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Cos’ha di diverso questo 25 aprile da tutti gli altri?

Quest’anno la Festa della Liberazione viene celebrata tra censure, boicottaggi, estremismi e molta ignoranza. Da dove ricominciare per difendere un’esatta coscienza storica dei fatti e rafforzare la coscienza civile del paese? Ne parliamo con lo storico Alberto Cavaglion

Alberto, che 25 aprile è quello di quest’anno per gli ebrei italiani?

Alberto Cavaglion insegna storia dell’ebraismo all’università di Firenze

Non saprei dirti. Rispondo alle tue domande il 22 di aprile: nessuno di noi immagina che cosa può accadere nei prossimi tre giorni; ormai si vive alla giornata. Di certo è un ben triste 25 aprile. Sui giornali oggi vedo gridare alla censura fascista per il monologo di Scurati, personaggio che io fatico a immaginare come un Piero Gobetti dei nostri giorni. Di qui al 25 ne spunteranno altre di notizie dello stesso tenore. Siamo sull’orlo di un precipizio e noi ci perdiamo dietro Scurati o Lollobrigida. Il “Manifesto” lancia a Milano un 25 aprile come quello del 1994 contro Berlusconi. Uno dei difetti principali dell’antifascismo italiano, di ieri come di oggi, consiste da un lato nel sopravalutare i risultati delle proprie azioni e dall’altro nello sbagliare bersagli. Un monologo antifascista contro Khamenei non avrebbe bisogno di essere censurato, perché nessuno Scurati oserebbe proporlo.

Antonio Scurati

In effetti, il trauma del 7 ottobre sembra allungare i suoi veleni anche sul nostro 25 aprile.

Dal 7 ottobre a oggi, io sono ammutolito, soggiogato dagli eventi, esterrefatto dalla leggerezza di chi invece trova la forza e direi anche la tracotanza di dirti che ha capito tutto e ti spiega quello che succede o succederà. Posso dirti che c’è da essere poco ottimisti sia di fronte allo scenario italiano, sia di fronte allo scenario internazionale. Davanti alle giuste recriminazioni contro i rigurgiti fascisti, deprime vedere sia Meloni non adoperare la parola antifascismo sia Luciano Canfora guardarsi bene dal definire nazifascisti (nei fatti, e non solo “nell’animo”) i metodi di Hamas, di Putin e degli ayatollah iraniani. Ho aspettato invano – che illusione! – che qualcuno timidamente dicesse ai giovani che l’omicidio di Naval’nyj evoca il delitto Matteotti o la resistenza delle donne iraniane sia da assimilare alla resistenza delle donne durante la Resistenza studiate in un bel libro da Benedetta Tobagi.

La Resistenza delle donne, di Benedetta Tobagi (Einaudi)

Una delle interpretazioni che si ascoltano nel mondo di un certo associazionismo più radicale è che i partigiani volessero la pace, quasi a disconoscere l’intervento militare contro il nazifascismo. È davvero così?

Questa è una colossale stupidaggine. Lo vado ripetendo da anni e quanto sta accadendo rafforza la mia convinzione: l’Italia avrebbe bisogno di un movimento pacifista più serio, munito di una più salda coscienza storica. È del tutto evidente che la Resistenza fu lotta armata. Senza nulla togliere all’importanza della cosiddetta “Resistenza civile”, ci siamo tutti scordati del corso accelerato che i nostri padri dovettero seguire dopo l’8 settembre per imparare a imbracciare un’arma. Rileggere I piccoli maestri di Meneghello può rappresentare un utile ripasso per i pacifisti alla Santoro (o, cosa che mi addolora, alla Marco Revelli, il figlio del grande Nuto). Ho sentito negli ultimi anni molti figli di partigiani, anche leaders dell’Anpi, dire che i loro padri salivano in montagna perché volevano la pace.

