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In Italia pensavo di essere al sicuro

Nessim Hazan, uno dei feriti più gravi nell’attentato alla Sinagoga del 9 ottobre 1982, racconta a Riflessi la sua esperienza.

 

 

Nessim, ti ricordi il clima di quei giorni, precedenti all’attentato?

Immagini dell’attentato al Tempio (foto: si ringrazia Stefano Montesi. Foto coperte da copyright; non è consentita la riproduzione senza autorizzazione)

Certo che me lo ricordo. Quel giorno, appena arrivai al Tempio notai l’assenza delle guardie e mi preoccupai perché c’erano sempre state. Mi domandai subito quale fosse il motivo e me lo domando ancora oggi. Non ho mai ricevuto una risposta, né dallo Stato, né dalla CER.

Stai insinuando che la loro assenza non fu casuale?

Non voglio insinuare nulla; evidenzio un fatto. La loro immotivata assenza ha reso possibile l’esecuzione dell’attentato. Le varie Ambasciate hanno successivamente permesso la fuga degli attentatori.

Ti riferisci alla possibilità di quell’accordo segreto che gli storici chiamano “Lodo Moro”?

Non lo conoscevo all’epoca. Dopo 26/28 anni se ne è cominciato a parlare ed ha confermato le mie certezze. Il mondo politico italiano intero era per Arafat e per i Palestinesi che venivano considerati combattenti e non terroristi. Avevano paura di chiamarli così. Non mi pare che ci fu una corsa della Giustizia italiana a cercare i responsabili. Ricordo che le domande, che ci fecero i magistrati che indagavano, sembravano un teatrino. Alle nostre risposte non seguivano ulteriori domande per maggiori chiarimenti ma si passava oltre senza approfondire troppo.

Ti ricordi i tuoi preparativi di quella mattina?

Immagini dell’attentato al Tempio (foto: si ringrazia Stefano Montesi. Foto coperte da copyright; non è consentita la riproduzione senza autorizzazione)

Sì, mi ricordo che non pensavo di andare al Tempio, ma poi una telefonata di mia cognata mi ricordò che quella mattina ci sarebbe stata la berachà dei bambini e così decisi di portarci mia figlia di appena tre mesi. La berachà le fu impartita da Rav Haim Della Rocca ed ebbe certo effetto, perché lei si è miracolosamente salvata, senza ricevere alcuna scheggia delle bombe lanciate. Quello che più mi ha colpito è che io ero scappato dall’Egitto per sfuggire agli arabi e proprio in Italia, dove pensavo di essere al sicuro, venivo colpito da loro. E’ stato veramente il colmo…

Ti ricordi dov’eri quando i terroristi palestinesi entrarono in azione?

Ero appena uscito dal cancello di Via Catalana mentre mia moglie Eliana dava il biberon a mia figlia. Vidi delle persone che cominciarono a tirare qualcosa, sembravano sassi. Dopo pochi secondi sentii le esplosioni delle bombe. Presi subito la bambina dalle mani di mia moglie e con la mia mano sinistra afferrai la destra di mia moglie, la trascinai a cercare riparo verso il secondo portone di via Catalana (quello centrale) e lì vidi un altro terrorista, biondo, con sembianze più tedesche che orientali, che aveva in mano un’arma rivolta verso l’alto che, però, non ci sparò, pur avendoci visto, ed essere noi un facile bersaglio per lui. Non riesco a darmi una spiegazione del suo comportamento. Probabilmente non era suo interesse spararci e ci ha risparmiato, perché probabilmente doveva coprire la fuga dei terroristi. Abbiamo proseguito la nostra corsa verso il terzo portone della via Catalana, al civico 3 e prima ancora di riuscire a ripararci ci fu lo scoppio della seconda bomba, che mi colpì l’occhio destro. Con il braccio coprii mia figlia e con la mano insanguinata citofonai a tutti affinché aprissero il portone e poi salimmo le scale di quel condominio dove la portiera prese la bambina dalle mie braccia e la pose sul suo letto.

Immagini dell’attentato al Tempio: l’impronta di Nessim Hazan su un campanello (foto: si ringrazia Stefano Montesi. Foto coperte da copyright; non è consentita la riproduzione senza autorizzazione)

Che cosa è successo dopo?

