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Il ghetto di Venezia

L’ebraismo italiano? Occorre più dialogo e meno monologhi

Con Dario Calimani, presidente della comunità di Venezia, inizia un (nuovo) viaggio di Riflessi nella comunità ebraiche italiane, per capire come affrontano l’emergenza degli ultimi sei mesi

Professor Calimani, come vive la sua comunità questo periodo di guerra che coinvolge Israele?

Dario Calimani, già docente di letteratura inglese all’università Ca’ Foscari, è presidente della comunità ebraica di Venezia

Viviamo in un periodo di silenzio e di sospensione. Apparentemente continuiamo la nostra vita come se tutto fosse normale, cercando di metabolizzare le nostre preoccupazioni, le nostre angosce e il nostro dolore per quel che sta accadendo, nonché la frustrazione per ciò che vediamo, ascoltiamo, leggiamo quasi quotidianamente, a cui non riusciamo a rispondere in modo idoneo. È insomma un momento di disagio e di imbarazzo estremi. Vorremmo fare qualche cosa, ma non sappiamo cosa. Ogni volta che qui a Venezia pensiamo a come reagire, magari con incontri ed eventi pubblici in campo di Ghetto, poi ci sforziamo di affrontare la questione in modo razionale e responsabile, pensando alle possibili conseguenze di ogni nostra azione.

A cosa si riferisce?

un angolo dell’ex ghetto ebraico a Venezia

Le faccio un esempio. Subito dopo il 7 ottobre, alcuni studenti israeliani universitari a Padova sono stati trovati ad affiggere sulle mura del Ghetto le fotografie dei rapiti, un atto di sensibilizzazione significativo. La comunità, tuttavia, si è chiesta che cosa potesse comportare attirare sul Ghetto tanta attenzione. Occorre considerare infatti che questa zona è considerata da tempo uno degli obiettivi sensibili più probabili in Italia, e dunque una manifestazione come quella proposta avrebbe potuto aumentare un rischio già attuale, oltre che qualche reazione ostile. A fronte di questo rischio, dobbiamo considerare che una piccola comunità come la nostra non ha alcun mezzo per “difendere la posizione”, come può accadere a Milano e a Roma. Dobbiamo soppesare ogni nostro gesto che, per quanto animato da buone intenzioni, potrebbe prestare il fianco alla contestazione, che di questi tempi è presente e attiva anche a Venezia, nutrita di antisionismo e non di rado di antisemitismo. Se attività di dissenso entrassero nel Ghetto, noi non saremmo in grado di garantire la sicurezza delle persone, delle nostre istituzioni, delle attività presenti nell’area del Ghetto. Naturalmente, la presenza costante, ventiquattr’ore su ventiquattro, delle Forze dell’ordine che presidiano i nostri luoghi in modo eccellente è una garanzia; ma non lo è mai al cento per cento, e vi sono poi altri generi di manifestazione del dissenso che, come si è visto in altri luoghi, potrebbero creare difficoltà ed essere motivo di imbarazzo.

Dario Calimani con il sindaco di Venezia Brugnaro (a destra)

A proposito di reazioni. Quali sono i rapporti che la comunità di Venezia a con le istituzioni cittadine?

I rapporti sono ottimi e continui, con la Regione, la Prefettura, la Questura, la Digos, la Guardia di Finanza che sorveglia il Ghetto da vent’anni, con il Comune. Il Sindaco Brugnaro ci ha portato la sua solidarietà in Ghetto immediatamente dopo il 7 ottobre, e ha esposto fuori dalla sede del Comune la bandiera israeliana, mantenendola caparbiamente nonostante le vibrate proteste ricevute da alcuni settori.

E con l’Università?

una delle aule di Ca’ Foscari

Non c’è un rapporto istituzionale, formale, con l’università. Qui però si tratta anche di comprendere la realtà in cui ci si muove.

Cosa intende?

C’è stato un tentativo, certamente promosso in buona fede, di intervenire presso le autorità accademiche al fine di evitare lo svolgimento di manifestazioni studentesche Pro Pal. Personalmente, conoscendo l’ambiente universitario, non mi sono impegnato a sostenere l’intervento, che com’era prevedibile non è andato a buon fine. Nelle università vige infatti il sacro principio dell’autonomia dell’insegnamento, il che significa che ciascun docente è libero di decidere come orientare e svolgere la propria attività d’insegnamento e culturale. Quando si tenta di influenzare tale autonomia il rischio è che ne escano risultati inattesi e indesiderati, il cui effetto si ritorce contro la nostra comunità. Se tali interventi non sono più che meditati, il rischio è che poi aumentino, invece che diminuire, i pregiudizi nei nostri confronti, ad esempio alimentando l’idea della “lobby ebraica”, che cerca di condizionare la politica e la cultura. Dobbiamo assumerci con piena consapevolezza la responsabilità di ogni nostra azione, e soprattutto dobbiamo porre al riparo le nostre istituzioni comunitarie dall’accusa di essere la “quinta colonna” di un governo. Non dello stato, ma del governo.