Nuto Revelli (1919-2004)

Come avrebbe potuto essere diversamente? Ma senza l’insegnamento dei loro maestri, dei loro fratelli maggiori non avrebbero potuto apprendere le regole della “guerra per bande”. Negli ultimi mesi ho avuto modo di occuparmi ancora una volta di Meneghello e dei suoi “piccoli maestri”. In particolar modo ho studiato il rapporto stretto che vi fu tra Meneghello e Antonio Giuriolo: “Credo che di maestri di simile tempra ce ne siano stati in ogni parte d’Italia pochi bensì, ma non pochissimi. Dietro a ogni gruppo di studenti partigiani o resistenti si sente (qualche volta si sa) che ce n’è stato uno; e penso che sarebbe importante studiarli, ricostruire bene la loro cultura, riconoscere le loro scelte, l’origine e la tempra del loro non-conformismo, rintracciare la storia delle loro libere scuole e gli effetti della loro influenza. […] Sono convinto invece che c’è proprio qui la chiave per capire come avviene realmente la trasmissione della cultura”.

“Piccoli maestri”, di Luigi Meneghello

Questi insegnamenti sono ancora attuali, oggi?

Quanto servirebbe ai ragazzi delle università la lezione di un maestro come Antonio Giuriolo, che era anti-militarista, ma di una pasta diversa dei pacifisti alla Tarquini. La scelta resistenziale per Meneghello aveva una componente espiativa, cosa che manca del tutto nei sedicenti antifascisti odierni e nei movimenti per la pace: “Oggi si vede bene che volevamo soprattutto punirci. La parte ascetica, selvaggia, della nostra esperienza significa questo. Ci pareva confusamente che per ciò che era accaduto in Italia qualcuno dovesse almeno soffrire; in certi momenti sembrava un esercizio personale di mortificazione, in altri un compito civico. Era come se dovessimo portare noi il peso dell’Italia e dei suoi guai, e del resto anche letteralmente io non ho mai portato e trasportato tanto in vita mia: farine, esplosivi, pignatte, mazzi di bombe incendiarie, munizioni.

l libro di Cavaglion sulla figura di Giuriolo

Era un cumulo grottesco. In cima a tutto c’erano le pentole soprannumerarie, la corda, gli ombrelli ripiegati dei paracadute; sotto il grande strato dei sacchi dei viveri; sotto ancora lo zaino rigonfio, pieno di calze e di palle; e sotto lo zaino, io”.

Uno dei nodi dolenti riguarda la presenza della Brigata ebraica ai cortei della Liberazione. Il contributo della Brigata fu marginale nella liberazione dell’Italia?

Su questo punto consentimi di sorvolare. Abbiamo già visto tutto. Quello che sta accadendo dopo il 7 ottobre è un’altra storia: tutto è cambiato.

Da storico, cosa ti fa pensare questa forma di radicalismo ideologico, per cui oggi in piazza il 25 aprile hanno diritto di comparire le bandiere palestinesi, ma non quella della Brigata ebraica? Vi leggi i germi dell’antisemitismo?

contestazione dei pro Pal alla Brigata ebraica il 25 aprile a Milano

Mi interessa e mi inquieta il mondo delle università, si respira un clima plumbeo che mi ricorda il clima fosco dei tardi anni Settanta. Oggi l’estremismo scivola dai No vax al Me-too al Free Palestine come se niente fosse: a tenere insieme la protesta è sempre l’aggressività, la stessa che ho sperimentato sulla mia pelle nella Torino dei Settanta, la poca propensione ad ascoltare le idee degli altri. La cosa che più rattrista è la pavidità di molta parte del mondo accademico, un vero tradimento dei chierici. Ci sono state per fortuna eccezioni, ma il conformismo domina ancora molti settori universitari. Un senato accademico, sia chiaro, è libero di boicottare questo o quell’altro progetto di cooperazione, ci mancherebbe, ma non può farlo sotto la minaccia di chi urla e lo induce con la forza alla sottomissione. La mia università, Torino, dove mi sono laureato, dove ho trascorso anni molto belli in giovinezza, ha dato una pessima rappresentazione di se stessa. Vorrei approfittare di questa intervista per avanzare una modesta proposta.

il Senato accademico dell’Università di Torino ha di fatto ceduto alle pressioni di un movimento che si definisce antisionista, votando la mancata partecipazione ai bandi MAECI di collaborazione con le università israeliane

Quale?

