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Torà, basket e Israele: ecco come preparo i giovani ebrei a essere adulti

Rav Moshe Hacmun, attivissimo nel mondo giovanile, racconta a Riflessi la sua esperienza quasi trentennale con i ragazzi, e quali sono le priorità dell’ebraismo italiano

Rav Moshe, tu sei da anni una delle figure più conosciute a Roma. Come è iniziata la tua storia con la comunità?

Vivo a Roma dal 1996. Mi ero da poco sposato in Israele, e con mia moglie, Rachel Mimun, italiana e di Roma, venimmo qui con l’idea di fermarci solo poco tempo. E invece da allora siamo rimasti.

Come ti trovi, tu che sei israeliano, a vivere in una comunità della diaspora?

uno dei campoeggi estivi Eli Hay

Quando sono arrivato ho trovato una comunità che era già attiva, soprattutto in ambito religioso; in effetti oggi, in Europa, quella di Roma credo sia la comunità più attiva, anche se i nostri numeri ci fanno comunque classificare come una piccola comunità. Certo, non tutti sono coinvolti nella vita comunitaria, sono circa il 30% quelli che partecipano regolarmente alle varie iniziative, ma comunque la Roma ebraica si può definire oggi molto attiva. Il modo di partecipazione alla vita comunitaria è abbastanza religioso, soprattutto perché la maggior parte delle attività si svolgono attorno al tempio, mentre in Europa questo non avviene allo stesso modo; lì la diversità di correnti fa sì che ci sia più frammentazione.

Tu da sempre ti dedichi all’educazione dei più giovani attraverso lo sport. Innanzitutto, ci puoi spiegare da dove viene tanta passione per il basket?

Da giovane ho giocato a livello professionistico, fino ad arrivare alla serie A in Israele; poi mi sono infortunato, a 22 anni; ho provato a rientrare e a recuperare, ma non è andata bene. Allora ho cominciato ad allenare. Ho allenato in seconda divisione, poi sono arrivato in Italia perché avevo bisogno di prendermi un time out dai campi, e invece sono rimasto.

Perché è così importante per un ragazzo fare sport, e in particolare un gioco di squadra?

Non c’è solo l’importanza dell’attività fisica, ovviamente. Lo sport è importante per la crescita dei ragazzi, per la loro maturità. Tramite lo sport i ragazzi si formano come persone, comprendono i valori importanti per la loro vita. Nel basket poi conta moltissimo il gruppo, quando si lavora tanto insieme il gruppo acquista valore. Tutto questo, all’interno di un ambiente ebraico, cementa alla lunga anche la comunità, perché evita il rischio che i ragazzi si perdano, che si allontanino. Fare sport con i loro coetanei, ebrei come loro, li protegge, e in tutti questi anni si è dimostrato che questo funziona: i ragazzi crescono insieme, restano amici, si sposano, mettono su famiglie ebraiche. Nella diaspora questo lavoro di aggregazione è fondamentale.

Mi parli della tua associazione, Eli Hay?

L’Associazione Eli Hay è a tutti gli effetti un movimento giovanile che riunisce bambini e ragazzi dagli 8 ai 16 anni. Durante la settimana sono numerose le attività di aggregazione e formazione che organizziamo: la scuola di formazione per giovani madrichim, il corso di Kickboxing per gli Under 15, il corso di basket rivolto ai ragazzi dai 10 ai 16 anni ed attività per i più piccoli in piena garanzia anti Covid. Elihay incentra la sua attività su un Tempio, attorno al quale di shabbat: dal venerdì al sabato raggiungiamo 60, 80 ragazzi. È fondamentale, perché è la loro casa. E poi vi sono i due importanti appuntamenti annuali: il campeggio invernale ed estivo, che riuniscono più di 200 ragazzi ogni anno.

Come si mette insieme sport e Torà?