Salite le scale, non vedevo niente da un occhio e pensando fosse il sangue, presi uno straccio quello per lavare i pavimenti e cercai di pulirmi la faccia. In quel momento mi vennero in mente le immagini dell’esplosione alla Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano del 1969 con i feriti per terra che si lamentavano. Salutai mia moglie pensando di non rivederla più e le dissi: “Ti voglio bene”. I vigili urbani ci portarono poi al Fatebenefratelli con una loro macchina e, durante il percorso mia moglie gridava: “Isabella è morta!  Non respira!” In realtà non piangeva perché era letteralmente intontita dalle esplosioni e dallo spostamento dell’aria. Eliana era piena di schegge sulle gambe e sul viso. Io, oltre alle schegge in tutto il corpo dalla testa alle gambe, avevo anche la mandibola fratturata e subii, successivamente, diversi interventi oltre che all’occhio che irrimediabilmente ho perso, anche allo stomaco per capire se le schegge avessero toccato organi vitali, alla testa, alle gambe e al torace.

Com’è cambiata la tua vita?

E’ cambiata molto. Non è bello alzarsi tutte le mattine e vedersi allo specchio con un occhio di vetro. Avevo desiderio di continuare i miei studi per diventare avvocato ma non potei più studiare per non sforzare la vista e questo mi ha creato dei limiti dal punto di vista professionale. Per anni ho avuto paura degli attentati e per lungo tempo non sono più andato al Tempio, né inizialmente ho iscritto mia figlia alle scuole ebraiche. L’ho sempre protetta molto e coperta eccessivamente. Con l’arrivo della seconda figlia Valentina mi sono un po’ liberato e ho ricominciato a frequentare l’ambiente comunitario, senza, però, avvicinarmi al Tempio e alle nostre scuole. Sono poi ritornato perché avevo ricevuto la possibilità di salire in Tevà per la chiamata a Sefer nel giorno di Sheminì Atzereth e così da quel giorno vado sempre, anche e soprattutto per onorare la perdita del povero Stefano Gay Tachè.

Dopo l’attentato, nei mesi e negli anni successivi, ti sei sentito difeso dallo Stato italiano e dalla CER?

Immagini dell’attentato al Tempio: l’appartamento in cui Nessim Hazan trovò rifugio con la sua famiglia (foto: si ringrazia Stefano Montesi. Foto coperte da copyright; non è consentita la riproduzione senza autorizzazione)

No, né dallo Stato né dalla CER. Anche quest’ultima avrebbe potuto darci assistenza psicologica e non lo ha mai fatto. Inoltre, io non amo mettermi in mostra, ma neppure nascondermi. Spesso, durante le cerimonie pubbliche, a noi feriti venivano assegnati posti sparsi dietro le colonne del Tempio. Nel contempo vedevo che le prime file venivano assegnate ai politici e ai Consiglieri e loro familiari. Più volte ho avuto l’impressione che la nostra presenza facesse parte di una sorta di teatrino e che venissimo strumentalizzati dalla CER. Per le cerimonie per le vittime del terrorismo, ricevo gli inviti da Associazioni non ebraiche. Lo Stato italiano si è lavato la coscienza assegnando un vitalizio a chi, come me, ha subito invalidità permanente molto alta.

Oggi, a 39 anni di distanza, come ripensi all’attentato?

Sono vivo e questo è il bicchiere mezzo pieno. Voglio vedere gli aspetti positivi, anche se sono rimasto segnato per tutta la vita. Mi rimane, però del risentimento perché la Cer non ha fatto molto per noi. Non è riuscita nemmeno a costituire un’Associazione vittime dell’attentato del 9.10.1982 per spingere e sollecitare le Autorità e la Magistratura a svolgere bene le loro attività di indagine. La legge a tutela delle vittime del terrorismo non è stata neppure attuata nei nostri confronti perché prevedeva delle facilitazioni per far trovare un posto di lavoro ai nostri figli ma ciò non è avvenuto, anzi, i nostri figli sono stati assimilati ai figli delle vittime delle Forze dell’Ordine che sono molte di più e quindi i nostri figli sono scesi in quella graduatoria senza più essere tutelati. Mia figlia dal 50° posto è scesa sotto i 5000, perdendo ogni possibile beneficio.

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