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Costruire un’identità forte ed equilibrata

Nella seconda parte della sua intervista, rav Momigliano affronta due temi specifici: il futuro del nostro ebraismo, e il ruolo del rabbinato italiano

Attualmente Lei è anche il vice presidente dell’ARI (in passato ne è stato anche presidente), l’assemblea rabbinica italiana, e siede nel consiglio dell’Ucei, dunque in una posizione privilegiata per osservare le dinamiche di una comunità che ha radici antichissime, ma che deve affrontare problemi importanti. Qual è, a suo giudizio, lo stato di salute dell’ebraismo italiano?

Penso sia importante premettere che nel difficile tempo del covid l’Italia ebraica si è attivata con molteplici iniziative, promosse dall’Ucei,  come pure dal rabbinato,  dalle Comunità e  da diverse istituzioni,  smorzando almeno temporaneamente certi eccessivi toni polemici per riscoprire occasioni di lavoro condiviso,  ideando e realizzando molti progetti che hanno portato momenti di vita ebraica, cultura, informazione, assistenza, in condizioni assolutamente nuove e da sperimentare e corrispondendo alle specifiche condizioni e necessità di questo periodo. Penso che queste esperienze positive che hanno visto la collaborazione tra soggetti diversi, in vario modo tutti inseriti nel nostro mondo comunitario, come pure reciproci stimoli costruttivi, debbano essere assolutamente tenute presenti, tanto più  ora che le riaperture del dopo covid ci riportano a guardare in faccia la realtà molto precaria delle nostre comunità, una realtà che si presenta con numeri che pongono interrogativi inquietanti sul futuro, in termini di progressiva contrazione demografica delle comunità, alcune delle kehillot che un tempo erano considerate di media entità stano riducendosi a piccole comunità e quelle piccole rischiano di diventare piccolissime in cui la vita ebraica effettiva è ridotta a momenti sporadici,  particolarmente si avverte una crescente costante riduzione della componente giovanile  nelle piccole comunità.

Tuttavia non è solo questione di numeri e non riguarda solo le piccole comunità, i numeri ci riportano problemi di varia natura ma innanzitutto di identità ebraica debole, parliamo di assimilazione quando il mondo circostante, con le sue scelte di vita, di famiglia, di frequentazione, di impegno prevale sull’identità ebraica, d’altra parte spesso, quando anche permane il senso dell’identità ebraica, questo viene ormai avvertito come un fatto personale, che non coinvolge la famiglia, quindi tanto meno impegna per la trasmissione ai figli, alle generazioni successive. Per formare un’identità ebraica forte è necessario avere  conoscenze adeguate per capire cosa significhi essere ebreo, bisogna vivere  da  ebreo, perché la conoscenza astratta di materie ebraiche non necessariamente indica  un coinvolgimento esistenziale, ancora, penso sia importante  considerare la vita fuori da Israele come una scelta che deve essere sempre motivata e giustificata, in generale ritengo che un’identità ebraica forte ed equilibrata dovrebbe darci la possibilità di saper fare delle scelte adeguate e circostanziate: quando incontrare l’esterno e quando distanziare, quando includere e quando escludere, significa sentire che nell’impegno e nelle scelte di vita ebraica si realizzano il nostro essere in relazione sia con il mondo ebraico, nelle diverse implicazioni, personali, comunitarie, con Israele, sia con l’ambito non ebraico in cui ci troviamo a vivere. Questa dal mio punto di vista è una prospettiva di ampie dimensioni che si confronta con una realtà molto più ristretta, controversa e frastagliata, bisogna avere grandi obiettivi e progetti, ma anche sapere che cosa è concretamente realizzabile; nelle comunità nell’Ucei, nelle istituzioni ebraiche tutti sono coscienti della crisi dell’ebraismo in Italia a fronte della quale sono proposte soluzioni, linee di azione e progetti molto diversi, molti ritengono di possedere la risposta risolutiva indispensabile mentre manca una visione sintetica. Occorre anche fare attenzione a non aggirare le dimensioni del problema, di quanti si allontanano, di quanti non hanno coscienza dell’ebraismo, di quante famiglie ebraiche si perdono alle comunità modificando il quadro, i confini, i criteri di appartenenza all’ebraismo: i problemi si affrontano sapendo dove ci troviamo, non cambiando i punti di riferimento, d’altra parte è importante cogliere ogni contributo positivo  che può concorrere a formare giovani attivi nelle comunità e consapevoli del proprio ebraismo e, d’altro lato, a non perdere per strada i più lontani.

Con la sua lunga esperienza, lei si sarà fatto anche un’idea del rabbinato italiano. Rispetto ai suoi maestri, quali le sembrano le qualità della nuova generazione, di coloro che avranno la responsabilità di aiutare e consigliare gli ebrei italiani anche nel prossimo futuro?

I rabbanim che sono stati i nostri maestri e che hanno guidato le comunità nella ricostruzione dopo la shoà ci hanno trasmesso dei principi  che sono sempre validi. Penso al consolidamento del Collegio Rabbinico, che presuppone una formazione accademica accanto al percorso degli studi di Torà, penso all’attenzione a tutto l’insieme delle Mizvot ben adam lachaverò, quelle verso il prossimo, come sviluppato nel testo “ Il valore etico delle Mizvot” che raccoglie l’insegnamento del mio Maestro Rav Sergio Yosef Sierra z.l. penso al valore del legame spirituale profondo con lo Stato d’Israele che si è sviluppato attraverso l’introduzione in tutte le comunità della Birkat Hamedinà, la preghiera per lo Stato d’Israele, in cui si afferma che questo è “Reshit tzemichat gheulatenu – Inizio della fioritura della nostra redenzione”; i nostri Maestri hanno da un lato retto le comunità in maniera da trovare punti di intesa e collaborazione con i diversi settori del pubblico comunitario, anche quelli meno sensibili agli aspetti più propriamente legati all’osservanza delle Mizvot, al tempo stesso hanno avviato un processo di insegnamento e sensibilizzazione alla shemirat mizvot di cui poi si sono visti i frutti, soprattutto nelle comunità maggiori. Quello di nuovo che è avvenuto successivamente, è stata l’importante apertura verso il mondo rabbinico d’Israele e dell’Europa e in alcuni casi fino agli USA, con la Yeshiva University,  in questa prospettiva si è avviata l’intensificazione del percorso di studi e di competenze nel campo di Talmud e Halakhà che rende oggi i giovani rabbanim italiani pienamente inseriti e riconosciuti nel più ampio contesto internazionale dell’ebraismo ortodosso, in grado di affrontare con ampia competenza di halakhà tutti i problemi più attuali che si possono porre in una comunità ebraica, nel concreto o in ipotesi di studio. Penso sia importante che questa apertura di relazioni e questo dispiego di più ampie prospettive con il mondo ebraico non rimanga solo un’esperienza circoscritta ad una ristretta leadership ma, anche attraverso i rabbanim, diventi sempre più un modo diverso di pensare e di operare nelle nostre Comunità.

La prima parte dell’inervita si può leggere qui

Leggi le altre tappe del viaggio: rav Arbib, rav Della Rocca, Rav Spagnoletto

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