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Pesach: contro ogni schiavitù, per la libertà di tutti

Secondo il Talmud il primo comandamento dato agli ebrei, quando sono ancora in Egitto, è di liberare gli schiavi. Rav Michael Ascoli ci fa comprendere, come sempre, l’attualità della Torà

“Pesach”, di Lele Luzzati

Tutti sappiamo che a Pesach celebriamo l’uscita dall’Egitto, “tempo della nostra libertà”, affrancamento dalla schiavitù egiziana. Meno noto è l’insegnamento del Talmud Yerushalmì, secondo il quale la liberazione degli schiavi fu il primo comandamento che gli israeliti ricevettero, quando ancora si trovavano in Egitto (TY Rosh haShanà, cap. 3, halakhà 5).

Il Talmud elabora questo insegnamento da un versetto molto particolare, sia per il fatto che costituisce un paragrafo a sé nella Torà, sia per la sua formulazione: “Il Signore parlò a Moshè e a Aharòn e comandò loro riguardo ai figli di Israele e al faraone re d’Egitto per far uscire i figli di Israele dall’Egitto” (Es. 6:13).

Non è infatti esplicito cosa il Signore comandò riguardo ai figli di Israele e il Talmud ne deduce che si trattasse dell’ordine di liberare i propri schiavi. Può sembrare strano che gli ebrei, schiavi in Egitto, avessero a loro volta degli schiavi. Tuttavia la storia ci insegna, tristemente, che all’interno di sistemi schiavisti possono esistere gerarchie.

Ramses II, faraone in Egitto orientativamente ai tempi dell’Esodo

Al di là di quanto storicamente verosimile sia il fatto, è il principio sancito dal Talmud che conta: prima di poter parlare della propria libertà occorre esser certi di non negarla ad altri; prima di uscire dalla schiavitù egiziana, occorre far uscire i propri schiavi.

Il brano talmudico prosegue citando un passo di Geremia nel quale si associano gravi punizioni per il popolo di Israele, compresa la perdita dell’indipendenza, alla mancata liberazione degli schiavi (Ger. Cap. 34). A ben guardare, questa è l’applicazione del principio generale caro ai nostri Maestri per il quale “nel modo in cui una persona si comporta, così ci si comporta con lei”.

Dunque, liberare altri dall’oppressione che si provoca loro, è premessa necessaria per la propria liberazione. L’idea è sottolineata nel brano del Decalogo: “Io sono il Signore tuo D-o che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla casa degli schiavi” (Es. 20:2). La casa degli schiavi è un sistema, è la concezione della società. Ci si può allora chiedere perché la Torà non abbia direttamente abolito del tutto la schiavitù.

Rav Shmuel David Luzzatto (1800-1865), fondatore del Collegio rabbinico italiano

Occorre al riguardo richiamare un principio esegetico secondo il quale si devono considerare gli insegnamenti della Torà in relazione, e spesso in contrasto, con quanto vigeva nella società circostante. Nelle parole di Shadal: “la Torà impiega il linguaggio degli uomini secondo l’intelligenza degli uomini della generazione in cui vive il profeta”. Lungi dal relegare al passato le regole della Torà, questo approccio ci impone di considerarne l’eterna attuazione nelle mutevoli circostanze.

Subito dopo il brano del Decalogo, abbiamo la parashà di Mishpatìm che contiene una serie di norme pratiche, ad iniziare proprio da quelle relative allo schiavo. Così commenta al riguardo Shadal: “la Torà, le cui vie sono vie di dolcezza e misericordia, apre i propri statuti con quelli relativi allo schiavo e alla schiava, che anticamente erano considerati alla stregua delle bestie, e il giudice non si occupava di loro né combatteva le loro battaglie contro i loro padroni”.

Quest’anno la tavola del seder per molte famiglie in Israele sarà senza i loro cari, ancora rapiti a Gaza

La Torà stabilisce invece una serie di misure a salvaguardia degli schiavi ebrei, che fa arrivare i Maestri ad esclamare iperbolicamente che “chi acquista uno schiavo ebreo è come se comprasse per se stesso un padrone” (TB Qiddushìn 20a). Inoltre, anche gli schiavi non ebrei (“cananei”) vengono inseriti all’interno di un sistema regolamentato, che può eventualmente evolvere perfino nell’ingresso dello schiavo, una volta affrancato, all’interno del popolo di Israele.

La prolungata tragedia degli ostaggi in mano ai terroristi di Hamas ci ha riportato in modo drammaticamente tangibile al significato più immediato di “libertà”. Le nostre preghiere e il nostro impegno per la loro liberazione non devono venire meno. Al contempo, questa vicenda tremenda deve spingerci ad indagare come lenire forme di oppressione presenti nella società contemporanea, a livello individuale e collettivo.

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