Dagli USA a Casale, a tutela della nostra tradizione
Adriana Torre Ottolenghi rappresenta una delle voci più importanti della comunità di Casale. A Riflessi racconta (un pò) della sua vita
Signora Adriana, lei e suo marito siete ormai delle figure storiche degli ebrei piemontesi, e in particolare i quelli di Casale. Vorrei cominciare dalla sua famiglia: da dove proviene?
Mio padre, Giulio Torre, era un ebreo di Alessandria, mia madre Hertha Minerbi, era di Ferrara, sebbene nata a Genova, imparentata alla lontana con la famiglia dell’ambasciatore Sergio Minerbi. La mia nonna materna era una Ottolenghi. Mio padre era un batteriologo, negli anni Trenta era andato oltre frontiera, in Francia, per lavoro, ma da lì fu espulso perché accusato di essere “troppo italiano”, in pratica di favorire al lavoro gli altri emigranti italiani. La realtà è che non si volle mai naturalizzare francese. E così venne rispedito in Italia proprio alla vigilia delle leggi razziali; tutto sommato, fu la nostra fortuna.
Perché?
Credo che, se fosse rimasto in Francia, alla fine sarebbe stato vittima dei rastrellamenti e delle persecuzioni che anche la Francia conobbe, come purtroppo è successo ad altri ebrei italiani rimasti lì.
Come trascorreste gli anni di guerra?
Durante la guerra eravamo a Milano, ospiti dei nonni materni Minerbi. Col primo bombardamento in città ci trasferimmo da una mia zia, ricordo aveva una grande cosa, e lì ci sorprese l’8 settembre 1943. A quel punto dovemmo pensare a un altro modo per sopravvivere. Io avevo 9 anni, e assieme a mia sorella maggiore e a mia nonna i miei genitori decisero di portarci dalle suore di clausura benedettine, a Ronco di ghisa, su lago Maggiore, mentre i miei rientravano a Milano cercando una fuga in Svizzera. Mio padre in convento non sarebbe potuto entrare, aveva 50 anni, dimostrava meno della sua età l’avrebbero preso per i lavori forzati. Purtroppo la via non fu praticabile, perché non era possibile attraversare le montagne con noi piccole. Così si trovò un’altra soluzione: grazie a delle amicizie ci traferimmo tutti lì nel dicembre 1943 a Trarego a 700 metri sul livello del mare, sopra Cannero. Figuravamo come sfollati, compreso mio padre, ufficialmente rimasto con noi per curare la salute di mia madre. Poco dopo da Venezia arrivò anche la sorella maggiore di mia madre, il cui marito è morto a Auschwitz. Eravamo in 7, e grazie a chi ci aveva ospitato – si chiamava Anna Ferraris – avemmo anche le nostre nuova carte d’identità, ovviamente false. Ottolenghi divenne Ottolini, i Minerbi diventarono Minelli. Fu necessario darci una nuova identità, perché a Cannero c’era la brigata Ravenna della Repubblica sociale italiana, che poteva identificarci
Che ebraismo si viveva in casa sua?
Direi all’italiana. Certo non mangiavamo maiale, ma mangiavamo al ristorante. Di Shabbat, a Milano, andavamo da mia zia, al tempio di via Guastalla, poi a via dell’Unione, dopo il bombardamento.
E dopo la guerra?
Mio padre decise di non restare in Europa. Da batteriologo, studiava le colture per formaggi, e così nell’autunno del 49, con un visto speciale temporaneo che gli permetteva di lavorare, andò in Wisconsin, e nel 1951 noi lo raggiungemmo, appena il Congresso di quello Stato, ratificato dal presidente Truman, approvò un bill che permetteva a Giulio Torre di restare negli Usa.
Cosa ricorda dei suoi anni americani?
Ho fatto lì l’high school e mi sono laureata in giornalismo. Sono stati anni belli, molto divertenti. Ricordo che uno dei professori ci obbligava al lavorare in un giornale, io ero finita in un paese di 1.200 anime, dove un tipografo stampava il settimanale locale, e lì ho fatto di tutto, dalla cronaca nera ai matrimoni. È stata un’esperienza meravigliosa, in Ame
rica il clima era molto più informale di quello che ancora c’era nelle università italiane.
