Riscopriamo il confronto
Lia Tagliacozzo, scrittrice, da sempre è impegnata nel mantenimento non rituale della memoria, e per un ebraismo più aperto e disponibile al riconoscimento reciproco
Lia, da molti anni sei impegnata, come scrittrice e non solo, a ricostruire la nostra memoria collettiva, con una curiosità intellettuale che ti ha fatto passare per varie esperienze.
Attualmente sono tornata a collaborare più strettamente con Sorgente di vita. Per anni invece ho lavorato al Dipartimento relazioni esterne dell’Ucei, ho scritto per il manifesto e per varie testate e come ricordavi ho pubblicato una serie di libri, sia per adulti che per ragazzi.
Il tuo ultimo libro è intitolato “La generazione del deserto”(Manni), per descrivere quella nata dopo la guerra. È una definizione che colpisce, perché potremmo pensare che gli ebrei usciti dalla guerra avessero riconquistato la libertà.
La mia generazione, che poi è quella dei baby boomers, coloro per i quali si pensava che tutto fosse possibile e che fosse tutto facile, si è dimostrata alla prova dei fatti impegnata invece in una prova difficile. Noi siamo nati dopo la persecuzione, ed è vero, il male della Shoah era finito, ma in realtà io credo che da lì noi non siamo ancora del tutti liberati.
Cosa intendi?
La mia generazione vive anche, anche se certo non solo, di paure e preoccupazioni che non sono le sue, di ricordi che non sono i propri. Quello che ho fatto in questo libro, che parla di silenzi protettivi, è interrogarmi sulla reale libertà dalla Shoah. L’ho scritto per raccontare questa riflessione, e calarla dentro la storia della mia famiglia, una storia in buona parte taciuta. La mia proposta di lettura è che noi, di quella generazione, non siamo certo schiavi ma forse neppure del tutto liberi.
Mi puoi accennare a questa tua storia familiare?
Nel libro racconto la storia delle tre famiglie da cui provengo. La prima è quella romana, dei Tagliacozzo, devastata dalla persecuzione: il 16 ottobre la sorella di mio padre, la mia bisnonna e uno zio di mio padre furono deportati, mio nonno fu deportato a febbraio del ’44, a causa di una delazione. La seconda famiglia è quella di mia madre, i Cividalli di origini ferraresi, che si salvò grazie a un fattore che la nascose, fino a che lei poté fuggire in Svizzera e che poi è stato insignito del titolo Giusto tra le nazioni. La terza famiglia, della mia nonna materna Miranda Servi, porta a Firenze, dove riuscirono a salvarsi – con echi dolorosissimi – grazie alla protezione di non ebrei, credo collegati alla rete di mons. Elia Della Casa e della chiesa valdese.
Cosa ci dicono questa storie?
Che la Shoah in Italia è passata anche attraverso l’infamità di singoli e di Giusti. Intendo dire che nel mio passato vedo la stessa pluralità dei destini di molte altre famiglie ebraiche italiane. Certo la mia storia non è un paradigma, ma ugualmente un’occasione per parlare della storia collettiva. Avevo l’esigenza di trovare delle risposte a domande non solo mie: dopo l’ultimo libro, il ritorno che ho avuto è stato molto forte, alcuni lettori, che si sono riconosciuti in quelle pagine e in quegli interrogativi. Penso così di essere riuscita a mettere su carta i dubbi, i sogni e gli incubi di una generazione.
Come mai questo interesse per memoria e storia?
Da sempre sono interessata alla storia e alla memoria, la mia attenzione ai temi della Shoah è antica, nasce dai miei studi universitari, che poi ho approfondito con il mio “mestiere”: i primi libri che ho scritto sono stati infatti libri per bambini proprio sulla Shoah. Raccontano tutte storie vere, con un doppio registro, perché ho raccontato sempre storie vere, a volte però calate in un impianto narrativo.
È difficile parlare di Shoah ai bambini?
Come ti dicevo ormai ho una esperienza pluridecennale, soprattutto nelle scuole elementari. Direi che è necessario raccontare la verità senza indulgere nell’orrore che non serve a nulla. I bambini tra l’altro possono tranquillamente comprendere la doppia faccia della memoria da un lato e della storia dall’altro: si tratta infatti di raccontare memorie e storie personali, riuscendo a inserirle nella storia collettiva. Io sono convinta che la Shoah non sia una parte della storia ebraica ma di quella europea. E allora noi adulti dobbiamo dare degli strumenti, non creare solo sussulti di emozione. È facile far piangere dei bambini raccontando storie di Shoah. Ma cosa vogliamo da quelle lacrime? Quali strumenti di comprensione vogliamo offrire? Io credo si tratti di studiare il passato e interpretare il presente.
Cosa ne pensi dell’impegno per il Giorno della memoria?
