Portare la cultura italiana in Israele
Davide Denina è da meno di un anno il nuovo direttore dell’Istituto italiano di cultura ad Haifa. A Riflessi racconta la sua prima esperienza internazionale
Davide Denina, a 33 lei è uno dei nuovi direttori nominati dal Ministero degli esteri per guidare gli Istituti italiani di cultura (IIC) nel mondo. Innanzitutto, come si diventa direttore di un IIC?
Il mio percorso è stato il seguente: sono nato a Novara, e ho fatto gli studi prima all’università Bologna, nella sede di Forlì, per poi completarli a Bologna, laureandomi in Relazioni internazionali; in mezzo, alcune esperienze all’estero: a Madrid con l’Erasmus, e poi a S. Barbara, in California, con il programma Overseas, la prova dell’eccellenza delle nostre università pubbliche.
E poi?
Dopo la laurea ho preso il tesserino da giornalista professionista alla scuola di giornalismo di Perugia, ma mi sono presto reso conto che non c’erano molte opportunità; così ho provato il concorso pubblico bandito dalla Farnesina. Insomma, la mia è stata una scelta dettata in parte dall’interesse, e in parte dalla necessità; come si sa, nella vita occorre anche essere un po’ pragmatici.
Che tipo di concorso è quello che porta a dirigere un centro di cultura italiano nel mondo?
È un concorso per promotori culturali, chi lo vince diventa funzionario Ministero degli affari esteri, con un ruolo di promozione della lingua e della cultura italiana nel mondo. Si passano circa 2 anni in sede, a Roma, dopo si parte con ruoli dirigenziali negli IIC nel mondo, che sono 83. Poi si può scegliere se continuare a viaggiare o se tornare in sede. Sono cicli di al massimo 10 anni, tra un rientro a Roma e l’altro.
E così ha vinto il concorso, ed è finito in Israele.
Più o meno. Ho vinto il concorso nel 2019, sono rimasto in sede nella mia prima fase, e quando è arrivato il momento di lasciare Roma, ho indicato alcune località dove sarei voluto andare.
Immagino che Haifa sia stata la sua prima scelta…
Be’, non proprio… come ho detto, bisogna saper essere pragmatici. Al momento di scegliere dovevo indicare una rosa di possibilità. Ho scelto Israele sia perché non volevo restare a Roma e desideravo fare l’esperienza all’estero, ma sapevo che le sedi europee erano molto ambite. Ho pensato che Israele non è molto lontana dall’Italia e, considerata una sede disagiata, avrebbe aumentato le possibilità di essere accolta, poiché i candidati erano di meno.
Questo mi incuriosisce. Perché Israele viene considerata dal ministero degli esteri sede disagiata?
Le sedi meno facili sono classificate in: disagiate, particolarmente disagiate, belliche. Immagino che Israele, per via del conflitto con i palestinesi, abbia quella classificazione.
Poi ci torneremo. Intanto: che effetto le ha fatto sapere che sarebbe andato ad Haifa?
Dico la verità: la prima cosa che ho fatto è cercare Haifa su una cartina geografica! In effetti, sono arrivato qui conoscendo molto poco la storia e la cultura locale. Il mio è stato un arrivo abbastanza inaspettato, e non avevo idea di quello che avrei vissuto. Qui non ho vincoli familiari, non ho parenti ebrei, io sono cattolico, sebbene non molto praticante.
Da quanto tempo è ad Haifa?
Poco meno di un anno.
Allora ora avrà cominciato a farsi un’idea.
Certo, anche se so che devo imparare ancora molto; del resto ho almeno altri tre anni da passare qui. Prima di arrivare le uniche cose che sapevo di Israele erano quelle apprese all’università: il conflitto e la terribile realtà della Shoah, che credo ormai appartenga alla memoria di tutti gli italiani, perché viene spiegata e insegnata affinché gli studenti ne prendano la consapevolezza, non solo nel percorso formativo. E poi conoscevo qualcosa legato alla tradizione cristiana: Acri, le crociate, i francescani di Terra santa.
Immagino che, arrivando, starà imparando che la realtà è moto più complessa e varia. Su quali linee di attività sta svolgendo la sua azione?
Ho iniziato guardandomi attorno. Poi ho sviluppato collaborazioni sul territorio, per evitare il rischio di essere un ente avulso dal contesto locale. Non dobbiamo infatti mai dimenticare di ciò che c’è attorno. Io credo molto nella collaborazione con il territorio, altrimenti non si incide.
Qualche esempio?