Dario Calimani L'ebreo in bilico
l’ultimo libro di Dario Calimani (L’ebreo in bilico), ed. Giuntina

Lei è presidente della comunità di Venezia, ma anche profondo conoscitore della città e fine intellettuale. Come riesce a mettere insieme queste tre profili nel momento in cui guarda a questa guerra?

È evidentemente impossibile esercitare il proprio ruolo senza essere coinvolti anche sul piano umano e personale, soprattutto in un momento così drammatico. Detto questo, in quanto rappresentante della comunità di Venezia avverto molto la responsabilità di affermare il profondo legame, storico, umano e affettivo, che abbiamo con lo Stato d’Israele. Ma ho anche perfetta consapevolezza del mio dovere di rappresentare e di tutelare la nostra comunità. Mi spiego: in occasione del Giorno della Memoria, lo scorso 27 gennaio, ho svolto il mio intervento al teatro “La Fenice”, in cui ho affermato la nostra assoluta vicinanza e solidarietà, come ebrei italiani, a Israele, e il suo diritto non solo a esistere, ma anche a difendersi. Ho però ritenuto di precisare che questa nostra posizione certo non arriva a limitare la libertà di chi voglia criticare un governo, fosse anche il governo israeliano. In altre parole, criticare l’attuale governo di Israele non è, di per sé, necessariamente una forma di antisemitismo, è semmai l’espressione di una posizione politica. D’altra parte non possiamo fingere di non sapere che anche in Israele il governo subisce continue e profonde critiche. Io certo non scendo in piazza, e non mi pronuncio sulla linea politica del governo israeliano, che magari posso considerare azzardata, forse addirittura dannosa. Come presidente di comunità difendo invece a spada tratta il diritto di Israele a esistere e a difendersi. Sono convinto che difendere qualsiasi azione di un governo rischia di ledere l’immagine di un intero stato e del suo popolo, e il senso stesso della sua esistenza.

Dario Calimani al teatro “La Fenice” lo scorso 27 gennaio

Cosa pensa quindi di chi, pur schierandosi dalla parte di Israele, critica l’attuale governo Netanyahu?

In questo paese c’è la libera manifestazione del pensiero, e dunque anche la libertà di criticare la linea di un governo. Ripeto: se il governo attualmente in carica è criticato dentro Israele, non vedo perché non possa essere criticato anche da un ebreo della diaspora. Naturalmente se mi intervista come Presidente di comunità, rispondo ribadendo che il mio ruolo non è quello di esprimere una critica, ma quello di sostenere il diritto di Israele a esistere e, quando attaccato, a difendersi. Credo che chi esercita un ruolo istituzionale debba far sempre prevalere la tutela delle istituzioni che rappresenta sulle proprie idee personali. Se si vuol essere liberi di esprimersi come individui si deve rinunciare a ruoli di rappresentanza.

La sua comunità come sta affrontando questa situazione?

Giovani della comunità ebraica veneziana ripuliscono pietre d’inciampo

Cerchiamo di agire senza esporci a iniziative che potrebbero nuocerci. Anche qui le faccio alcuni esempi. A Venezia, alcuni iscritti avrebbero voluto che si esponessero bandiere israeliane in giro per il Ghetto, Vecchio e Nuovo. Altri iscritti avrebbero voluto invece che si firmassero appelli, nati all’interno dell’università, a favore della pace. Si tratta di due casi opposti, che pongono entrambi dei problemi. Nel primo, infatti, ci saremmo esposti al rischio di reazioni ostili che difficilmente avremmo potuto gestire. Chi vuole le bandiere difficilmente te lo trovi accanto a difendere le idee. Nel secondo caso, invece, ci saremmo trovati a firmare vuoti appelli alla pace, volti in realtà a sostenere solo una prospettiva palestinese, ostile a Israele. Alla fine, il ruolo di un presidente deve essere quello di muoversi in uno spirito di equilibrio, anche al fine di rappresentare le varie anime che compongono la sua comunità.

Non si rischia così l’immobilismo?

una delle sinagoghe di Venezia

No. Ci sono altri modi, più utili e più efficaci, per esprimere la nostra solidarietà e il nostro profondo legame con Israele. A Venezia abbiamo avviato un corso di letteratura israeliana moderna, e inoltre un corso sulla storia di Israele aperto a tutta la cittadinanza, per far capire che quel che sta accadendo in questi giorni ha origini lontane, e che la storia del conflitto non nasce con Gaza. Abbiamo anche avviato stretti contatti con gli studenti israeliani di Venezia e di Padova per considerare le loro esigenze e le loro difficoltà, e stiamo cercando di tenerli uniti attraverso una serie di iniziative comunitarie. In altre parole, non trattiamo la crisi in corso in maniera asettica, ma con la consapevolezza delle risorse a nostra disposizione. Stiamo poi ospitando, proprio nei prossimi giorni, delle mostre di artisti israeliani a margine della Biennale attualmente in corso. Insomma: aiutiamo Israele come possiamo, soprattutto intensificando i rapporti culturali con le istituzioni cittadine, senza affatto nascondere il nostro legame affettivo con lo stato d’Israele. Sosteniamo e diamo risalto alla presenza culturale di Israele proprio nel momento in cui nelle Università si cerca di boicottarla.