A oltre 20 anni dalla sua istituzione è indispensabile ormai interrogarsi con severità su quanto accade. Io credo che il Giorno della memoria abbia meriti indiscutibili: ha fatto entrare un pezzo della storia di questo paese nelle scuole, nelle associazioni, nelle amministrazioni locali, cosa che prima non era mai accaduto. Ha consentito l’avvio di nuovi studi storici, spesso alimentati proprio dal lavoro nelle scuole. In questo senso è stata straordinaria occasione.
Però?
Però ora c’è il rischio di cadere in banalizzazioni e nella ritualizzazione. Se il 27 Gennaio è entrato nel nostro calendario civile, va detto che tutti i calendari civili devono essere riempiti di senso. Per me questo significa unire la memoria della Shoah con la storia del 25 aprile, unire il 27 gennaio e il 16 ottobre, parlare delle leggi fascistissime, dei tribunali speciali, della guerra e del colonialismo italiano. Insomma, occorre collocare la Shoah sul terreno della storia. C’è stata l’era del testimone, ma adesso dobbiamo restituire la dimensione della storia. Questa è la responsabilità del mondo ebraico , oltre ad avere la capacità di raccontare che gli ebrei sono ancora vivi, studiano, celebrano feste e continuano ad essere ebrei.
Come fare?
Fino a poco tempo fa ogni occasione era buona per parlare di Shoah. Oggi sappiamo che non basta un film o un libro, ma occorre realizzare un percorso. Il mondo ebraico deve sostenere questo metodo. Il mondo ebraico non deve “usare” la Shoah, deve sottrarsi dal rischio di banalizzarla, la Shoah non può diventare il paradigma di ogni male perché ha dei tratti specifici ma anche dichiararsi costantemente sempre e solo eredi della Shoah comporta dei rischi. Noi non siamo solo eredi delle vittime ma i portatori di una cultura millenaria e dovremo essere capaci di partecipare con i nostri valori al dibattito pubblico senza ricorrere sempre alla Shoah. Dichiararsi sempre vittime è vantare un’apertura di credito, che però può ritorcercisi contro.
Anni fa pubblicasti un libro che descriveva alcune figure dell’ebraismo italiano: “Melagrana. La nuova generazione degli ebrei italiani” (Castelvecchi). Possiamo provare a fare un confronto tra quei modelli e quelli di oggi?
Quel libro è nato perché io credo che le biografie siano un sistema interessante per raccontare la storia, e poi questo è il mio mestiere, mi ci sento a mio agio, ho collezionato tante ore di interviste nella mia vita. In quel libro volevo restituire una pluralità e fare emergere un dato evidente: la pluralità delle identità ebraiche e la necessità, anzi la indispensabilità, che tali pluralità si riconoscano una con l’altra, reciprocamente.
Cos’è cambiato rispetto a oggi?
Quando io mi sono formata, nell’ambiente ebraico c’erano definizioni oggi superate: ebrei di destra, di sinistra; laici, religiosi. Oggi queste categorie interpretative hanno perso di senso. E poi in precedenza c’era un confronto tra le varie anime, oggi queste anime non hanno un luogo di confronto né reale né virtuale. In un contesto di identità irrigidite, in generale, il confronto e il riconoscimento reciproco rischia di diventare impossibile.
Come si è arrivati a questo punto?
Credo che l’ebraismo italiano abbia vissuto fino a pochi decenni su un paradosso: una comunità formalmente ortodossa che nella pratica univa pratiche identitarie molto diverse. Oggi, nel mondo globalizzato, dichiararsi ortodossi senza esserlo nella prassi è impossibile, perché siamo sotto la lente di ingrandimento, e questa contraddizione emerge; forse dovremo rivendicare la nostra tradizione con maggiore determinazione.
Questo mi porta all’ultima domanda: qual è lo di salute ebraismo italiano?
Siamo a un guado. Per alcuni aspetti l’ebraismo italiano è estremamente vivace, per altri mi sembra prossimo ad uno sgretolamento. Vedo che non si fa altro che tuonare sulla demografia ma perché perdiamo tante persone? Non mi sembra ci siano grandi interrogativi, né da parte laica né da parte religiosa, al riguardo. L’esordio di “Melagrana” era con Giacometta Limentani e a rav Riccardo Di Segni. Il rabbino Di Segni ad un certo punto cita Hillel e Shammai che per la tradizione pronunciano entrambi una parola ispirata da Dio. Oggi mi domando se questa massima, che riflette un metodo, sia ugualmente condivisibile da tutti. E poi, mi ripeto, mancano luoghi di confronto, lavorare per favorire lo scambio e il dialogo credo che nel futuro sarà fondamentale per noi ebrei italiani sia dentro che fuori il mondo ebraico.
Per la serie “Donne del mondo ebraico”, leggi anche:
Pacifica Di Castro e Sara Copio Sullam
Una risposta
Ciò che ha espresso Lia Tagliacozzo ,riguardo a noi figli del dopoguerra ,esprime in pieno sensazioni che hanno fatto parte della nostra vita .
Abbiamo ricevuto ,anche se involontariamente,un’eredità di dolore e di impotente rabbia che ha condizionato perfino certe nostre scelte .