In questi 11 mesi ho inaugurato un festival d’organo, visto che qui, tra Nazareth e Tiberiade, c’è comunità cristiana. Poi abbiamo fatto delle collaborazioni con musei Haifa; abbiamo finanziato una mostra di Adrian Paci, artista italo-albanese, sensibile ai temi della memoria e della religione, e all’idea di sradicamento. La mostra si svolge all’Haifa Museum art, e abbiamo finanziato un grosso contributo. Inoltre abbiamo inaugurato una nostra mostra in istituto, che vede al centro le immagini delle prime emigrazioni del dopoguerra, dall’Italia in Israele. Per riuscirci abbiamo comprato i file dagli Alinari, fatti stampare da un artigiano italiano, che rappresentano le prime aliyot, da Genova e da Trieste, tra il 1948 e il 1960. Siamo già in contatto con il museo dell’ebraismo italiano e abbiamo dato loro la disponibilità a far entrare la mostra in un circuito, per consentirne la visione in altre parti del Paese. Il 25 aprile abbiamo invitato lo scrittore Paolo Colagrande, che aveva scritto sulla comunità ebraica di Modena. Per l’estate stiamo organizzando un revival del 1982, con la vittoria dell’Italia ai mondiali di calcio, perché al mundial spagnolo c’erano arbitri e guardalinee ebrei, e proveremo a invitare i protagonisti di quella partita.
Mi sembra che allora adesso la sua idea di Israele cominci a farsi più completa.
Certo. In questi mesi ho girato il Paese, il caldo e l’umidità qui è inimmaginabile d’estate, e questo è stato il primo impatto. Ho girato a nord, poi a Tel aviv, sul mar Morto, di novo in Galilea, a Tiberiade, sul Golan. Mi incuriosiscono i luoghi religiosi, e quelli legati alla formazione dello Stato ebraico.
Cosa le sembra degli ebrei, come popolo?
Noto che, rispetto a noi italiani, l’identità ebraica è meno definita, o se vuole più varia. Noi italiani abbiamo un’identità precisa ormai, perché siamo uno Stato più antico, qui invece il carattere dell’israeliano medio è molto complicato da definire, perché ci sono varie componenti: ashkenaziti, etiopi, mizrachi, ultraortodossi, sefarditi… Sentirsi israeliani mi sembra che significhi far parte di una comunità nazionale che nasce altrove, che è emigrata ed è stata accolta…è una narrazione concretamente diversa da quella su cui si è formata il pensiero nazionale europeo. C’è poi un concetto molto diverso di cortesia, un’altra cosa che mi ha molto colpito. Qui c’è un modo di fare molto diretto, direi a volte quasi brutale, in ogni caso onesto, schietto. Insomma, i rapporti sono molto più diretti.
Ama la cucina israeliana?
Sì, mi piace. Amo soprattutto l’humus, il tabullè, le spezie, i cibi con tante salse, i dolci con miele. Da italiano, devo ammettere che in Israele si mangia bene.
Nella sua attività ha come obiettivo anche quello di rappresentare la realtà palestinese?
No. Noi siamo accreditati in Israele e lavoriamo con lo Stato ebraico, non ci spostiamo nei territori palestinesi. Per questo so che c’è un consolato a Gerusalemme, ma non riguarda la mia attività. Anche se è vero che, facendo promozione linguistica dell’italiano, soprattutto ad Haifa, sono molti gli studenti delle comunità arabe che studiano italiano da noi, con docenti italiani, e che poi vengono in Italia. Attualmente sono circa 70.
Come giudica la realtà di Haifa?
Qui si confrontano due dimensioni: da un lato la generazione degli ebrei più anziani, soprattutto di quelli che vennero a fare l’Alyà negli anni ’70; dall’altro i giovani, gli studenti che fanno il dottorato al Technion di Haifa.
Come ci vedono gli israeliani?
L’Italia qui molto amata, quasi per motivi stereotipati: la bellezza del Paese, evidente. Molti sono stati in Italia, perché gli israeliani viaggiano molto. Poi credo che siamo molto amati perché non siamo mai stati una potenza coloniale, da queste parti. E poi, forse, c’è una certa comunanza di carattere con gli israeliani, perché mi pare che italiani ed ebrei si assomiglino nell’essere istrioni, amicali, espansivi.
Ci sono italiani che vivono da queste parti?
Qualcuno sì. I motivi per cui vengono a vivere qui però credo siano molto vari. Ci sono persone che abbandonano l’Italia in età matura magari per un contrasto familiare, per ricominciare in un posto completamente diverso. Forse c’è anche una fascinazione per uno stato giovane, moderno, dove c’è molto lavoro, e dove la qualità della vita è migliore rispetto ai Paesi circostanti, pieno di energia.
Per spaerne di più: IIC Haifa