E poi, come è successo che siete tornati in Italia?
Nel 1957, dopo la laurea, siamo tornati a trovare la nonna paterna. Io avevo programmato il mio ritorno negli USA in autunno, e così mi fermai in Italia mentre i miei tornavano in America. E invece successe che mia nona peggiorò e io la assistetti. In breve, in quel periodo conobbi il mio futuro marito, Giorgio, e così alla fine rimasi. Sono a Casale dal 1959.
È stato difficile abituarsi alla provincia italiana dopo gli anni americani?
No, direi di no. Non è stata un trauma perché anche negli USA ero vissuta in una piccola comunità. Solo che qui in Italia non c’era lavoro. per cui ho finito per non sfruttare la mia laurea, e a dire la verità un po’ mi è dispiaciuto.
Mi può parlare della realtà ebraica di Casale, oggi?
Un tempo eravamo tanti, poi a poco a poco tutte quelle più anziane sono scomparse. Oggi ci sono 70 iscritti, ma i residenti siamo solo 6. Mio marito per 62 anni è stato presidente della Comunità, lasciando la mano poi a Elio Carmi. In questi anni abbiamo fatto delle cose importanti. Ricordo in particolare il restauro del tempio, avvenuto 53 anni fa, il tetto si stava marcendo e per fortuna mio marito incontrò un ex impiegato delle belle arti, che ci convinse a intervenire.
La sinagoga oggi è monumento nazionale, e così l’abbiamo salvato. In seguito, grazie a questo funzionario delle Belle arti, Borbon, raccogliendo i pochi oggetti rimasti nelle nostre case e in prestito da altre comunità, organizzammo anche il museo locale.
E il resto del patrimonio artistico della comunità che fine ha fatto?
Dopo l’8 settembre del 1943, con gli ebrei che erano fuggiti o vivevano nascosti, i locali hanno rubato tutto quello che hanno trovato.
Parlo di tutti gli argenti, degli arredi sacri, anche de libri. Sono convinta che si trattò di un furto locale perché i pezzi più belli erano stati murati, e qualcuno andò a ritrovare i nostri ben proprio lì dove erano stati nascosti. credo che siano stati tutti fusi per essere poi rivenduti. Ricordo, ad esempio, una Meghillà del 1600, rivestita in cuoio. Tempo dopo un ciabattino mi disse di persone che venivano da lui per farsi risuolare le scarpe, portando pezzi di cuoio con strane scritte sopra. Ecco che fine aveva fatto la nostra Meghillà.
Che effetti ha avuto il Covid da voi?
Oggi facciamo il possibile. Prima del Covid avevamo dai 15 ai 18.000 visitatori l’anno, e facevano un grande lavoro con le scuole, perché pensavamo che solo la conoscenza poteva combattere l’antisemitismo. Oggi ero in comunità, abbiamo avuto 3 o 4 gruppi, ma le scuole ancora non vengono e l’80% del nostro pubblico erano scuole.
Dopo tanti anni, e dal suo punto di vista di ebrea che vive in una piccola comunità, come vede il futuro dell’ebraismo italiano?
Non è facile dare un giudizio. L’ho visto farsi negli anni più ortodosso, penso all’arrivo dei Lubavitch. Questo, in un certo senso, ha fatto sì che anche i nostri rabbini diventassero, per così dire, più ortodossi, cioè più stretti di manica. Francamente non approvo. Credo che, chiudendosi agli altri, rendendo ad esempio difficili le conversioni, facciamo male a noi stessi. So di casi in cui c’è un’ampia disponibilità alla conversione, che però ancora non si è verificata. Anni fa la procedura era più facile.
E per quanto riguarda il futuro di Casale?
Non ci penso, spero che qualcuno di buona volontà provveda. Elio Carmi, per esempio, si dà molto da fare ed è stata promotrice di molte attività, è stato stupefacente quello che ha fatto. Ora c’è sua figlia, Daria, che ha seguito il museo dei lumi, che ha girato in Italia e in Europa. Insomma, adesso tocca alle nuove generazioni.
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