La guerra in corso mette sotto pressione l’intero ebraismo italiano. Lei ha mai avuto modo di confrontarsi con gli altri presidenti di comunità?

la manifestazione del 5 dicembre 2023, organizzata da Ucei e Cer contro antisemitismo e terrorismo

Già da prima del 7 ottobre ho cercato di creare un canale di comunicazione con gli altri presidenti delle comunità, medie e piccole. Purtroppo la realtà che registro è piuttosto sconfortante. Dopo sei mesi di conflitto siamo un po’ abbandonati a noi stessi. Questo significa che ogni comunità deve fronteggiare la situazione sulla base della sensibilità e della capacità di ciascuno di noi, quando invece servirebbe confrontarci di continuo per proporci una linea quanto più possibile condivisa. Ci si muove invece alla rinfusa, e un po’ a senso.

In questo non siete aiutati dall’Ucei?

Sono costretto a darle una risposta dolorosa. Ad oggi l’Ucei si è dimostrata incapace di tenere un reale collegamento con le medio-piccole comunità ebraiche. Al di là di questioni tecniche, legate alla sicurezza, per quanto certo importanti, l’Ucei è mancata nella capacità di costruire una linea comune, di avviare un dialogo, e un confronto, ove necessario. L’Ucei si muove in maniera del tutto autonoma, senza mai consultare i presidenti della comunità, se non in rari casi, magari quando è stimolata a farlo; il ruolo di rappresentare le comunità ebraiche italiane non dovrebbe escludere un canale di comunicazione continuo con le comunità, e, soprattutto in situazioni di emergenza come quella che stiamo vivendo, la ricerca di percorsi condivisi su scala nazionale. Avremmo bisogno di costruire insieme la consapevolezza del tempo che viviamo e delle possibili risposte necessarie. In realtà non c’è stato mai un vero confronto. Il rischio è che se non si ascoltano le realtà locali si possano esprimere posizioni, per quanto in buona fede, che non rappresentano l’interesse della comunità ebraica in senso lato.

Cosa bisognerebbe fare per migliorare questo rapporto?

il progetto Art. 3 dell’Ucei presentato a Venezia

Con una battuta, le direi che abbiamo bisogno di dialoghi, e non di monologhi. Certo, riconosco che anche l’attuale composizione dell’Ucei complica questa situazione. Il fatto che ciascuna comunità abbia la possibilità di essere rappresentata nel consiglio dell’Ucei non dovrebbe far venire mai meno la consapevolezza che è necessaria maggiore comunicazione fra il centro e la periferia, maggiore dialogo con le comunità, e non solo attraverso i consiglieri Ucei. La linea dell’ebraismo italiano sulla crisi in corso dovrebbe essere discussa e scelta insieme ai presidenti delle comunità, tenendo anche in seria considerazione le esigenze e le problematiche assai diverse delle ventuno comunità, che si muovono tutte in contesti politici e sociali diversi. La necessità di essere uniti di fronte al momento di grande crisi in cui si dibatte lo stato d’Israele non può essere un pretesto per impedire il dialogo e il confronto tra noi. Dovrebbe essere anzi esattamente il contrario. Dobbiamo assuefarci al brutto vizio di ascoltare e di essere ascoltati.

l’Ucei rappresenta le 21 comunità ebraiche italiane. Il suo ruolo è regolato da una legge

Cosa chiede all’Ucei?

Di creare un legame fatto di ascolto e comprensione su cui costruire un’unità convinta e condivisa, garantendo che posizioni e scelte di carattere politico corrispondano al pensiero quanto meno di una maggioranza di noi. Perché ciascuna comunità ha la sua autonomia: siamo in realtà una federazione di comunità. Sarebbe allora necessario non accontentarsi di ‘rappresentare’ da una posizione di vertice, ma impegnarsi a costruire consenso e condivisione. Questo è ciò di cui la comunità ebraica italiana ha bisogno, soprattutto in momenti di crisi come quello che stiamo vivendo. E la comunità ebraica italiana avrebbe anche bisogno di ricostruire, attraverso i suoi mezzi di comunicazione, la pluralità di voci, soprattutto diverse e discordanti, che ne rappresentano il pensiero e la prassi. Pluralità come paradigma di libertà del pensiero. Soprattutto nel momento in cui Israele ha bisogno del sostegno di voci politiche plurime, e non solo di difese d’ufficio. Auspicabile che non sia ‘per la prossima volta’.

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