Cerca
Close this search box.

Vi racconto il mio Stefano

Daniela Gaj racconta a Riflessi suo figlio Stefano, e come sono trascorsi questi 39 anni

Signora Daniela, mi racconta la sua famiglia prima di quella mattina?

Stefano nell’estate del 1982

Eravamo una famiglia normale, come tante altre: una moglie, un marito, e due figli; due bambini di 2 e 4 anni. Io ero una mamma felice, fanatica dei miei figli. Mi piaceva vestirli uguali.  Erano il mio mondo, il mio orgoglio, la mia ragione di vita andata via in un attimo.

Stefano aveva due anni; me ne vuole parlare?

Certo. È proprio per lui che ho deciso di raccontare. Ho aspettato tanti anni prima di iniziare a parlare. Era necessario far maturare in me i miei sentimenti.  Stefano era un bel bambino. Era sveglio, intelligente, spiritoso; era un bambino normalissimo, che ci dava la gioia di vivere. E poi era un bambino scanzonato. Anche se aveva solo due anni, già capiva il francese e l’ebraico; meno l’italiano. Era un bambino piccolo, e alla sua età faceva anche tante birichinate.

E tra Stefano e Gadi? Com’erano, insieme?

Lui e Gadi avevano solo due anni di differenza. Quell’inizio d’autunno avevano iniziato insieme l’asilo. Fecero solo il primo giorno, perché poi iniziarono le feste. Pensavamo tutti che da lì a poco avrebbero ricominciato ad andare a scuola, e invece tutto finì in modo così assurdo. Quel primo giorno di asilo di Stefano è stato anche l’ultimo. La cosa che è mancata di più a mio figlio Gadi è stata la vita quotidiana con Stefano, come per esempio giocare, confidarsi, confrontarsi o anche litigare con suo fratello. Gli è stata tolta questa bellezza, la quotidianità che si vive tra fratelli. Questa cosa non la perdono.

Le va di provare a raccontare quel giorno?

Stefano, e sua madre Daniela, oggi

Tornare indietro di 39 anni è difficile. Ma ci sono cose che restando indelebili nella mente. Avevo l’abitudine di uscire di casa e passare sempre a salutare mia sorella, che stava al piano di sotto. Così ho fatto anche quella mattina. L’ho salutata e siamo andati via di corsa, perché era tardi. Andammo in macchina, e parcheggiammo davanti al tempio. Ricordo che pensai che era stata una fortuna… Dopo aver messo loro il talled, lasciai i bambini con mio marito nella parte degli uomini, e salii su dalle donne. Li guardavo dall’alto e mi sentivo fiera.  Poi c’è stata la catastrofe.

Cosa ricorda dell’attentato?

Mi ricordo di aver sentito quegli scoppi, e di avere capito subito che era un attentato. Ricordo che ai primi soccorritori ho gridato: “Non voglio morire!”. Poi mi hanno preso e portato in ospedale. Lì, appena ho ripreso conoscenza, ho domandato dei miei bambini, e ho visto chi mi stava intorno abbassare gli occhi, senza dirmi nulla. Ricordo anche che avevo un maghen David addosso, e dissi che non dovevano perderlo, perché era un regalo di mia nonna. Poi devono avermi addormentata. Quando mi sono risvegliata, non c’era più il maghen David, e non c’era più Stefano.

Quanto tempo è stata ricoverata?

Joseph Taché, durante il funerale al piccolo Stefano Gaj

Sono stata in ospedale fino all’11 o al 12 dicembre. Nel frattempo avevo chiesto di farmi sentire Gadi. Quando alla fine me lo passarono al telefono, la sua voce era irriconoscibile, per via delle tante anestesie subite. Appena sono uscita dal Fatebenefratelli sono andata al San Camillo, dove era ricoverato Gadi, e mi sono trasferita lì fino a quando, poco tempo dopo, non hanno dimesso anche lui.

È tornata a casa sua?

No. Mi trasferii da mia madre, e ci rimasi circa 3 anni. Non riuscivo a tornare in quella casa dove avevamo vissuto come una famiglia felice. Andavo tutti i giorni davanti la porta, ma poi non trovavo mai la forza di entrare. Lo sa?, Stefano quella mattina aveva lasciato tutti i suoi giocatoli per terra, e per la fretta erano rimasti lì. Non sono rientrata in casa fino a quando non ho trovato il coraggio di prendere i giocattoli e metterli in due piccole valigie da bambino regalate a Stefano. Due valigie di Snoopy.

