La comunicazione interna deve tener conto degli equilibri e delle sensibilità politiche, specie in tempi di opinioni polarizzate, radicalizzate, tra destra e sinistra. Il tentativo è sempre quello di non enfatizzare i toni, tenere la barra al centro e non gonfiare o spettacolarizzare il dibattito interno. Cerchiamo di perseguire con fermezza e puntiglio un’informazione super partes, equidistante. Certo è un equilibrio difficile e precario ma anche le critiche a volte, se pacate e ragionate, aiutano a migliorare.
Come si fa a mantenere l’equilibrio personale, quello di sé, sempre a rischio di essere criticati da una parte e dall’altra?
Non sempre è facile. Tutti cercano di “tirarti per la giacchetta”. Ci vuole professionalità e un po’ di distacco, anche se il mestiere del giornalista ti immerge a tal punto nel vivo dell’attualità che staccare è difficilissimo. Insomma, coltivare un po’ di distanza, l’altalena tra vicinanza e lontananza: una ricetta banale che vale per tutto, dal lavoro alla coppia, alla vita di relazione. E poi, l’importante è mantenere sempre aperte le porte sul mondo professionale esterno, incontrando e frequentando altri mondi giornalistici, altri colleghi e testate, allargando i propri orizzonti e accettando nuovi stimoli. Insomma, non farsi fagocitare così da preservare uno sguardo equilibrato sulle cose.
Qual è il senso di fare giornalismo ebraico?
Il senso è quello di restituire compattezza e stimoli, coesione e senso di appartenenza a una Comunità dai molti colori e dalle innumerevoli sfaccettature. Salvaguardare uno spirito di servizio creando un legame forte tra tutti; al di là delle coloriture politiche, al di là delle faziosità ideologiche, offrire uno spazio ai tanti modi di vivere la condizione ebraica in questi decenni di incredibili trasformazioni, senza mai avere paura di affrontare temi scottanti e a volte scomodi, dai matrimoni misti ai ghiurim, dall’assimilazione all’educazione ebraica… E intercettare così le nuove istanze che questa sfidante contemporaneità continua a porre al mondo ebraico. Insomma, una finestra sull’interiorità collettiva del nostro mondo ebraico ma anche il teatro della rappresentazione che vogliamo dare di noi stessi, questo è un media ebraico. È, in parole povere, una formidabile chiave di lettura, una specie di sismografo che registra ogni più vibratile scossa tellurica del nostro modo di vivere nella società civile, in quanto ebrei. È il diario di viaggio di una modernità ebraica e della sua, non sempre lineare, avventura. Una voce di minoranza per illuminare l’universo maggioritario dentro cui ci muoviamo.
Nell’ebraismo italiano c’è un problema di genere?
Non che io sappia, non in modo apparente. Tuttavia, da sempre, il mondo ebraico italiano è il riflesso di quello più vasto, italiano; l’Italia patisce ancora un forte maschilismo, in politica, sul lavoro, nella gestione della leadership, in fatto di politica retributiva. Il problema di genere è testimoniato ogni giorno dalle cronache dei giornali. Ciononostante, a mio avviso, il mondo ebraico italiano è più avanti rispetto al resto del Paese e lo dimostrano anche gli ultimi risultati elettorali.
Perché?
Perché siamo troppo pochi e pertanto la qualità delle persone è più preziosa, è necessaria, direi vitale. Per questo, forse, che tu sia maschio o femmina conta relativamente. Ci sono troppi fronti su cui combattere: ci vuole impegno, dedizione, testardaggine, prontezza, per dialogare con le istituzioni, per combattere il pregiudizio, la disinformazione, l’antisemitismo, il terrorismo… Per questo è importante avere persone di qualità, “combattenti valorosi”. Da qui una maggior attenzione alla cultura, alla capacità di leadership, alla “capacità di stare al mondo”, senza che si facciano troppe differenze tra uomo e donna.
Che ti sembra, oggi, dell’ebraismo italiano?
Premesso che l’ultimo voto ha mostrato che molti elettori hanno differenziato consapevolmente la scelta tra Ucei e voto comunitario, io direi che abbiamo davanti alcune sfide precise.
Quali?
Innanzitutto l’antisemitismo che risorge, molto diverso da quello vissuto dai nostri genitori. È un antisemitismo da rifiuto del senso di colpa, un antisemitismo secondario, subdolo, mascherato da politicamente corretto, condito da un atteggiamento stizzoso contro un presunto monopolio della sofferenza scaturito dalla memoria della Shoah. E poi il Negazionismo, il relativismo storico che toglie la peculiarità ebraica alla Shoah, tutte forme striscianti di antisemitismo. C’è inoltre un secondo tema: come far sopravvivere l’ebraismo italiano in calo demografico così netto? Qual è l’equilibrio tra apertura al mondo e identità, tra la modernità, con le sue spinte dirompenti, e il vivo vissuto del proprio ebraismo? Un tema antico ma sempre attualissimo, con spallate centrifughe e centripete spesso di eguale forza e valenza, che si contendono il campo, e che rischiano di fratturare il tessuto ebraico italiano. E poi ci sono i giovani. Il problema dei giovani che si perdono è spesso doloroso, per molti un flagello, e pone un quesito difficile: ovvero quanto la generazione dei boomers (quella nata intorno agli anni Sessanta) sia stata in grado di trasmettere l’identità ebraica e aiutare così le nuove generazioni nella costruzione di un Sé ebraico capace di declinare le spinte interiori e di appartenenza con il bisogno di agire e affermarsi nel vasto mondo. Dobbiamo allora riflettere su noi stessi.
Che ebraismo stiamo consegnando ai nostri giovani? Qual è il lascito ebraico della generazione dei boomers? La nostra identità di ebrei si fonda su una molteplicità di fattori: su una spinta identitaria e spirituale millenaria, sulla tradizione dei nostri costumi, sulla conoscenza e sulla pratica religiosa, sul tessuto della storia famigliare e di quella ebraica in generale. Qual è allora il giusto equilibrio tra questi elementi? Io credo che dovremmo essere capaci di parlare al cuore dei nostri figli, trasmettergli emozioni e nozioni, ragione e sentimento ebraico, regole e sottigliezza, un retaggio fatto di tanti elementi diversi. Un po’ come le madeleinette di Proust. Ma anche, a livello istituzionale, occorre fornire supporti, occasioni di incontro, di svago, di divertimento, di sport, mobilitando il massimo di energie e risorse su questo.
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Una risposta
Complimenti per una storia familiare e personale così importante, avventurosa e di successo …
Buon lavoro alla dottoressa Fiona Diwan ….!!!