“Edith”, una luce per l’umanità
Giovanna Boursier è autrice del film-documentario sulla vita di Edith Bruck. A Riflessi racconta perchè “Edith” oggi ha ancora molto da insegnarci
Giovanna Boursier, lei è ideatrice e autrice del film-documentario “Edith”. Vorrei cominciare questa intervista chiedendole come le è venuta l’idea di realizzare un documentario sulla vita di Edith Bruck.
L’idea è nata insieme ad Edith, piano piano. Ho conosciuto Edith perché volevo farle ascoltare una mia lunga intervista audio, di trent’anni fa, a Primo Levi, realizzata con una mia compagna di classe per un viaggio della memoria che poi avremmo fatto. Le chiesi così di incontrarla, e da allora è nata questa amicizia, fatta di conversazioni intelligenti e affettuose ogni volta che sono a Roma. Un giorno Edith mi ha fatto vedere un documentario ungherese del 1982, purtroppo finora inedito in Italia, in cui Edith torna in Ungheria, nel suo villaggio natio, a rivedere la casa da cui fu deportata con la sua famiglia dai nazifascisti ungheresi nel 1944. Nel documentario ci sono momenti molto coinvolgenti, come il grande pianto di Edith appena arriva alla casa. Vederlo mi ha fatto nascere l’idea del documentario.
Perché?
In quel pianto c’è qualcosa di eterno, di forte. Lei è in auto, parla con il suo interprete, riconosce i luoghi, i prati, la strada e improvvisamente cambia tono e espressione, e scoppia a piangere. Mi ha fatto pensare a un pianto universale, di tutti noi di fronte alla tragedia della Shoah. In un certo senso, penso che si possa definire anche un pianto di espiazione: non certo perché c’è una colpa da espiare per chi piange, ma nel senso che nessuno di noi può sentirsi estraneo o indifferente di fronte a quel pianto e anzi avverte una responsabilità, che in un certo senso è dell’umanità nei confronti delle vittime della Shoah. Ho pensato che tutti dovevano vederlo, e da lì è nata una prima idea.
È stato difficile reperire le risorse necessarie?
Era necessario trovare una produzione, e Didi Gnocchi è stata davvero molto disponibile – a rischiare anche – perché ha accettato subito il progetto appoggiandomi moltissimo [il film è prodotto da 3D Produzioni, in collaborazione con La7 e il patrocinio di Ucei, della Fondazione Museo della Shoah, e del Dicastero della Cultura e l’Educazione n.d.r.]. Abbiamo cominciato e tutto è diventato subito molto affascinante. Naturalmente soprattutto grazie a Edith, che si è messa a disposizione accettando di raccontare la sua ferita e la sua vita.
La cifra narrativa del film, girato esclusivamente in interni, è stata di far respirare sempre un’aria di libertà e di profonda serenità, nonostante tutto il male che Edith racconta.
All’inizio non sapevo bene cosa avrei fatto. Certo sapevo che volevo raccontare la sua storia e partire dal documentario ungherese, ma, quando abbiamo cominciato a girare, non avevo le idee chiare ed è stato il racconto di Edith che ci ha aiutati a scegliere di restare nella casa di Edith. Che, come lei, è accogliente e soprattutto piena di umanità e cultura. Edith ha fatto cinema, giornalismo, è una grande scrittrice che ha sempre scritto (perché, come dice, “la carta sopporta tutto”) ed è un’immensa poetessa. In più, per me, è soprattutto una donna che ha saputo essere nonostante. Nonostante quello che le è successo, intendo, ha saputo vivere nel senso più vero di questa parola: amare, innamorarsi perdutamente, dare, curiosare nel Mondo e persino ballare e cantare. Credo che questa sia la sua parte miracolosa, cioè quella parte che conservando sempre nella memoria quello che è stato, riesce tuttavia a costruire una vita di speranza. La Shoah è sempre presente in Edith, anche nei più piccoli riferimenti, ad esempio nel modo con cui ha curato suo marito Nelo Risi, curando insieme anche i suoi genitori uccisi nei lager. In tutta la sua vita c’è sempre Auschwitz e l’ebraismo e le sue origini e, per questo, la trascorre in un tempo che va avanti e indietro, in cui al presente si sovrappone il passato, in cui vecchiaia e infanzia si mescolano.
