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Una visione globale e unita per l’ebraismo italiano

Nella nostra quarta tappa nel rabbinato italiano, andiamo a Genova, guidata da oltre trent’anni da Rav Momigliano, un rabbino “di frontiera” a confronto con i problemi di una piccola ma storica comunità

Gentile rav Momigliano, per un ebreo romano, forse, la prima curiosità da soddisfare è: come si vive in una piccola comunità ebraica? Quali sono i suoi problemi quotidiani, e quelli più urgenti? È vero che le kheillà più piccole sono anche sostenute da una solidarietà, se non più forte, diciamo più continua?

Innanzitutto vorrei fare su questo argomento delle considerazioni più generali; penso che conoscere come si vive in una piccola Comunità possa essere per il pubblico di una Comunità grande qualcosa di più di una semplice curiosità, penso che sia  importante, non solo in quanto segno di attenzione verso queste realtà che affrontano il problema di come sopravvivere da un punto di vista ebraico, ma anche avendo presente che la programmazione di un futuro dell’ebraismo in Italia richiede a mio parere una visione globale, riguardante tutte le comunità o forse, meglio a dire, avendo come obiettivo il maggior coinvolgimento  di tutti gli ebrei, ovunque si trovino in questo paese, anche indipendentemente da quella che potrà essere di alcune piccole e piccolissime kehillot; effettivamente ci sono programmi che si pongono in quest’ottica, nell’Ucei e in diverse organizzazioni ebraiche, riguardanti ad esempio il settore giovani, educazione ebraica, cultura, zedakà, e altri campi, penso sarebbe importante che anche le singole Comunità, come istituzioni, iniziassero a progettare attività e iniziative in maniera un po’ più condivisa, per esempio su un ambito geografico interregionale, da un lato si tratterebbe per alcune piccole comunità di uscire da una sorta di isolamento anacronistico e di ritrovare attraverso progetti coordinati – un piccolo esempio è stata l’organizzazione della tefillà con minian di Rosh Chodeh alcuni anni fa – quelle occasioni di più intensa vitalità ebraica che  ormai ben difficilmente riescono a sperimentare, al tempo stesso per tutti l’opportunità di cogliere e dare maggior attenzione alle risorse umane, di esperienza, di impegno e tenacia che sono presenti anche in tante piccole kehillot, penso che il loro esempio possa dare forza anche a chi opera nelle grandi comunità. Per venire allo specifico, innanzitutto un breve sguardo sulla realtà della comunità di Genova, che conta sulla carta di circa 350 iscritti, in realtà molti  di questi, soprattutto giovani, sono persone che rimangono in qualche modo formalmente legate alla comunità di origine ma vivono in  tante altre parti del mondo, poi abbiamo una Sezione a La Spezia –con una storia interessante della “alyà bet” negli anni precedenti la nascita dello Stato d’Israele, c’è anche un piccolo oratorio aperto in alcune occasioni per la tefillà e incontri comunitari; registriamo presenze sporadiche, di singoli e famiglie sparse per le riviere liguri di Levante e di Ponente e nell’entroterra. In questa situazione, l’impegno è cercare di mantenere in maniera regolare momenti  fondamentali di vita ebraica a Genova malgrado il numero ridotto di persone,  questo significa, tra l’altro, preoccuparsi, tenendo i contatti necessari con le persone, che le tefillot possano svolgersi con minian almeno di Shabbat; poi si tratta di garantire il rifornimento regolare di carne e prodotti kasher, ultimamente abbiamo per esempio un problema serio per il pane, dal momento che a Genova quasi tutte le panetterie hanno avviato anche rivendita di prodotti di gastronomia per cui anche la garanzia del rivenditore che non producono alcun tipo di pane con strutto non ci rassicura più per niente rispetto ad altri tipi di contaminazioni taref; naturalmente c’è da organizzare il Talmud Torà per i pochi bambini e lezioni di Torà per adulti, ultimamente tutto su zoom; ci sono da seguire situazioni di anziani e persone che necessitano di interventi di sostegno di varia natura e in generale cercare di tenere il più possibile i contatti con gli iscritti. In passato la comunità trovava supporto e iniezione di vitalità da parte di un discreto gruppo di studenti universitari israeliani, negli ultimi anni queste presenze importanti sono venute meno, era, e si auspica possa tornare ad essere, un ponte tra noi e loro, in cui si formavano legami di amicizia  e accoglienza, a volte anche si sono formate nuove famiglie ebraiche, occasioni di incontro di esperienze diverse di vita ebraica che arricchivano gli uni e gli altri. Per quanto riguarda le dinamiche interne interpersonali, penso siano simili a quelle di altre comunità, ovviamente in una piccola kehilà ci si conosce tutti, problematiche ma anche talvolta rendere più radicate situazioni conflittuali.

Lei ha anche un’altra caratteristica: guida la stessa comunità da 35 anni (mazal tov!), e credo così che oggi il suo sia una specie di record, qui in Italia. È stato difficile svolgere questo ruolo per così tanto tempo?

