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Un giovane Rav Gianfranco Di Segni
Rav GIanfranco Segni “con la chitarra in mano”

Movimentato, soprattutto il primo dei due viaggi con il Benè Akiva, nel 1970. I viaggi organizzati dal B.A. in quegli anni duravano 5-6 settimane. Visitammo tutto Israele, dal nord al sud fino a Sharm el-Sheikh, che all’epoca era ancora sotto il dominio israeliano. Passammo una decina di giorni nel kibbutz Tirat Tzvi, nel Bet Shean: mi adibirono alla raccolta delle olive. Era la prima volta che vedevo olive così grosse (e mai più le rividi: credo fossero destinate all’esportazione). Ora, quando durante le lezioni di Talmud e Halakhà devo spiegare il concetto “grande come un’oliva”, che secondo i calcoli rabbinici equivale a circa 30 grammi, sono in grado di convincere i soliti scettici. Il venerdì sera, al Bet ha-keneset del kibbutz, cantarono Lechà Dodì praticamente sottovoce. Pensai: devono essere proprio stanchi questi kibbutznikim. Forse in quell’occasione capii che vivere in kibbutz non è proprio una passeggiata (oltre al caldo torrido delle casette dove eravamo alloggiati). Non contenti del già lungo viaggio “istituzionale”, io e il mio amico Guido Coen facemmo un pre-viaggio per conto nostro. Andammo a Bet Lechem e a Chevron (in quei tempi si girava liberamente senza problemi, con gli autobus di linea). Poi andammo tre giorni al Mar Morto, Masada, Ein Ghedi: luoghi stupendi. Peccato che non presi precauzioni per il sole di 400 metri sotto il livello del mare. Quando, al ritorno, scendemmo dal pullman di linea a Arad, una giovane signora mi vide così malconcio che ci invitò a casa sua a bere qualcosa. Ero ustionato dappertutto e completamente disidratato. Tornati a Gerusalemme, l’infermiera dell’alloggio della Sochnut all’Har Hatzofim dove alloggiavamo pensò fosse meglio farmi vedere in ospedale. Andai allo Shaare Tzedek, dove mio fratello Marcello, studente ai primi anni di medicina, stava facendo un praticantato estivo. Passai la notte sul lettino dell’ospedale con il pensiero che mi avrebbero fatto il trapianto di pelle. Nessuno mi diceva niente e se me lo diceva, capivo poco o nulla. Invece alla fine, sempre in silenzio, si limitarono a mettermi un po’ di pomate e a darmi degli antibiotici, oltre a presentarmi un conto più salato dell’acqua del Mar Morto. In qualche modo ne venni a capo. Ma fu una lezione formativa anche quella. Dopo la fine del viaggio del B.A., andai ospite per qualche giorno dalla famiglia di uno dei madrichim, Roni Ostermann z.l., in una cittadina vicino Tel Aviv. Da alcuni giorni soffrivo di mal di stomaco. I genitori, un po’ preoccupati, mi fecero andare da un medico che controllasse cosa avessi. Forse è un attacco di appendicite, disse il luminare. Mi fece fare un esame specifico, ma era a posto. Allora sarà un’intossicazione alimentare, passerà, sentenziò il dottore. Sceso dall’aereo all’aeroporto di Roma, con la chitarra in mano (rotta), mia madre appena mi vide capì che non stavo bene e mi fece subito visitare dal medico di famiglia, Vittorio Sacerdoti z.l. Il dottore (quello del morbo di K. al Fatebenefratelli, durante la guerra) mi diede un’occhiata negli occhi, li vide leggermente gialli e disse: è epatite. Feci i controlli e così era. Mi ero beccato il virus dell’epatite, che in Israele è endemico mentre in Italia no e io, evidentemente, non c’ero mai venuto in contatto. Stetti a casa due mesi, a riposo e con dieta particolare, per cui anche le feste le trascorsi senza poter andare al Tempio. Pazienza per lo shofar, ma per il lulav di Sukkot qualcosa forse si poteva fare: a quell’epoca, i lulavim li avevano solo i rabbanim e i chazanim. Gli altri andavano al Tempio e facevano la berakhà sul lulav a disposizione del pubblico (si era lontani dai tempi in cui Shalom Tesciuba z.l. avrebbe rivoluzionato il culto a Roma, con i prodotti Kasher le-Pesach e quelli di tutto l’anno e con la fornitura di lulavim per tutta la comunitàMia madre, che in quell’anno era nel Consiglio della CER e spesso si recava negli uffici della Comunità, chiese a rav Toaff se poteva darle un lulav per me (“il più semplice che c’è”). Il rabbino capo chiamò immediatamente lo shammash e glielo fece preparare all’istante.