Di tutta questa umanità, in effetti, il film è colmo.
Devo ringraziare Michele Mally, che ha curato la regia e ha “inquadrato” Edith riuscendo a illuminarne una parte molto intima e profonda. Abbiamo scelto insieme di girare il film interamente in casa, senza però renderlo mai claustrofobico, perché dentro la casa di Edith c’è la sua identità. Abbiamo girato in totale circa 10 giorni, poi montato in altri circa 20, scegliendo con Edith le persone che accompagnassero il viaggio della sua vita.
Vogliamo ricordarle?
Certo: la nipote Deborah, figlia di sua sorella sopravvissuta con Edith; Olga, una donna meravigliosa oltre che sua assistente; Michela Meschini, sua grande amica, letterata e curatrice delle sue poesie, docente all’università di Macerata; il suo traduttore francese, Renè De Ceccaty, e il nipote acquisto, il regista Marco Risi. Tutti sono importanti, perché ci rivelano una parte di Edith e ci aiutano a comprenderla meglio. Devo dire, però, che Debora, sua nipote, per me, ha svolto un ruolo rivelatore.
Perché?
Perché, credo per la prima volta, raccontando la sua storia ci ha raccontato il dolore tramandato nella sua famiglia di Auschwitz, ha parlato di cosa provano i figli della Shoah, quei bambini “che hanno succhiato il latte di Auschwitz”. Quando finalmente queste persone riescono a capire che quel dolore non è il loro, che è quello dei genitori o dei loro familiari, allora cominciano a guarire.
Vorrei ora soffermarmi sulla grande umanità di Edith, cui lei ha già fatto riferimento. Quello che colpisce del film è certamente l’avvio, con il canto di Edith, l’albero di fronte casa, e poi il salone pieno di libri. A me sembra che fin dai primi fotogrammi il documentario voglia mostrare come, nonostante tutto, Edith è riuscita a ricostruirsi una vita e a dare sempre il meglio di sé.
Sì, è così. Da questo punto di vista anche secondo me l’inizio è folgorante. Perché dice molto: Edith canta la Tosca “imparata a Bergen Belsen dopo la Liberazione”, quando ha avuto il primo bacio anche, e poi guarda l’olmo che si affaccia alla sua finestra, che ama perché è cresciuto con lei, di fronte a casa sua. Tutto ha un valore quasi sacro, come lo è il trascorrere del tempo e, dunque, la sua memoria nel film. Dovremmo pensare che la memoria non è una cosa monumentale, ma è ciò che ci permette di vivere. E, con le dovute proporzioni, vale per tutti. La memoria è sempre proiettata nel presente e nel futuro. Nel film non mi sono posta il problema di dover rappresentare la morte, ma ho scelto di mettere al centro Edith, che ha sempre saputo scegliere la vita. Come ho detto ha saputo amare e innamorarsi perdutamente di suo marito, il poeta Nelo Risi. Questo per me è il senso della memoria, la capacità di essere e costruire una vita senza dimenticare il passato, ma in qualche modo ospitandolo dentro di noi e dandogli spazio all’interno della nostra vita.
Le racconto questo aneddoto: Edith racconta di quando Nelo, già molto malato, ascolta con lei e Olga un disco di Frank Sinatra con la sua canzone preferita, “My way”, e chiede di ballare con loro, con la sedia a rotelle, intorno al tavolo. Mi sembra che questo sia un esempio di quel che intendo, quando affermo che i ricordi nella vita di una persona non sono mai pietrificati, che la memoria abita il nostro presente: le musiche che ascoltiamo, i nostri sguardi sui fatti e la scelta di fare certe cose. E poi la memoria di Edith, che sta nella sua casa, nelle sue fotografie, trova sempre, anche nel racconto più duro e angoscioso, nei momenti più bui, una luce a sostenerla: “le 5 luci dei lager”, le chiama. E le racconta sempre. Edith non ha odio dentro di sé, e riesce a trovare anche nella Shoah queste luci di umanità che le hanno consentito di resistere anche nella parte più angosciosa e terribile della sua vita.
