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Questo discorso coinvolge non solo il rabbinato ma tutti i responsabili istituzionali dell’ebraismo italiano. Io non ho nessun ruolo istituzionale e posso parlare per me stesso: con la mia scelta ho deciso di essere al servizio della comunità, mettendo da subito in chiaro che un rav insegna Torà e come viverla. Perché credo veramente che questo possa dare i mezzi per allontanare l’ineluttabilità di un destino scritto o forse solo presunto. Nel corso degli anni ho formato, tra chi dimostrava idoneità, qualche chazan, ragazzi che leggono haftarot, anche con preparazione propria; ho sempre insegnato che il bet ha-keneset è il centro della nostra vita comunitaria nel quale sviluppare poi tutto il resto, insomma ho riproposto il modello nel quale mi sono formato io. Da quello che ho osservato negli ultimi tempi, non so se oggi un giovane rabbino, o che sta studiando per diventare tale, sia motivato o incentivato a essere di servizio nelle comunità piccole. Sarebbe ancora vitale se ci fossero e disponibili magari solo per qualche anno. Poi andare in un’altra comunità e così via. Questo accadeva in altri tempi quando le comunità erano molte di più. Poi, meno rabbini, meno comunità.

Quali sono secondo te le caratteristiche del rabbinato italiano?

rav Locci è rabbino capo a Padova da 23 anni

Non saprei se oggi possiamo definirci attraverso determinate caratteristiche. Credo che ci sia stato un tipo di rabbinato italiano fino all’800 e uno dopo. Più legato alla formazione talmudica prima e più umanista dopo. Azzardo una ipotesi: si trattò di una decisione presa scientemente per evitare che in Italia attecchisse la riforma. Questa scelta ha consentito di restare delle comunità ortodosse. Oggi dobbiamo essere grati ai nostri maestri che hanno garantito l’unità dell’ebraismo italiano sotto un unico tetto che si attiene alla Halakhà.

Ma il rabbinato italiano oggi secondo te vive un po’ isolato dal resto del rabbinato mondiale?

Guarda, i contatti ci sono, ognuno di noi li ha, sia con Israele che con i rabbinati europei e americani. Credo che tali contatti servano a fare rete e sostegno. Sono anche convinto che più esperienze abbiamo più possiamo dare una visione della halakhà chiara e unica per tutti.

Ritorniamo così al punto di prima. Insomma, quali dovrebbero essere le priorità da seguire per sostenere le piccole comunità?

Io credo che l’istituzione centrale debba essere a supporto di ogni nucleo ebraico sul territorio italiano, affinché possa avere tutti i servizi a disposizione. Anche quando le stesse Comunità non avvertono questa necessità e non chiedono nulla. Se c’è chi non sa fare la domanda, bisogna fargli aprire la bocca e fargliela fare.

ancora un particolare del Bet ha-kenesset di Padova

Oggi percepisci il rischio di emarginazione per alcune comunità?

C’è questo pericolo. E fra poco anche per quelle comunità che oggi hanno ancora un Rav: se dovesse andare in pensione, chi ci sarà per subentrare? Chi potrà continuare, onorando il lavoro di chi l’ha preceduto e mantenere quello che si è fatto e magari accrescere, migliorare o anche cambiare se qualcosa non andasse bene? Occorre provare a recuperare il terreno perduto, fare magari un grande censimento delle piccole comunità, prima quelle senza il Rav, per conoscere lo stato attuale di ogni singolo iscritto.

Come vedi il futuro allora?

Penso che tutti abbiano diritto di credere in un futuro. C’è bisogno di impegno e volontà, nonché una buona dose di capacità di servizio per il bene comune specialmente se si occupano ruoli istituzionali nazionali.

Per alcuni una possibile soluzione passa per una diversa politica sui ghiurim.

Per me, se vogliamo usare il termine “politica”, riguardo le conversioni deve essere “passiva”.

Che intendi?

Non siamo noi a dover sollecitare o incentivare il ghiur. È la persona interessata che si deve farsi avanti. È un presupposto fondamentale. La nostra è una pratica passiva, nel senso che si risponde alla domanda. Il principio fondamentale da seguire è che chi si converte deve dimostrare di vivere ebraicamente. Dovrà dimostrare di osservare e anche essere di esempio per chi non osserva. È altrettanto fondamentale che, nelle comunità, ci siano le opportunità per rispettare le miztvoth. Vanno fatte valutazioni serie, chi chiede la conversione deve essere consapevole di queste cose. Più siamo chiari e più le decisioni del rabbinato saranno accettate e meno soggette a interpretazioni.

una riunione del consiglio Ucei, che oggi si insedia dopo il voto del 17 ottobre

Per concludere, che augurio fai all’ebraismo italiano, nel giorno in cui si insedia il nuovo consiglio Ucei?

Volutamente voglio essere banale. Auspico che il nuovo Consiglio sia foriero di iniziative volte a rianimare le piccole Comunità senza perdere di vista le necessita delle grandi e soprattutto che dall’UCEI arrivi ben chiaro per tutti il messaggio che lo studio della Torà, l’osservanza della Torà, sono la base costitutiva della nostra vita Comunitaria.

 

Questa è la ventesima tappa del nostro viaggio nel rabbinato italiano.

Per leggere le altre tappe del viaggio:

Rav Alfonso Arbib, Rav Della Rocca, Rav Momigliano (qui e qui), Rav Spagnoletto, Rav Dayan (qui e qui), Rav Di Porto, Rav G. Piperno, Rav Sermoneta, Rav  Somekh, Rav Hazan, Rav Punturello, Rav Caro, Rav U. Piperno,  Rav Lazar, Rav Finzi, Rav Canarutto, Rav Ascoli , rav Di Martino e rav Pino Arbib

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