Non si mettono insieme! Nel senso che, naturalmente, non sono sullo stesso piano. Come è scritto nel Pirké Avot “Derech Eretz kadmà la Torà” ( Eliahu Rabbà 1), il comportamento appropriato precede la Torà. Il terreno più fertile per seminare dei valori è all’interno delle condizioni che si vengono a creare nella squadra e durante la competizione, in campo. Inoltre, essere accompagnati da una figura che concilia la sua vita religiosa all’interno del Tempio con quella sportiva nei campi permette ai ragazzi di identificarsi con essa, dimostrando che la Torà non si esprime solamente all’interno del “Bet Amidrash” bensì in ogni aspetto della vita dell’uomo.

Che bisogna fare per i giovani?

Io penso che la comunità sia tante cose, e che dentro ci siano tante associazioni che lavorano con i ragazzi. Ma che ci siano anche dei problemi. Qui a Roma il problema più grande riguarda quelli che non fanno vita comunitaria. I turisti sono sorpresi della nostra attività, e dal nostro attivismo. Eppure, ci sono molti giovani che non riusciamo a intercettare. Inoltre, che ci sia un 30% molto attivo, fa nascere il rischio di sentirsi al sicuro, mentre non ci si accorge che ci sono moltissimi ebrei lontani. Dunque l’obiettivo è riuscire ad avvicinare chi oggi si sente lontano, non coinvolto. La scuola è fondamentale, il tempio è fondamentale, ma cosa dobbiamo fare per avvinare chi non va a scuola e non frequenta un tempio? Questa è la priorità.

E in particolare per i giovani delle piccole comunità?

Io penso che occorra andare sul posto. Dobbiamo andare nelle comunità e cercare i giovani uno per uno; si potrebbe costituire un database, e raggiungerli. Se in Italia siamo in 30.000, con un buon lavoro, dividendo il territorio in zone, si possono raggiungere tutti i ragazzi, contattarli personalmente. Poi bisogna formare dei leader che lavorino su gruppi di 30/40 ragazzi, e poi da lì organizzare eventi comuni. La realtà è che in molte comunità neanche la dirigenza conosce esattamente quanti siano loro giovani. Abbiamo perso il contatto con le famiglie, è allora fondamentale ricostruire un legame, dentro ogni comunità e tra comunità.

Che priorità si deve dare allora l’ebraismo italiano?

Ne indico tre. La prima cosa è cercare di coinvolgere tutte le comunità ebraiche italiane, facendo attività, incontri, tanti eventi insieme. E’ importante partire dalle comunità più grandi ed attive come Roma, Milano , Firenze e Torino, ma poi ci sono anche le altre comunità. Dobbiamo lavorare con tutte, per riuscire ad avvicinare tantissime persone che sono sole. Dobbiamo portarle all’ebraismo. Secondo punto: occorre instaurare un legame più forte con le istituzioni israeliane. Israele si vuole occupare della diaspora, perché si vedono tanti ebrei nel mondo che hanno bisogno di aiuto; allora dobbiamo lavorare con il ministero degli esteri e con quello della diaspora, per fare uno sforzo comune in tutta Italia. Infine c’è la lotta all’antisemitismo, antisemitismo che si dispiega nella quotidianità nel contrasto contro ogni politica israeliana. All’interno delle scuole andrebbero inseriti nei programmi di studio la storia di Israele nell’età contemporanea: l’insorgere del movimento sionista e i suoi sviluppi, le origini del conflitto arabo-israeliano ed infine le ripercussioni di quest’ultimo nel Medio Oriente negli ultimi vent’anni. Quando i ragazzi avranno ben chiaro questo panorama storico-politico combattere l’antisemitismo nelle sue varie forme e manifestazioni sarà molto più semplice.

Questa è la ventiquattresima tappa del nostro viaggio nel rabbinato italiano.

Per leggere le altre tappe del viaggio:

Rav Alfonso Arbib, Rav Della Rocca, Rav Momigliano (qui e qui), Rav Spagnoletto, Rav Dayan (qui e qui), Rav Di Porto, Rav G. Piperno, Rav Sermoneta, Rav  Somekh, Rav Hazan, Rav Punturello, Rav Caro, Rav U. Piperno,  Rav Lazar, Rav Finzi, Rav Canarutto, Rav Ascoli , rav Di Martino, rav Pino Arbib,  rav Locci, rav Touitou e (ancora) rav Momigliano

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