Eccoci così di nuovo alla Shoah. Mi sembra che nel suo documentario sia narrata in maniera particolare. Io come spettatore ho avuto la sensazione di essere accompagnato fino al margine del burrone, del baratro, ma senza che mi fosse imposto di affacciarmi dentro di esso.
La scelta di raccontare la Shoah per sottrazione, per così dire, è voluta. Nel film si mostra la casa che non c’è più, il pane perduto della mamma, la bambola abbandonata durante l’arresto. Sono racconti da un lato molto precisi, dall’altro che non esagerano i toni. Nella mia professione ho imparato quanto sia importante rimanere legata ai fatti. Ma credo che per descrivere certi passaggi sia sufficiente una fotografia, una musica o un colore. Nel documentario, secondo me, un racconto molto forte per dire di Auschwitz è quello in cui una ragazzina prigioniera ha un pezzetto di carta rossa per avvolgere i fiori e lo scambia con il pane, perché sfregandosela sulle guance si appariva meno “risucchiate” durante le selezioni di Mengele. Marco Risi, in una scena che per ragioni di spazio non ho potuto montare nel film, racconta di quando portò a Edith dei fiori avvolti in quella carta, e di come le suscitarono angoscia anziché gioia. Poi la descrizione del lager, in Edith, come le dicevo, passa sempre per le 5 luci che a me sembrano altrettante scene di un film, quasi dei quadri: il militare che le dice “vai a destra” dove avrà una possibilità di sopravvivere; il tedesco che, benché aggredito dalla sorella di Edith, sceglie di lasciarle in vita; la marmellata che un tedesco le lascia sul fondo di una gavetta da lavare; il guanto bucato che un altro soldato le getta e, infine, il cuoco di Dachau che le chiede “come ti chiami”, rendendola umana, esistente, viva, e le regala un pettinino, che emerge anche nell’incontro con Papa Francesco, che mima con lei quella scena dicendo che avrebbe voluto essere lui quel cuoco. Insomma, non c’è sempre bisogno di entrare dentro Auschwitz in modo diretto, anche perché, come ho detto, nei racconti di Edith il lager c’è sempre.
È stata dura per Edith raccontare quel passato?
Ogni volta è dura per lei. Poi, come sappiamo, è una persona molto disponibile e generosa. Nel film emergono i suoi respiri, e i suoi silenzi. Credo che sia la parte più intima di lei, la parte in cui si riesce ad avvicinarci alla sua anima, la parte che lo spettatore si tiene dentro anche dopo aver visto il film.
Questo ruolo dei testimoni mi ricorda un recente articolo di David Bidussa, che in breve evidenzia come dopo che per anni gli storici si sono interessati alla ricostruzione della dimensione pubblica della Shoah – come la macchina burocratica e organizzativa della morte, la realizzazione della Shoah, i numeri della tragedia – in questa fase si presta molto attenzione alla testimonianza dei singoli sopravvissuti. Secondo lei questa è la chiave che ci permetterà di non dimenticare la Shoah anche dopo che non avremo più testimoni?