Ci stiamo allargando un po’ troppo. Torniamo ai viaggi in Israele. Come andò il secondo? 

l’università di Bar Ilan

Il viaggio del ’71 fu meno movimentato ma fondamentale. Si trattava di un ulpan di ebraico intensivo di circa un mese all’Università di Bar Ilan (5-6 ore al giorno). Una delle prime parole che imparai, rimastami impressa, fu “merkavà” (carro, carrozza): sarà stata in qualche raccontino (non credo proprio fosse riguardo al Ma’asè Merkavà, la mistica ebraica). Quasi ogni giorno, soprattutto nella seconda metà del mese, cambiavano gli insegnanti. Alla prima ora facevano l’appello e chiedevano a ognuno il nome e cognome, che poi trascrivevano nel registro in lettere ebraiche. Ma non era facile capire e trascrivere i nomi italiani (a iniziare dal mio). Alla fine c’eravamo stufati di questa storia. Per semplificare la procedura, io mi inventai un nome israeliano, prendendolo a prestito da uno dei dirigenti del B.A. che avevamo conosciuto all’inizio del corso. Il morè dell’ulpan rimase un po’ perplesso a sentire quel nome tipicamente ebraico e lì per lì non disse niente. Poi però la cosa si riseppe e fui convocato dal mio “omonimo”, ma era più divertito che infuriato. Gli consigliai di usare un registro con i nomi già scritti, comune per tutti gli insegnanti. Quel corso fu fondamentale per me perché, grazie a esso, guadagnai poi un anno all’Università di Gerusalemme. Sapendo già l’ebraico a un discreto livello, riuscii a saltare la mekhinà (l’anno preparatorio). E inoltre quel mese a Bar Ilan fu la prima esperienza di vita in un campus universitario (un campus all’americana, con ampi spazi e prati, non come quelli che – almeno a quei tempi – c’erano in Italia). Credo che in quell’agosto del 1971 germinò in me la decisione di studiare all’università in Israele. 

Prima di arrivare all’università, dicci qualcosa del liceo. Frequentasti il liceo ebraico?

I fratelli Di Segni
Marcello, Miriam e Gianfranco Di Segni

Mica c’era allora. Lo iniziai nel ’67-’68. Ma anche se ci fosse stato, non credo ci sarei andato, avendo un Liceo classico statale nella strada che vedevo dalle finestre di casa mia. E così fecero mio fratello e mia sorella. Tanto più che il pomeriggio andavo al Collegio rabbinico a Lungotevere Sanzio: fare avanti indietro due volte sarebbe stato troppo. I primi anni andavo a scuola anche il sabato, ovviamente senza scrivere né portare i libri. In prima liceo, una volta la prof di lettere mi interrogò di sabato: sapendo che non avevo il libro, mi propose di tenerlo lei durante l’interrogazione (era molto preparata nella sua materia ma evidentemente non nei dettagli della legge ebraica…). Quello di filosofia invece sapeva persino un po’ d’ebraico e una volta scrisse il mio nome con l’alfabeto ebraico (cosa non proprio facile, come ho detto). Con un prof di storia facevo a volte lunghe camminate a discutere di Israele: era ovviamente anti-sionista, molto critico dell’Israele post-Guerra dei Sei giorni. Non credo lo convinsi delle nostre ragioni, ma almeno ci provavo. In seconda e terza liceo smisi del tutto di andare a scuola il sabato. La prof di lettere (che al classico è quella principale) era andata via e c’era una supplente, e quindi ognuno si riteneva in diritto di fare quello che gli pareva; il sabato, poi, per lo più si tenevano assemblee studentesche; e soprattutto, ormai nessuno portava più le giustificazioni per le assenze. Anarchia completa.

Dopo il Liceo che cosa hai fatto ? Hai detto prima che sei andato in yeshivà. 

Sì, alla Yeshivà di Strasburgo, e poi c’è stata l’Università di Gerusalemme (laurea in biologia – paradossalmente il periodo in Israele è stato il meno fecondo dal punto di vista degli studi ebraici), il ritorno a Roma, i Campeggi della FGEI, gli studi al Collegio prima fase e seconda fase e, in mezzo, due anni negli Stati Uniti, a Seattle, durante il dottorato in Genetica medica: troppa roba per parlarne ora, rimandiamo a un’altra volta.

Bene, allora alla prossima! E grazie per il tempo che ci hai dedicato.

Grazie a voi!

Qui puoi leggere l’intervista integrale

Questa è la venticinquesima tappa del nostro viaggio nel rabbinato italiano.

Per leggere le altre tappe del viaggio:

Rav Alfonso Arbib, Rav Della Rocca, Rav Momigliano (qui e qui), Rav Spagnoletto, Rav Dayan (qui e qui), Rav Di Porto, Rav G. Piperno, Rav Sermoneta, Rav  Somekh, Rav Hazan, Rav Punturello, Rav Caro, Rav U. Piperno,  Rav Lazar, Rav Finzi, Rav Canarutto, Rav Ascoli , Rav Di Martino, Rav Pino Arbib,  Rav Locci, Rav Touitou e (ancora) Rav Momigliano, Rav Moshe Hacmun

Una risposta

  1. Bella intervista. Condivido alcuni ricordi, insieme a Miriam e Simonetta ed a altri amici chaverim del Bene Akiva.
    Fra i ricordi, vorrei aggiungerne uno: Gianfranco di Segni è stato direttore di Zeraim, e attraverso il giornale ha contribuito ad una più ampia partecipazione alla cultura giovanile ebraica

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