Costruiamo una memoria diffusa e partecipata
Adachiara Zevi da oltre dieci anni porta in Italia le Stolpersteine dell’artista Gunter Demnig. A Riflessi spiega come è nato il progetto, e come reagisce la città alle pietre d’incampo.
Architetto Zevi, come nasce il Progetto Pietre d’inciampo?
Innanzitutto va chiarito che si tratta di un progetto artistico, nato per ricordare le vittime del nazi-fascismo tra il 1933 e il 1945. Da anni mi occupo del rapporto tra arte-architettura e memoria e dal 2002 curo la manifestazione biennale d’arte contemporanea “Arte in Memoria” nei resti della sinagoga di Ostia antica. È stato così che mi sono imbattuta ad Amburgo nelle pietre d’inciampo ideate dall’artista Gunter Demnig. Ho subito pensato che fosse un progetto geniale: anti-monumentale, discreto ma diffuso ed estremamente radicato nel tessuto urbano; così decisi di portarlo a Roma.
È stato difficile metterlo in opera?
Il progetto nasce nel 2010, ma tra l’idea e la sua realizzazione sono trascorsi 4 anni; mi sono rivolta più volte al Sindaco Veltroni senza avere avuto mai ascolto poi l’intuizione di partire dal basso, dai municipi, è stata vincente: quando ho cominciato a contattarli, le reazioni sono state entusiaste, e così siamo partiti.
Quante pietre sono state installate a Roma?
Con quelle che installeremo il 20 e 21 gennaio 2022 arriveremo a 387.
E nel resto d’Italia?
Già dalla seconda edizione hanno cominciato a moltiplicarsi i comuni che facevano richiesta e così il progetto si è dilatato a macchia d’olio. Basti pensare che per l’edizione del 2022 ben 120 città italiane saranno coinvolte. Paradossalmente sono state le città più grandi a partire per ultime; Milano per esempio è partita tardissimo. All’inizio ci occupavamo noi a Roma dell’installazione nelle altre città, ora vista la vastità sarebbe impossibile, quindi ci limitiamo ad aiutare e supportare chi ce lo chiede. Quando possibile, partecipiamo anche alle installazioni nelle altre città, come è accaduto a Venezia, Torino, Bologna, Prato, Siena, Firenze…
Ci può spiegare come Gunter Demnig ha concepito questa idea?
Tutto è iniziato nel 1990 a Colonia, dove furono deportati 1000 sinti e dove Gunter era stato invitato a fare un lavoro in loro memoria. Chiedendo in giro, si è reso conto di una damnatio memoriae: le persone negavano che lì ci fosse stata la deportazione. Allora ha deciso di dedicare la sua vita al ricordo dei deportati con quest’opera discreta, diffusa e anche molto concettuale perché basata sulla scrittura. Il suo progetto sottrae la deportazione a una cifra incommensurabile e inimmaginabile – 10 milioni – per riportarla alla concretezza di una massa enorme di singoli individui. È evidente che più che di un’opera si tratta di un processo senza fine perché è impossibile pensare di porre 6 o 10 milioni di pietre d’inciampo. Gunter crede molto nell’artigianalità del processo: ha un solo assistente, proprio perché non vuole che il lavoro si serializzi, diventi una macchina organizzata come in fondo è stato lo sterminio. Preferisce tempi lunghi, consapevolezza che ogni pietra è un individuo, posare le pietre personalmente inchinandosi come atto di omaggio alle vittime e alle loro famiglie presenti.
Quanto ci vuole per realizzare ogni anno la collocazione delle pietre?
Ci vuole circa un anno, pensi che già riceviamo le richieste per l’anno prossimo. Occorre accogliere le richieste dalle famiglie, verificare le informazioni, scrivere i testi, inviarli all’artista e discutere con lui eventuali cambiamenti, decidere la data di installazione, programmare il percorso e avviare il lungo iter di approvazione dei municipi che devono inviare le squadre di operai per installarle.
Come reagisce l’amministrazione a questa iniziativa?
Finora abbiamo quasi sempre ricevuto un sostegno pieno e la presenza dei Presidenti dei municipi alle installazioni. Nessuno si è mai rifiutato di autorizzare l’installazione delle pietre, come invece è successo in altre parti d’Europa.
E la città, invece?
È difficile generalizzare, specie per una grande città come Roma. Quando installiamo le pietre, a volte assistiamo a qualche segno di insofferenza da parte degli inquilini del palazzo e dei passanti, per il resto si incontra in giro gente che “inciampa” e che si ferma interessata a leggere le pietre. C’è anche un progetto didattico che accompagna l’installazione: le scuole partecipano e si preparano anticipatamente con ricerche sulle vittime, poi il giorno dell’installazione gli studenti tengono concerti e performance.
