In realtà non ho mai fatto veramente attività comunitaria, sebbene abbia insegnato ai corsi di studi ebraici; non mi sono però mai bene identificata con la comunità, forse perché mi sento molto torinese, e legata a quel mondo. Giacoma Limentani, di cui frequentai a lungo le lezioni, mi si disse che anche lei si sentiva un po’ estranea rispetto alla piazza, e così mi sento io. Se ho fatto questa scelta, è per una serie di ragioni. Innanzitutto nella mia famiglia si sono prese strade diverse: una mia zia, Anna, sposata a David Jona, di Ivrea, emigrò negli Stati Uniti dopo il 1938, diventando promotrice dell’ebraismo conservative – ne scrisse anche un libro: “Noi due”, edito da Il Mulino – ma prima, a Torino, partecipava a un gruppo di discussone ebraica – Oneg shabbat – che precedette quello messo su da Artom. Insomma, ci sono strade tanto diverse dentro la stessa famiglia, e a volte si recuperano le tracce del passato. C’era la Shoà, c’era l’ebraismo torinese, c’era il senso di appartenenza alla diaspora, e poi c’era il mio legame con Israele. Tieni infatti conto che io avevo un compagno israeliano, uno storico, che aveva un rapporto diverso con la religione e che viveva ad Haifa, e questo anche fu importante. Insomma, posso dire che ho come saldato un cerchio.
Perché è ancora importante studiare la storia?
Io credo che se non sai cosa è successo prima di te non potrai mai dare giudizio sul presente e non potrai mai guardare il futuro. Oggi si parla tanto di memoria, ma se non sai cosa è successo, cosa ricordi? Oggi abbiamo ricordi fasulli, che rischiano di aiutare i negazionisti. Spesso anche gli ebrei non sanno molto del passato, non sanno della Shoà. La storia è fondamentale. Guarda i bambini: quando gli si raccontano le storie, gli si allarga il mondo, si dà loro spessore.
Perché dovremmo conservare la memoria?
È vero, siamo in pochi a farlo oggi, ma guarda che mondo c’è. Se ci fosse più storia, non ci sarebbero i no vax che si vestono da deportati. Siamo circondati da una ignoranza crassa, la vita a volte mi appare come un fondale: dietro non c’è nulla. In gran parte credo che sia stata responsabile la Tv degli ultimi 30 anni, io l’ho visto all’università, ho visto la trasformazione dei miei studenti.
Che ti sembra dello stato di salute del nostro paese?
Temo di essere molto pessimista, forse perché sono vicina ai 77 anni e, quando ti avvicini agli 80 cominci a vedere vicina la fine. Forse dovrei essere ottimista come mio padre, che diceva che aveva nostalgia del futuro, e allora quando ci penso mi dico che non devo cedere al pessimismo. Quando mi chiedono che dobbiamo fare, allora sento non posso dire che sono pessimista. E poi ogni tanto ci sono delle cose che ti tirano su il morale, come ad esempio Liliana Segre, o l’entusiasmo dei ragazzi; però, ecco, mi sembra che viviamo un cambiamento antropologico, non politico, e questo mi spaventa.
Che ti sembra dell’ebraismo italiano?
Lo vedo litigiosissimo e poco propenso a pensare a rafforzarsi. È invece molto più propenso a riconoscersi in Israele e in un modello solo religioso. Quando cadde il muro di Berlino ci fu un tentativo di ripensare la diaspora europea, dargli un senso nel momento in cui l’Europa si ricomponeva. Ma non si riuscì a fare questo, e oggi mi sento pessimista sul nostro futuro.
Da qualche mese ti sei trasferita a Formia. Come passi il tuo tempo?
A volte mi sembra sia difficile trovare qualcuno con cui condividere dell esperienze. Però devo dire che non smetto di lavorare. Sto finendo di scrivere per Laterza e per Princeton una “Storia degli ebrei in Italia, dalle origini a oggi”. Inoltre Laterza m’ha chiesto di collaborare a tradurre e adeguare alle vicende del nostro paese “La storia mondiale degli ebrei” uscita prima in Francia, [oggi presentato a Roma, con il rabbino capo e Andrea Riccardi, n.d.r.]. Insomma, scrivo molto, come ha sempre fatto mio padre; del resto, lui diceva sempre: quando uno scrive non è mai solo.
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Una risposta
Accogliamo il monito a studiare la storia! Grazie Anna