È stata lei a dire di Stefano a Gadi?

Rav Toaff il giorno del funerale di Stefano

Sì. Ricordo che eravamo soli in stanza, in casa di mia madre. È successo appena siamo usciti dall’ospedale. Gadi mi ha subito domandato dove fosse Stefano, e io a quel punto ho detto: “Stefano non torna in più, adesso è in cielo”. Poi siamo scoppiati a piangere entrambi. Aveva capito subito.

Come sono stati i primi anni senza Stefano?

Sono stati anni tremendi. Gadi aveva bisogno di continue cure. Abbiamo cercato di creare per lui un ambiente sereno e felice, pur avendo dolore e morte dentro di noi. Gli abbiamo mostrato il più possibile certezze, sicurezze serenità e normalità. È come se avessi smesso di pensare alla mia vita. Mi sono dedicata totalmente a mio figlio e alla mia famiglia.

La comunità le è stata vicina in questi anni?

Joseph Taché, Daniela Gaj e Gadiel nel 1983

Sì, lo è stata. Anche se c’è stato qualcosa, a essere sinceri, che mi ha ferita.

Cosa?

Alcune volte ho notato che ci sono state delle feste nel giardino del tempio, proprio il 9 ottobre, allo stesso orario in cui c’è stato l’attentato.  Sapere questo per me è stato un dolore ulteriore, perché per me la comunità non dovrebbe dare l’autorizzazione per festeggiare in quella data. È una questione di rispetto per la memoria di un avvenimento che ha riguardato tutta la Comunità. Non soltanto la mia famiglia.

Vorrei chiederle, signora Daniela, se questa esperienza che si porta dietro le ha mai fatto dubitare della sua fede.

No. Io sono e sarò sempre ebrea. Sono un’ebrea che ha fede e che crede in Israele, sempre e comunque. Per cui non mi sono mai fatta queste domande, sono sempre rimasta fedele ai miei sentimenti di ebrea.  La mia fede non è mai mutata. Ma, vede, ora le mie abitudini sono un po’ cambiate. Non ho smesso di andare al Tempio. Ma ogni volta che sono lì mi guardo intorno. Osservo tutto con attenzione. Non nascondo di avere un po’ di paura che possa ripetersi un evento simile

C’è un’ultima cosa che vuole dirci di Stefano?

Sì. Stefano oggi avrebbe 41 anni. Io ci penso sempre, a come sarebbe stata la sua vita. Oggi me lo immagino come un uomo laureato, elegante, fiero di sé, e allegro. Ecco come continuo a pensarlo. Mi è rimasto dentro tanto amore per mio figlio, e tanta rabbia nei confronti di chi me l’ha portato via e nei confronti di chi dimentica e di chi non ha il coraggio di raccontare ai propri figli questa storia.

 

Questa è l’ultima puntata del reportage “9 ottobre 1982: una ferita italiana”.

Leggi le altre puntate:

Le ragioni di questo viaggio (Livia Ottolenghi)

9 ottobre: intrico di Stato? (Miguel Gotor)

Gli anni sospesi della memoria (Eliana Pavoncello)

Il mio senso di precarietà (Rav Benedetto Carucci Viterbi)

Dolore e sgomento (Lello Anav)

Ricordo ancora tutto (Sando Di Castro)

In Italia mi sentivo al sicuro (Nessim Hazan)

Ecco il prezzo del mio ghiur (Nereo Musante)

Il Premio Stefano Gay Taché (Aldo Astrologo)

Pagammo un odio lontano e diffuso (Alberto Di Consiglio)

Avevo il piccolo Stefano al mio fianco (Alba Portaleone)

E poi il peggio è arrivato (Lia Levi)

Scontro tra terroristi (Arturo Marzano e Guri Schwarz)

Non dovete dimenticarci (Gadi Taché)

Una risposta

Rispondi a Vito Perugia Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Condividi:

L'ultimo numero di Riflessi

In primo piano

Iscriviti alla newsletter