Sto seriamente pensando di togliere dagli atti di un convegno torinese una mia relazione che sta per andare in stampa. La sinistra una volta era capace di azioni di obiezione di coscienza. Chiaro che non dovrei essere io a promuovere un’azione del genere e nemmeno altri storici contemporaneisti ebrei. Sarebbe bello che, proprio in coincidenza del 25 aprile, la protesta fosse sottoscritta dalle storiche e dagli storici dell’antifascismo. Primi fra gli altri, le storiche e gli storici della Resistenza.

Per tornare ai partigiani, quale fu il contributo dell’ebraismo italiano alla Resistenza?

25 aprile 2023: lo striscione della Brigata ebraica a porta S. Paolo

Ti rispondo rinviando a un bel libro di alcuni anni: la biografia di Pino Levi Cavaglione. L’hanno scritto Lidia Maggioli e Antonio Mazzoni (Edizioni Metauro, pref. di Pupa Garribba). Il libro prende il titolo dal ponte situato lungo la linea Roma-Formia (“Il ponte sette luci”), fatto saltare dai partigiani nella notte fra il 20 e il 21 dicembre 1944. L’attentato produsse più di 400 vittime. A questo episodio si è ispirato Nanni Loy per un film di successo, “Un giorno da leoni” (1961). La cosa da dire è che la scelta di Pino è fra quei casi unici, ma non rari, di giovani che scelsero di diventare partigiani in conseguenza della deportazione dei genitori. Le righe che scrisse, poco prima di morire per l’ultima edizione del diario (Il melangolo) fanno venire i brividi alla schiena. Mi sono sempre molto interrogato, in questi anni, sul tema della violenza e come ti dicevo critico coloro che, parlando di Resistenza, sono soliti distinguere una violenza buona e una violenza cattiva. I partigiani per avere la pace presero in mano le armi e usarono la violenza. La violenza è violenza e basta. In guerra gli individui si trasformano, quale che sia la parte cui appartengono. Pino Levi Cavaglione fu per tutta la vita segnato dall’episodio del Ponte sette luci: “Io ho lottato perché di non avere più riparo nel passato, né garanzia né impegni; perché volevo vendicare mia madre e mio padre e le innumerevoli vittime dei tedeschi e dei fascisti.

Pino Levi Cavaglione (1911-1971), di recente anche lui al centro della ricerca Cdec sui resistenti ebrei

Se gli italiani non avessero provato un brivido di sdegno alle notizie delle uccisioni di massa (…) non vi sarebbe stata quella rottura del normale equilibrio fra il pensiero e l’azione dalla quale fermentò l’iniziativa omicida senza remissione e senza scampo, indispensabile per il combattimento. Ma oggi tutto è avvolto nelle nebbie del passato. Io stesso, che non avevo mai sparato prima e non ho più sparato dopo il 1944 ad alcun essere vivente, io stesso considero il Pino di allora un uomo diverso, e a me ormai del tutto estraneo. La mia speranza e l’impegno sono oggi rivolti a far sì che l’odio dell’uomo verso l’uomo scompaia per sempre”.

Possiamo citare questo esempio come uno dei casi di “Resistenza ebraica” al nazifascismo?

