Piazza di Karen di Porto

Piazza: quando un film è necessario

Una settimana fa la proiezione a Roma del documentario di Karen Di Porto. Oggi ce ne parla un regista internazionale

La regista Karen Di Porto
Karen Di Porto

Da poco è stato presentato al Salina Doc Fest, dove gli è stata assegnata una menzione speciale, e all’arena del Nuovo Sacher, Piazza, il documentario di Karen Di Porto. Ho avuto la fortuna di vedere alcuni materiali del film mentre veniva costruito e da subito, come poche volte accade, ho avuto la sensazione che Piazza fosse un film necessario.

Lo sguardo di Karen infatti mi sembrava così prossimo ai protagonisti del film e così privilegiato da permettere quella confidenza e apertura che rende un documentario unico e vibrante. La stessa cosa è accaduta con Ennio di Giuseppe Tornatore, che grazie alla vicinanza del regista con Ennio Morricone ha permesso al film di diventare una sorta di dialogo amoroso tra Morricone e il suo pubblico.

Qui a proteggere il film dall’alto c’è una figura unica, Roberto Di Porto, conosciuto come “Pucci”, padre di Karen, a cui il documentario è dedicato. “Proteggere” in questo caso non è una parola casuale, perché Roberto Di Porto proprio a questo si è dedicato per una vita, ad abbracciare la piazza del quartiere ebraico di Roma, offrendo insieme ai suoi compagni una calorosa e generosa protezione. Qualcosa di più di organizzare un servizio di sicurezza che tenesse lontano le incessanti provocazioni, un vero e proprio percorso identitario che ha messo in moto qualcosa, ha fornito uno specchio in cui riflettersi, in cui riconoscersi come ebrei, senza più la necessità di nascondersi.

Il Tempio maggiore è uno dei punti più sensibili della nostra comunità

Proprio da questo specchio Karen Di Porto prende le mosse, da questo orgoglio ebraico che traspare dalle preziose testimonianze raccolte. In una carrellata dinamica si inseguono le voci d “baffone”, “ficaccetto”, “cavallo”, “capinera”, “fettina”, “mino”, “palle secche” e molti altri, spesso contraddistinti da un soprannome quasi necessario in un quartiere dove i cognomi e i nomi si tramandano con poche variazioni.

Il soprannome diventa il vero tratto distintivo così come il giudaico romanesco diventa il dialetto in cui rifugiarsi, una lingua segreta grazie alla quale, come fosse un codice, si possono dire cose indicibile, se non pericolose, soprattutto quando il nemico è alle porte e ha mille occhi e orecchie. Senza che diventi il fulcro del film il racconto delle deportazioni e dell’occupazione nazista viene affidato a poche parole commosse, che non possono non restare nella mente: tra tutte quella di uno zio di Karen ancora sconvolto per aver ceduto all’egoismo e da bambino aver mangiato tutti i pasticcini di un ricevimento di soldati tedeschi, senza averne portato qualcuno ai fratelli costretti a nascondersi in casa. Quelle lacrime a distanza di settant’anni dicono tutto di anime grandi, di uomini e donne che non hanno esitato a sacrificare le proprie vite per quelle dei propri fratelli e sorelle. In questo il film tracima di amore, un amore non retorico, al contrario estremamente pratico, fatto di gesti risolutivi.

Piazza Roma
La “Piazza”

Qui sta tutta la forza dello sguardo interno di Karen, la retorica che spesso accompagna film e documentari sull’identità ebraica non c’è più, sostituita da un’appartenenza non aprioristica ma al contrario problematica. È la stessa regista a interrogarsi sulla figura di suo padre, sul suo attaccamento viscerale a Israele, sulle sue opinioni politiche, che da ragazza le sembravano dogmatiche. Grazie però allo straordinario contesto, a quella pluralità di voci che Karen ha raccolto anche quelle posizioni che le erano sembrate una sorta di gabbia, vengono messe in prospettiva e restituiscono in fondo un percorso necessario, comprensibile, col quale riconciliarsi pur mantenendo la propria visione. Tornare in piazza, questo è in fondo il movimento del film, tornare in un luogo identitario, per alcuni un sogno, il posto dove nascere e morire. Non il centro del ghetto, come toponomasticamente identificato dai non ebrei, quella parola “ghetto”, sottolineano giustamente molti intervistati, è un’imposizione, qualcosa dettato dall’esterno con un intento di segregazione.

Questo movimento è allora allo stesso tempo un tornare alle origini e un aprirsi al mondo, inseguendo un istinto di libertà, la libertà estrema che Pucci ritrova nei resistenti di Masada, pronti a morire piuttosto che vivere da schiavi sotto i romani. Libertà che rovescia gli schemi, quando inaspettatamente un manipolo di ebrei si presenta davanti alla sede del Movimento politico occidentale, formazione di estrema destra, in via Domodossola a Roma, rimarcando il diritto di presenziare, di mostrare la propria esistenza.

ancora la “piazza”, cuore storico dell’ebraismo romano

Era il 1992 e una forma aggressiva di neofascismo stava riprendendo pericolosamente piede, quel gesto è un argine concreto, la volontà di mettere un punto a provocazioni molto spesso impunite, e se nei modi può sembrare al di fuori del sistema democratico, come sottolinea Victor Magiar, finisce invece col ricordarci il debito che la nostra democrazia ha nei confronti della resistenza.

La piazza è dove tutto questo nasce, dove si rincorrono ricordi indelebili, sofferenze condivise e proiezioni di un futuro diverso, “la piazza è piazza” si sottolinea nell’incipit del film e come tutti i luoghi dell’anima è inesauribile, fisicamente tra i palazzi del quartiere ebraico ma allo stesso tempo nel cuore grande dei suoi abitanti, ovunque essi siano.

Leggi l’intervista a Karen Di Porto su “Piazza”

 

 

 

 

Una risposta

  1. Non ho potuto vedere, mio malgrado, il film La Piazza perché non ero fuori Roma!
    Spero e confido che ci sia un’altra opportunità in quanto, per i temi e testimonianze trattate, appartengono al mio tempo vissuto!! Complimenti a Karen.

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