Qual è il “segreto” di questo successo?
Le “Stolpersteine” sono un progetto semplice da capire e da trasmettere soprattutto ai giovani che hanno così un approccio con la Shoah più indiretto di quello attraverso le immagini che siamo soliti vedere nei musei e che spesso li terrorizzano. La scrittura è un mezzo più indiretto, anche se quello che è scritto sulle pietre è terribile, può essere mediato ed elaborato da insegnanti e genitori. E poi l’idea base del progetto, ricordare singolarmente i deportati riportandoli nella loro casa, è di grande impatto e di grande forza. Significa restituire una identità e una dignità a chi è stato ridotto a numero e significa soprattutto dare a queste persone un posto dove poter essere ricordate. Pur essendo così discrete, le pietre sono però radicate nella città, sono interrate e permanenti. Coniugare discrezione e radicamento: questo è sicuramente l’elemento di forza del progetto, come anche il fatto che si tratta di un memoriale diffuso, di una mappa della memoria municipale, urbana e nazionale. Ogni quartiere ha il suo monumento che gli consente di aggregare i cittadini e trasmettere la sua storia.
Eppure, ci sono stati episodi di vandalismo.
Sì, troppi, purtroppo. Già in occasione della prima edizione, le pietre dedicate alla famiglia di Piero Terracina sono state imbrattate di vernice nera. Però la reazione della città e delle sue istituzioni è stata forte e immediata, con un presidio cui parteciparono il sindaco Alemanno, e il presidente della Provincia Zingaretti, e con la pulitura immediata delle pietre. Altri esempi di vandalismi ci sono stati a via Madonna dei Monti, dove sono state divelte le 20 pietre in memoria della famiglia Di Consiglio e poi a S. Maria in Monticelli, dove sono state divelte le 3 pietre in memoria della famiglia Spizzichino. In generale lamento lo stato di abbandono delle pietre, e questa è una responsabilità dell’amministrazione comunale cui i famigliari delle vittime hanno affidato la loro memoria privata. Ciò non toglie che tanti volenterosi, dai portieri degli stabili ai famigliari si occupino di tenerle lucide e brillanti. Pochi anni fa organizzammo con l’ambasciata tedesca e con le scuole una giornata di pulizia di tutte le pietre di Roma. Di recente, nella giornata europea della cultura ebraica l’Ugei ha fatto lo stesso con le pietre del ghetto.
Che effetto producono le pietre?
Anche solo leggendo le 4 righe incise su ogni pietra si capisce moltissimo della storia e della memoria della città. Soprattutto si capisce la mappa dell’antifascismo, e che la deportazione non è stata solo il 16 ottobre, e che non è stata sola tedesca, perché la deportazione è avvenuta con l’aiuto attivo dei fascisti. Si mostra così che il mito degli “italiani bravi gente” è in buona parte falso. Insomma queste piccole pietre hanno tantissimi risvolti: contro il negazionismo, a favore della memoria dal basso, contro ogni neutralità del monumento. Sono uno strumento per l’attivazione della memoria. Soprattutto adesso che testimoni stanno scomparendo, le pietre saranno uno strumento molto efficace per la memoria.
Una domanda più generale. Come viene tutelata la memoria della Shoà nel nostro paese, a suo giudizio?
Si fa molto, moltissimo ma spesso troppo concentrato in un giorno o in un mese mentre credo che i progetti per radicarsi debbano essere ricorrenti e avere tempi lunghi. E da questo punto di vista, gli Stolpersteine sono esemplari, per i tempi e il coinvolgimento di tante persone. Anche a Ostia, per la biennale d’arte, ogni edizione esige almeno due anni di lavoro perché gli artisti devono venire prima a visitare il sito e poi pensare al lavoro. Credo cioè che occorra tutelare e trasmettere la memoria attraverso un’esperienza attiva, una partecipazione e immedesimazione, non attraverso la semplice contemplazione di un monumento. Per questo sono convinta che l’architettura possa fare molto per attivare la memoria. Pensi al memoriale agli ebrei uccisi a Berlino, al senso di disagio che si prova camminando attraverso le stele. Ed è importantissimo coinvolgere i giovani. Il servizio fotografico delle installazioni delle pietre, ad esempio, è fatto ogni anno dagli studenti della scuola “Roberto Rossellini”.
Avete mai parlato del futuro del progetto?
Gunter ha 74 anni. Da un paio d’anni ha deciso di essere presente solo la prima volta che si installano le pietre. A Roma è venuto per dieci anni di seguito dunque ora siamo in grado di cavarcela da soli avendo fatto tesoro delle sue indicazioni sul come e dove collocarle. Per il futuro, io confido che sarà direttamente l’artista a dirci come proseguire.
Per saperne di più: progetto pietre d’incampo
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