Sì, anche se l’attenzione c’è sempre stata, ma credo che anche questo ci aiuterà. Me lo aveva insegnato lo storico Giovanni De Luna trent’anni fa: la “memoria quotidiana” lascia una traccia nella vita delle persone, per esempio negli abiti che si indossano in un momento particolare, e racconta la storia. Quindi anche il ricordo dei singoli particolari ci permetterà di mantenere viva la memoria. Io credo che sia fondamentale unire la storia pubblica al ricordo trasmessoci dai singoli testimoni, il ricordo della loro memoria personale. Il dono più prezioso che i testimoni ci fanno è quello di raccontarci la loro esperienza e di concederci, per così dire, una vista sulle proprie ferite. Bisognerà, in qualche modo, imparare a raccontare la storia anche in un modo diverso, ed Edith fa proprio questo, muovendosi in un tempo che non è mai statico, che unisce perciò passato e presente anche nel dolore. Mi sembra che sia un’esperienza profondamente innovativa, soprattutto nel tempo di oggi in cui siamo abituati a vivere in un mondo che vuole apparire sempre perfetto e forte. Invece i testimoni come Edith ci insegnano che dobbiamo conservare la memoria delle emozioni senza vergognarci delle nostre fragilità che poi, come sappiamo, si rimarginano anche parlandone. Ho imparato da Edith che la memoria non ha confini: ci siamo noi e la nostra storia con chi è riuscito a sopravvivere all’orrore unico della Shoah e a continuare a vivere.
A me ha colpito questo profondo senso di umanità nei confronti dei carnefici, come ad esempio i 5 militari ungheresi che, terminata la guerra, Edith e sua sorella decidono di aiutare a tornare a casa.
Questa umanità è una caratteristica di gran parte dei sopravvissuti, come sottolineava anche Elie Wiesel e lo ribadisce sempre anche Liliana Segre. Non penso sia facile. Edith spiega che dividere il cibo con i propri nemici era stata una decisione sofferta e dura, ma significava (ri)cominciare senza odio e violenza, e con la pace. Un messaggio fondamentale oggi. Anni fa ho collaborato anche con la Shoah Foundation di Steven Spielberg e ricordo la testimonianza di Luciana Nissim che arrivò ad Auschwitz insieme a Primo Levi, e che alla fine dice: io sono uscita da Auschwitz, ma c’è chi non è mai uscito. Io penso che anche Edith sia uscita dal lager. L’umanità di Edith emerge anche nell’incontro con il Papa, quando lui le domanda se può perdonare e lei risponde che gli ebrei non possono perdonare i torti subiti da altri, però aggiunge di provare pietà e di non avere odio.
Un’altra cosa che mi colpisce nel documentario è quando Edith racconta di un uomo morente che le chiede di raccontare, una volta uscita da Auschwitz, anche per chi non ce l’avrà fatta. A me sembra che questo sia un impegno etico molto importante: ricordare la propria esperienza per ricordare anche chi non ce l’ha fatta.
È un impegno categorico per Edith. Il tempo, come dicevo, è sempre collegato in lei: il passato si unisce al presente e si proietta nel futuro. Un suo grande merito è di aver sempre raccontato, anche quando si faceva fatica a ascoltare. Così Edith ricorda le persone che erano insieme a lei e non ce l’hanno fatta. Io credo che questo impegno dia senso alla fine anche a sé stessi, al fatto che si è sopravvissuti. Come dice Edith, la sua sopravvivenza ha avuto un senso anche per essere riuscita a convincere “anche solo dieci o venti studenti” che quello è stato, che non deve accadere mai più, e che bisogna combattere l’antisemitismo e il razzismo di oggi e di domani.
Qual è il ricordo suo personale che porterà dietro dopo questa esperienza?
Quello di una donna preziosa per il Mondo, che mi ha insegnato un grandissimo rispetto per la vita. E per tutti gli esseri viventi. È fondamentale il ruolo che i testimoni hanno svolto in tutti questi anni. Edith si mette a disposizione di chi la ascolta (o la legge) anche con umiltà e attenzione per l’altro, e continua a raccontare perché spera che, ricordando le sue parole e i suoi scritti, ci saranno in futuro persone che sceglieranno il bene. E dopo averla ascoltata, secondo me, è inevitabile farlo. Perché aiuta a scegliere da che parte stare. Per sempre.
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Vedi qui il film-documentario “Edith”
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Grazie.