Non dovete dimenticarci
Gadiel Taché aveva 4 anni quando venne ferito nell’attentato. A Riflessi racconta come è cambiata la sua vita da allora
Gadi, quanti anni avevi nel 1982?
Avevo 4 anni.
Dunque eri solo un bambino di pochi anni. Ricordi qualcosa della tua famiglia di allora?
No, non ho ricordi particolari. Neanche di Stefano. Posso dirti però che eravamo una famiglia normale, come molte altre; con bei momenti, e con qualche difficoltà. Eravamo una famiglia felice.
Quella mattina, tu eri al tempio insieme ai tuoi genitori e a Stefano.
Sì, eravamo tutti assieme, tutti e quattro al Tempio. Credo che all’uscita io fossi davanti a papà. Stavamo tutti chiacchierando normalmente. Era all’uscita, su via Catalana.
Che ricordi hai di quel giorno?
Il mio primo ricordo non è dell’attentato, ma dell’elicottero. Fummo portati all’inizio tutti al Fatebenefratelli, ma io ero in condizioni gravissime e l’ospedale non era attrezzato per un caso come il mio; così mi trasferirono al San Camillo in elicottero. Il mio unico ricordo è legato a un odore. Sentii un odore così acre e forte che non resistetti, e rigettai nell’abitacolo.
Chi c’era con te dei tuoi familiari?
Mia madre era ricoverata in rianimazione. Ricordo solo che mio zio correva verso l’elicottero, ma non so dire se poi è salito.
In che condizioni arrivasti al San Camillo?
Come ti ho detto ero molto grave. In seguito ho subito almeno una trentina di interventi, e sono stato in coma per un certo periodo. Le schegge mi colpirono all’arteria femorale, in testa, all’occhio, nel resto del corpo. Molte me le porto dietro da allora. Per cui comprenderai che mi considero un vero miracolato. I medici riuscirono a suturare l’arteria femorale, e a salvarmi l’occhio.
Cosa ricordi della degenza in ospedale?
Il risveglio in ospedale fu particolare. Quando mi risvegliai, infatti, ero completamente stordito, per tutte le anestesie ricevute. Ricordo però che chiesi una crostata; forse ero rimasto con la mente al venerdì sera, quando papà portava sempre a casa la crostata di visciole. In ospedale ricordo anche che ero guardato a vista dai miei parenti. Ero piantonato, per così dire. C’era tutta la mia famiglia materna: miei nonni, i miei zii, i miei cugini; erano tutti lì. Sai, lo shock per tutti era stato così forte che in quel momento la loro paura era che potesse tornare qualche terrorista e terminare il lavoro.
Come è stato il ritorno a casa?
Non ho ricordi di quando sono tornato a casa. La mia mente ha cancellato tutto. Ha cancellato anche il momento in cui mia madre mi disse che Stefano non sarebbe più tornato con noi.
Cosa è significato per te vivere l’infanzia con quel trauma e quella perdita?
Sono stati per me gli anni di ricostruzione. Ormai eravamo una famiglia distrutta, devastata. Non parlo solo dei miei genitori, parlo di tutta la mia famiglia allargata. Per me personalmente quelli sono stati anni di ricostruzione psicofisica, entravo e uscivo dall’ospedale in continuazione. Ancora oggi ho problemi che ogni tanto riaffiorano.
E i tuoi genitori?
Loro non stanno bene, non possono stare bene neanche oggi. Dopo due anni si separarono, mio padre si è risposato, ha provato a rifarsi una vita. Mia madre, invece, in un certo senso è come se fosse morta 39 anni fa. La sua non è più stata una vita normale, come non lo è più stata la nostra. Mia madre ha vissuto solo per uno scopo: crescere l’unico figlio che gli era rimasto in modo sano ed equilibrato; e devo dire che, visto in che condizioni eravamo, il lavoro fatto è ottimo.
E la comunità? Come visse il vostro dramma?
Sai, quando è successo, abbiamo avuto il cordoglio di una nazione intera. Le dimostrazioni d’affetto sono arrivate da tante parti, e naturalmente la Comunità si è sentita coinvolta in prima persona. Ancora oggi sono molti che ricordano. Ci sono state persone che hanno portato avanti la memoria, e tuttora lo fanno. Se il presidente Mattarella ha ricordato la strage nel suo discorso di insediamento certo vuol dire che la dirigenza comunitaria se ne è fatta carico. Tuttavia devo essere sincero. È successo anche che mi sia trovato a parlare con ragazzi della nostra Comunità che oggi hanno trent’anni, e che non sapevano niente dell’attentato, e questa è una cosa gravissima, dovuta forse a una scarsa sensibilità, anche da parte delle famiglie. In questa lenta perdita della memoria io credo che abbiamo tutti delle responsabilità. Per non parlare delle amnesie a livello nazionale, riparate con decenni di ritardo. Comunque credo che a livello comunitario si possa fare di più, e in maniera diversa.
Cosa potrebbe farsi secondo te per evitare questa lenta perdita della memoria?
In un certo senso io credo che l’attentato del 9 ottobre sia una tragedia così grave che debba essere iscritta nella nostra memoria. La comunità di Roma, pur con tutte le differenze che ci sono e che comprendo, in questi ultimi novant’anni ha subito 2 grandi ferite: il 16 ottobre 1943 e il 9 ottobre 1982. Io credo che la nostra comunità allora si debba impegnare a preservare la memoria dell’attentato al tempio, e delle vittime che ha fatto. Per la nostra comunità questo giorno deve essere visto come un giorno di lutto, e questo spesso non accade, non è accaduto in passato, quando sono stati festeggiati dei bar mitzvà e dei matrimoni di 9 ottobre. Qualcuno ha ignorato questa giornata, perché non la conosce o non gli dà la giusta importanza. Invece ci deve essere un impegno nelle scuole. I bambini e i ragazzi delle nostre scuole devono studiare e approfondire la storia dell’attentato come la storia delle leggi razziali e della razzia del Ghetto di Roma del 16 ottobre 43. Si devono considerare i nipoti della Shoà, ma anche i figli dell’attentato alla Sinagoga. Questo è il lavoro che deve essere affidato agli insegnanti delle scuole e alle famiglie della nostra Comunità. In questi anni, prima del Covid, ho cercato di svolgere questo lavoro anche in prima persona. Rincomincerò presto. Perché altrimenti il tempo passa, e le persone rischiano di dimenticare.
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Una risposta
Oltre ad essere enormemente interessanti , le parole di Gady Tachè sono importanti soprattutto per i giovani.