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Lucidità e coraggio contro antisemitismo e terrore, inseguendo la pace

Wlodek Goldkorn  riflette sulla violenza del 7 ottobre e le sue conseguenze: in medio oriente, ma anche in Europa

Wlodek, quali sono state le tue impressioni la mattina del 7 ottobre, alle prime notizie che arrivavano da Israele?

Wlodek Goldkorn, giornalista e scrittore

È molto sgradevole per me parlarne, perché penso a tutta la gente uccisa quella mattina, e mi crea disagio, di fronte a questa tragedia, parlare dei miei sentimenti. In ogni caso, la prima impressione è stata quella di un terribile shock, al punto tale da fare difficoltà a mettere insieme le notizie che arrivavano, perché quel che era successo era qualcosa di non immaginabile. Poi mi è venuto in soccorso il testo pubblicato su Repubblica di David Grossmann, e gliel’ho detto, perché è stato capace di tradurre i sentimenti e le emozioni che io stesso provavo e che non ero in condizioni di esprimere. La seconda cosa che ho pensato è che niente sarebbe stato come prima.

Cosa intendi?

Hamas ha finora rilasciato solo 4 ostaggi su oltre 230. Un quinto ostaggio è stato liberato dall’esercito israeliano

È ovvio, e va sempre ripetuto, che alla fine di tutte queste vicende resterà sempre il fatto che c’è una terra poco più grande della Toscana in cui vivono due popoli che non hanno nessun altro luogo dove andare. Questo è quello di cui sono fermamente convinto. Ed è quindi quella la strada da percorrere: c’è una terra che deve dare due stati a due popoli. Però se oggi dovessi dire qual è il percorso da intraprendere per arrivare a quel risultato, non saprei farlo. Credo che dopo il 7 ottobre israeliani e palestinesi dovranno rinunciare a una parte dei loro sogni, e che, ad esempio, da parte israeliana bisognerà porre il problema dell’occupazione della Cisgiordania. Il 7 ottobre ha frantumato molte certezze e molti sogni. Ho infatti l’impressione che siamo davanti a un paradigma nuovo è che le vecchie certezze, che io stesso ho sempre sostenuto andavano ripensate.

A cosa ti riferisci?

manifestazioni a Tel Aviv per la liberazione degli ostaggi

Alla pace, per esempio. C’era, nelle mie convinzioni, un approccio teleologico: era la fiducia che alla fine, in qualche modo, tutto sarebbe andato bene. Oggi continuo a essere certo che un giorno si arriverà alla pace, ma non so più in che modo riuscirci. Dobbiamo ripensare completamente il modo di realizzare i nostri sogni.

La guerra pone numerosi problemi etici. Cominciamo da quello relativo agli ostaggi: trattativa con Hamas o rilascio senza condizioni?

Gli ostaggi sono certamente una priorità assoluta di Israele. La maggior parte di loro sono stati rapiti mentre erano in quei kibbutz che da sempre ospitano persone che dialogano con gli abitanti di Gaza. So che forse può suonare patetico, ma io sento gli ostaggi come la mia famiglia. Detto questo, per rispondere alla tua domanda, credo che uno dei fondamenti del pensiero ebraico sia il principio del pidion shavuim: il riscatto dei prigionieri. Io, da ebreo laico, credo che questo sia il fondamento della nostra identità: i prigionieri si riscattano sempre, perché la comunità deve essere tutelata ad ogni costo.

C’è poi l’altra questione della reazione di Israele. Il mondo chiede allo Stato ebraico di attenuare o di fermare l’azione militare. Come trovare l’equilibrio tra legittima difesa e rispetto del diritto internazionale?

Israele continua la sua azione militare a Gaza

Non sono in grado di rispondere alla tua domanda perché non ho alcuna esperienza militare. Né voglio rispondere alla domanda di che cosa avrei fatto se fossi stato al posto di Netanyahu: non sono il premier israeliano, né ho mai voluto esserlo. Sono uno scrittore un giornalista, al massimo posso dirti come scrivere un articolo o una pagina. Temo però che neppure Netanyahu sia la persona giusta, visto che ormai respinge tutti i consigli che gli vengono dal suo principale alleato, gli Stati Uniti.

Tu sei stato un grande amico di Amos Oz. Secondo te, come leggerebbe questo conflitto?

Amos ha sempre avuto del conflitto tra Israele e i palestinesi una prospettiva del tutto razionale. Per esempio, ha sempre avuto chiaro in mente che Hamas era un nemico. Per il resto, sosteneva che ebrei e palestinesi sono due popoli che non hanno altri luoghi dove andare e quindi sono costretti a trovare un’intesa. Questa oggi è la nostra ultima speranza, molto razionale e per niente empatica; ma forse oggi abbiamo bisogno di razionalità più che di emozioni.

Amos Oz (1939-2018)

Può essere Netanyahu la persona in grado di far uscire Israele dal conflitto?

No. Netanyahu è un uomo politico che non ha mai visto un domani, si è sempre mosso come se ci fosse solo un eterno presente. Nella sua visione ogni giorno deve assomigliare al giorno precedente. Guarda come conduce questa guerra: come se non ci fosse un domani, senza calibrare l’uso della forza.

Quale può essere una soluzione politica alla guerra attuale?

