi del Benè Akiva, Michael (Michi) Racah, presidente uscente della Hevràt Yehudé Italia beIsraèl e del Tempio italiano di rechov Hillel a Yerushalaim. Nel gruppo degli italiani (non solo del B.A.) che avevano fatto la aliyà c’era anche Daniela Di Cori: un paio d’anni dopo, nel ’76, Michi e Daniela si sarebbero sposati, e io fui loro testimone

1976, matrimonio di Michi Racah e Daniela Di Cori

. Shabbat mangiavamo spesso tutti insieme. Facevamo divrè Torà e io ripetei quel discorso sul Galut che avevo fatto in Italia: questa volta, però, fui molto criticato. Mi dissero: “La Yeshivà ti ha fatto male”. Forse a dei giovani appena arrivati dall’Italia per vivere in Israele non era il caso di parlare dell’importanza di vivere nella Diaspora…

Come andò l’ammissione all’Università? Ci hai detto l’altra volta che riuscisti a saltare la mekhinà.

La mekhinà era necessaria (a quei tempi, non so adesso) sia per portare gli studenti a un livello adeguato di conoscenza della lingua ebraica (le lezioni all’università sono in ebraico e gli esami sono per lo più scritti), sia per aumentare le conoscenze generali e quelle specifiche per il corso di laurea che si intende frequentare. L’ebraico lo sapevo abbastanza bene, grazie al mese di ulpan all’Università di Bar Ilan durante l’estate alla fine del quarto liceo di cui vi parlai. In più avevo superato due esami al primo anno di Biologia all’Università di Roma. L’accesso al primo anno all’Università di Gerusalemme, comunque, non era automatico, dovetti sostenere un colloquio davanti a una commissione a inizio settembre del 1973, che nella mia memoria è rimasto impresso come piuttosto difficile. Chiarito l’equivoco sui voti ricevuti in Italia (30/30 e non 30/100), chiesi loro, nel caso fossi stato accettato al corso di laurea in Biologia, se avrei dovuto sostenere di nuovo quei due esami. “Certo”, mi risposero, “chissà quante cose cambieranno da qui a due anni!”. Ma forse non si fidavano troppo del livello universitario italiano. Anni dopo, mi capitò una cosa analoga ma speculare alla Sapienza di Roma, quando dovetti richiedere l’equipollenza del titolo israeliano a quello italiano.

la prima posa dell’Università di Gerusalemme, 1918

Ce la racconterai un’altra volta. Capisco che passasti il colloquio di ammissione, ma come andò? Bastarono quei due esami di Roma?

No. Andò che grazie a una N lo passai, almeno così credo. Pur cavandomela con l’ebraico, non è che mi esprimessi così fluentemente. Mi mancavano soprattutto i termini tecnici. Fino allora, parlavo in ebraico di Torà e Talmud, ma di scienze non mi era mai capitato. In una delle domande di cultura generale scientifica mi chiesero cosa succede quando uno si immerge sott’acqua. Risposi che c’è il rischio che si formino delle bolle di un elemento chimico presente nell’aria che ostruiscono il flusso sanguigno. L’elemento è l’azoto, ma non sapevo certo come si dicesse in ebraico. Gli chiesi se potevo scrivere il simbolo chimico. “Sì, scrivilo”, mi dissero. Scrissi una grande N sul foglio di carta. Credo che quella N, il simbolo chimico per l’azoto, mi fece guadagnare un anno di studio… (a proposito, “azoto” in ebraico si dice chanqàn, da una radice che significa “soffocare”). Comunque, uscii dal colloquio niente affatto sicuro di averlo superato e stetti in ansia per una decina di giorni, fino all’arrivo della risposta. Anche in previsione di un’eventuale bocciatura avevo fatto la richiesta di essere ammesso pure all’Università di Bar Ilan, dove non richiedevano un colloquio preliminare ma si basavano solo sulla documentazione presentata. Finalmente, a metà settembre arrivò la comunicazione che ero stato accettato a Gerusalemme al B.Sc. (il diploma triennale) e un paio di giorni dopo mi arrivò anche quella, analoga, da Bar Ilan. Scelsi Gerusalemme.

(continua a pag. 2)

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