Ho iniziato qui a Genova che ero piuttosto giovane e ho cercato di fare esperienza da situazioni e problemi affrontati e naturalmente anche da errori commessi;  problemi ce ne sono stati ovviamente tanti in questi anni, problemi delle piccole comunità, problemi legati all’assimilazione, problemi di scelte, di metodo, di misura, di comunicazione,  mi sono trovato spesso a dover decidere se si trattava di  questioni su cui – come rav – non  potevo fare rinunce e compromessi o se invece si dovessero trovare soluzioni compatibili con la situazione concreta del pubblico comunitario, mi è venuto a volte il pensiero di paragonare la situazione a quella di un medico che deve individuare la terapia, con il dubbio che se troppo forte non venga applicata, se troppo attenuata non serva a niente; problemi più specifici sono legati ad alcune caratteristiche della comunità di Genova, comunità piccola ma tuttavia composita per origini e provenienze, è un po’ come la città, un porto di mare, in cui persone singole e famiglie vengono e vanno nel corso degli anni, tanto che nel lungo periodo da cui mi trovo a Genova la composizione della comunità si è modificata parecchio. In questa situazione è più difficile lavorare per costruire il futuro della comunità, però la dimensione ridotta della comunità consente di creare legami comunque forti con le persone, che spesso si mantengono anche quando queste si trasferiscono, così mi capita in questi ultimi anni di celebrare matrimoni di giovani che ho seguito dall’infanzia, o di seguire benè mizvah figli di allievi in anni ormai lontani, anche se ora gli uni e gli altri vivono in tutt’altri luoghi. In una piccola comunità ci si rende conto di quanto  sia importante ogni singola persona,  che arriva o che se ne va, che si avvicina  o che si allontana; nel corso degli anni sono stato coinvolto o comunque testimone di tante situazioni complesse dagli esiti diversi, in alcuni casi laceranti, conflittuali, anche di grandi sofferenze, a volte penso che per una piccola comunità sia stata una concentrazione anomala di casi molto complessi che ci hanno per certi versi condizionato ma ci hanno anche dato non pochi insegnamenti di vita. Ovviamente la vita di un rav ha anche dei risvolti personali, che riguardano la propria famiglia, tanto più in una piccola comunità in cui anche la famiglia del rav può rappresentare un punto di riferimento, non è stato semplice compiere certe scelte di priorità di attenzione da dare ai propri compiti e responsabilità rispetto alla famiglia e non è stato semplice trovare lo spazio da riservare al privato quando si è esposti all’attenzione del pubblico.

Genova è città medaglia d’oro per la Resistenza. Come giudica i tempi che stiamo vivendo? A suo avviso, il pregiudizio e l’antisemitismo presenti in Italia sono gli stessi del passato? Si sente di essere ottimista per il futuro?

La città di Genova è medaglia d’oro della Resistenza per essere stata l’unica in cui le forze tedesche si sono arrese ai Partigiani; indubbiamente questi fatti hanno segnato l’identità della città nel dopoguerra, tuttavia, anche prima di questa drammatica crisi del covid, Genova ha vissuto anni molto difficili che hanno prodotto profondi cambiamenti sociali, economici e politici. Il rapporto con la Comunità ebraica è comunque rimasto positivo, il ricordo della shoà è molto sentito ma c’è interesse anche per la cultura ebraica, rappresentata dal Centro Culturale Primo Levi,  così pure l’organizzazione di Amicizia per Israele ha un buon seguito; in generale non ci sono stati qui episodi eclatanti di azioni e manifestazioni antiisraeliane. Per quanto riguarda l’antisemitismo, certamente le voci oggi sono diverse, tuttavia sia quando è rivolto contro ebrei indistintamente, sia quando è indirizzato contro Israele raccoglie pregiudizi atavici ed esprime in egual modo ignoranza, superficialità, incapacità di esprimere con maturità e competenza giudizi storici e di contenuto, per molti poi costituisce ancora una micidiale valvola di sfogo per pulsioni violente, personali e di gruppo, infine come sappiamo, è oggi possibile diffondere con assoluta facilità messaggi di odio e violenza. Altro discorso riguarda l’antisemitismo di matrice islamica che in altri paesi, come è noto, ha purtroppo conosciuto episodi orrendi, oltre a soggetti già appartenenti alle correnti più fanatiche dell’islam può attrarre anche persone confuse, con un’identità debole, in cerca di cosiddetti “ valori forti” e credono di trovarli nell’esercizio della violenza. In generale, sono molto preoccupato per il fatto che l’attenzione data al tema della Memoria della Shoà non sia andata andata al di là di coinvolgimento emotivo, di emozioni, ma non sembra aver sviluppato una capacità di approfondimento critico di fatti e idee e neppure un più forte senso etico, di impegno morale e di comportamento responsabile nella società. Per quanto riguarda l’impegno delle comunità ebraiche in questo campo, penso sia necessario far conoscere molto di più le diverse componenti storiche ed ideologiche dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo e quanto si siano radicate nel corso di millenni, è importante far conoscere quanto l’ebraismo ha dato allo sviluppo della civiltà ma bisogna anche manifestare, testimoniare che  l’ebraismo è qualcosa di vivo,  l’antisemitismo continuerà purtroppo ad esistere, non si combatte solo frontalmente, cioè nelle sue manifestazioni, penso che sia nostro compito contribuire a rafforzare la società civile, ad arricchirla proprio con il nostro essere ebrei e vivere come ebrei, con i nostri valori, pensiamo solo, ad esempio, al significato dello Shabbat nel mondo contemporaneo, all’importanza dello studio del Talmud come ricerca dei molteplici significati del testo,  di fronte al mondo, di fronte alle ricorrenti  espressioni di antisemitismo nelle sue varie forme attuali andiamo a testa alta non solo difendendo la causa d’Israele ma anche avendo ben chiaro che non intendiamo rinunciare a qualcosa del nostro,  che non siamo alla ricerca compromessi con la nostra identità ma, al contrario vogliamo esplicare e rappresentare le differenze che ci distinguono, con coscienza, serenità, preparazione e consapevolezza.

La seconda parte dell’intervista verrà pubblicata domani.

Leggi le altre tappe del viaggio: rav Arbib, rav Della Rocca, Rav Spagnoletto

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