Io credo che occorra ricominciare a parlare seriamente con l’ANP, rafforzarla. Questo ovviamente significa che Israele non può più farsi guidare da governi di estrema destra. E significa, ad esempio, inserire l’ANP negli accordi di Abramo, che incredibilmente ancora resistono. Forse questa resistenza può essere un segnale positivo da cui ripartire.

La guerra produce effetti anche nell’opinione pubblica europea. Domenica scorsa in Francia si è manifestato contro l’antisemitismo.

il 12 novembre a Parigi si è svolta una grande manifestazione contro gli atti di antisemitismo registrati dopo il 7 ottobre

Da tempo gli storici della Shoah hanno prefigurato una situazione come quella attuale. La memoria di quel che è accaduto nel Novecento sta sbiadendo, mentre al contrario l’antisemitismo è costitutivo della modernità: ce lo insegnano grandi storici e filosofi, come Todorov, Bauman, Arendt e tanti altri.

Gli ebrei non sono più sicuri in Europa?

Niente allarmismi e niente paura. Io credo che dobbiamo reagire di fronte a questa fase nuova mobilitando la società civile, quella autenticamente democratica. Perché l’antisemitismo, è chiaro, non è solo un affare degli ebrei, ma della coscienza democratica e repubblicana d’Europa. Oltre un secolo fa scoppiò l’affaire Dreyfuss. Esso ci ha insegnato non solo che gli ebrei hanno bisogno di un loro stato dove vivere, ma che si può reagire all’antisemitismo.  Dreyfuss fu difeso dalla Francia repubblicana, da Emile Zola, dagli intellettuali coraggiosi, che sconfissero le forze reazionarie del paese. Anche oggi siamo davanti a questo spartiacque.

Alfred Dreyfuss (1859-1935), ufficiale francese ebreo, fu accusato ingiustamente di spionaggio e imprigionato. La sua innocenza fu riconosciuta al termine di una lunga campagna che mobilitò intellettuali e democratici

In questo rigurgito di antisemitismo sono presenti anche forze che si collocano a sinistra.

Nella sinistra c’è sempre stata una vena antisemita. Ne parlava già August Bebel, che definiva l’antisemitismo a sinistra il socialismo degli imbecilli. Esso riemerge periodicamente, come le purghe staliniste negli anni 50, o l’onda antisemita in Polonia nel 1968. Anche qui si tratta di fatti non del tutto nuovi per cui credo che non dovremmo esagerare con gli allarmismi, ma ovviamente neanche sottovalutare queste situazioni. Ripeto: dobbiamo essere molto lucidi e coraggiosi e rivolgerci alla parte democratica repubblicana dell’Europa.

A proposito di Europa: tra pochi mesi si vota.

Si può avere speranza guardando alla Polonia, dove c’è stata una grande vittoria antinazionalista e anti sovranista, guidata da forze europeiste. Credo che questa potrebbe essere la vera svolta. Guardiamo alla strategia vincente di un leader come Tusk. È stato capace di organizzare un cartello elettorale basato su tre partiti, di orientamenti anche distanti fra loro, in modo da dare a ogni elettore più scelte, dalla sinistra civile alla destra. Inoltre ha saputo mobilitare gli elettori, che hanno votato per oltre il 70%; infine, ha sempre creduto nella vittoria.

Sembra un percorso da imitare.

Donald Tusk , europeista, ha vinto le elezioni politiche d’autunno in Polonia

Me lo auguro. Il sovranismo in Europa è iniziato proprio in Polonia, ma molti non lo hanno saputo leggere. In Italia, per esempio, la vittoria del nazionalismo polacco è stata vista con un segno di arretratezza di un paese ex comunista e invece non c’entrava nulla, perché era la risposta reazionaria alla globalizzazione. Ora la Polonia ha tracciato un solco e io mi auguro che sarà seguita da altri paesi.

L’ultima domanda riguarda il nostro futuro. Quello degli ebrei, quello di Israele, quello dell’Europa.

Posso dirti che nelle vicende che stiamo assistendo si intrecciano almeno tre storie, con percorsi, origini ed esiti diversi. La prima storia riguarda Hamas. Hamas è un’organizzazione militare che pratica il terrorismo, il cui progetto è liquidare Israele e gli ebrei. È un movimento fondamentalista, che non fa parte della tradizione nazionalista; Baumann l’avrebbe definito una “retrotopia”. C’è poi la seconda storia, quella di Netanyahu: un uomo chiaramente alla fine del suo percorso politico, che ha perso ogni credibilità.

prima della guerra, per circa 10 mesi in Israele si è protestato contro la riforma della giustizia d Netanyahu. Attualmente la fiducia nel premeir è ai minimi storici

Netanyahu ha fallito perché è stato incapace di difendere i confini della patria, perché le truppe che dovevano difendere il confine stavano in Cisgiordania per sua scelta anziché dalla parte opposta. Netanyahu non ha capito la pericolosità di Hamas e credo che nessun uomo politico possa guidare il paese dopo una tale sconfitta. La terza storia, infine, è quello dell’antisemitismo in Europa. Siamo a ottant’anni dalla Shoah, cioè sono passate tre generazioni. Tre generazioni è lo spazio massimo per conservare la memoria, anche quella della Shoah; ma non è detto che scompaia. Essa può sopravvivere non solo nella creazione degli artisti, ma anche nella difesa dei diritti civili. Oggi emerge il rimosso dell’Occidente: il suo rapporto con gli ebrei e l’antisemitismo. L’Europa deve fare i conti con questo rimosso e deve essere capace di affrontarlo.

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