Emanuele Artom (1915-1944), storico e partigiano

Quanto vi fosse di ebraico, in casi come questo, o ancora di più, per esempio, nel diario partigiano di Emanuele Artom, è molto difficile dire. Il discorso ci porterebbe lontano, al tema dell’antifascismo ebraico, di cui mi ero occupato alcuni anni fa. L’ebraismo è un poliedro, possono definirsi legittimamente ebraici percorsi biografici fra loro anche molto differenti. Per quanto riguarda ciò che è accaduto in Italia intanto va distinto un primo periodo, dalla presa del potere di Mussolini alla sua caduta (quello che io chiamo antifascismo “storico”), da un secondo, quello che va dall’8 settembre alla Liberazione (quello che io chiamo, con Meneghello, antifascismo “espiativo”, dettato dalla lezione delle cose, dalla sconfitta militare in primo luogo). L’apporto ebraico numericamente è stato in entrambi i casi ammirevole, anche se a ispirarlo, lo ripeto benevolmente da tanti anni, l’anelito biblico alla libertà non ha avuto lo stesso peso di altre “religioni della libertà”, quella di Croce in primo luogo. In tutta sincerità non ho incontrato nel mio lavoro maestri di ebraismo biblico capaci di scuotere con la lettura di Esodo partigiani ebrei che salivano in montagna. Maestri paragonabili a quello che è stato Giuriolo per Meneghello o Chiodi per Fenoglio.

Luigi Meneghello (1922-2007)

Posso chiederti un auspicio per il prossimo futuro?

In queste settimane e mesi sono inseguito da una immagine. Tu sai quanto mi stia a cuore la letteratura o meglio quanto mi stia a cuore l’uso della letteratura in favore di una storiografia “positiva”. Mi è capitato spesso di essere colpito dallo sguardo, dagli occhi di qualcuno che soffre. Come si può umanamente reggere lo sguardo davanti agli occhi del famigliare di un ostaggio rapito, di una mamma di Gaza che piange il suo bambino? Non è facile nemmeno sostenere lo sguardo davanti agli occhi volti al cielo degli abitanti di Tel Aviv sotto i droni iraniani o viceversa di chi guarda i cieli dell’Iran sotto i droni israeliani, anche se in questo ultimo caso vi è una differenza che, in prossimità del 25 aprile, andrebbe rilevata. I giovani, le ragazze di Teheran che da anni combattono per la loro libertà, forse guardano verso il cielo con occhi non diversi dei miei nonni che non temevano anzi incoraggiavano i bombardamenti anglo-americani, perché vedevano avvicinarsi la Liberazione. C’è un ultimo sguardo infine da ricordare.

Uno dei libri di Cavaglion, “La Resistenza spiegata a mia figlia”

Di che si tratta?

Qualche settimana fa, a Roma, con la mia cara amica Silvia Berti, ragionavamo sconsolati sulla tragedia che stiamo vivendo. Ci è capitato di rievocare un video che entrambi avevamo da poco rivisto. Si tratta delle immagini del 1977, in cui si vede Menachem Begin, proprio lui, il cattivo Begin, all’aeroporto di Tel Aviv: scruta il cielo, con i suoi occhi gelidi ma speranzosi, in attesa dell’aereo che porterà Sadat allo storico incontro di pace. “Verrà, non verrà?”, sembrano dire quegli occhi verso il cielo. Tu sai quanto io ami la storiografia “positiva”, cerco di applicarla sempre e ovunque.

Begin, Carter e Sadat a Camp David nel 1978

Quello sguardo di pace vorrei oggi contrapporlo agli sguardi di odio e di rancore che ci perseguitano. In mezzo a tanti snodi di guerra, di attentati, di morti e di lutti mi piacerebbe che coloro che hanno a cuore le sorti del Medio Oriente fissassero il loro sguardo interpretativo su quell’aereo di Sadat, su che cosa avrebbe potuto essere la pace fra arabi e israeliani se a quel volo dal Cairo ne fossero seguiti altri. Il cielo oggi non sarebbe pieno di così tanti droni. Se gli studenti dell’Università di Torino mi invitassero a una loro assemblea, e se naturalmente mi lasciassero parlare, mostrerei prima di parlare quel video.

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