Le ore più buie
Israele è sotto la violenza di Hamas. Il paese e la diaspora sono sotto shock. Un’unica certezza ci guida: il terrorismo sarà sconfitto
Ancora una volta, durante una festa. Come lo shabbat del 16 ottobre 1943. Come nel 1948, alla proclamazione dello Stato di Israele. Come nel 1973, nel giorno di Kippur. E come Sheminì Atzeret, a Roma nel 1982. Ancora una volta i nemici di Israele ci attaccano con odio, violenza, terrore. Come sempre, il dolore di Israele è il nostro dolore, la rabbia di Israele è la nostra rabbia. Nel momento in cui scriviamo queste righe il bilancio delle vite civili è il più drammatico dalla guerra del 1948: oltre 700 vittime – la maggior parte di loro sono ragazzi, tra cui molti americani e inglesi, che stavano facendo festa in un Sukkot party nel deserto –; oltre 2.000 feriti; un numero imprecisato di dispersi e di ostaggi. Da qui, nella Diaspora, come tutti abbiamo cercato notizie, cercato di capire cosa stesse accadendo, e come sia stato possibile che accadesse. Dal primo mattino del 7 ottobre Hamas ha attaccato Israele da terra, dall’aria e dal mare. Incredibilmente, non ha trovato la pronta reazione dell’esercito, né sembra che l’intelligence avesse percepito il pericolo imminente. Ancora adesso si cerca di neutralizzare le ultime cellule terroristiche che continuano a restare infiltrate nel paese, mentre Tzhal colpisce dall’alto la striscia di Gaza (oltre 400 i morti) e si prepara verosimilmente a entrare con le truppe di terra. Il governo israeliano ha dichiarato lo stato di guerra e sembra sempre più probabile la formazione di un gabinetto di unità nazionale.
Cosa succederà ora? Viviamo queste ore pregando per le vittime e gli ostaggi e per la sicurezza del paese. Mentre gli Usa annunciano aiuti militari a Gerusalemme, ci chiediamo perché c’è ancora chi (in Europa sono Irlanda, Danimarca e Lussemburgo) ancora si rifiuta di considerare Hamas un’organizzazione terroristica. Dietro Hamas c’è l’Iran, che si dimostra oggi uno degli attori di maggiore destabilizzazione al mondo: in casa opprime, tortura e uccide gli oppositori degli ayatollah, in Europa finanzia la Russia con i droni che uccidono civili ucraini, in medio oriente sabota gli accordi tra Israele e Arabia Saudita e arma Hamas, sperando di allontanare la possibilità che Israele stabilisca relazioni diplomatiche con i paesi arabi.
Ma questa è una guerra che interessa da vicino anche l’Italia. Mentre registriamo la solidarietà di tutte le forze politiche e sindacali, il ministero degli Esteri informa che sono 18.000 gli italiani che si trovano in Israele, moltissimi dei quali con doppia cittadinanza. Di questi, circa 1.000 sono ragazzi e ragazze che vestono la divisa dell’esercito israeliano e in queste ore difendono il paese. È anche a loro che vanno i nostri pensieri.
Israele combatte così di nuovo contro l’odio e la violenza. Non sappiamo cosa accadrà ora. In questi articoli che vi proponiamo, Riflessi pubblica le prime testimonianze che arrivano dal paese. La guerra forse sarà lunga, come ha annunciato il premier Netanyahu. Dopo, ci sarà tempo per analizzare le cause che spieghino come sia stato possibile assistere a quel che è avvenuto; la divisione che ha spaccato il paese nell’ultimo anno certo non è stato un buon segnale per i nostri nemici.
Adesso, però, dobbiamo unirci. A guidarci è una certezza: Am Israel Hai.
Ora, e sempre.
Riflessi ha chiesto ad alcuni italiani che vivono in Israele di raccontare la loro esperienza del giorno più lungo e più triste della storia dello stato ebraico. Ecco le testimonianze di sette ragazzi
Ieri 7 ottobre alle 7:30 circa, mi sono svegliata con la prima sirena a Tel Aviv. Inizialmente sembrava una delle tante volte in cui ci mandano i missili ma in pochi minuti la situazione è cambiata. Parlando con i miei amici ho realizzato che la situazione è molto più grave di quello che pensavo. Non sentendomi al sicuro nello stare da sola, sono andata dai miei vicini. Una delle mie vicine era alla festa al sud d’Israele e si è salvata per miracolo, scappando 10 minuti prima dell’arrivo dei terroristi. Nonostante ciò per strada ha incontrato feriti da arma da fuoco.
Molti conoscenti, amici di amici ancora adesso, più di 24 ore dopo sono dispersi. Hanno continuato a lanciare missili tutto il giorno. Io e i miei amici abbiamo passato la giornata a vedere il telegiornale, scappare nel bunker e a cercare di avere notizie. Un mio amico vive ad Ofakim una delle città in cui mi terroristi di Hamas hanno preso il controllo, mi diceva che a 5 min a piedi da casa sua ci stavano degli ostaggi, si sentivano spari e urla da tutte la parti e non poteva sapere se fosse la Zava o i terroristi. Dalla paura siamo rimaste sveglie il più possibile per provare ad essere attive in caso di missili. La televisione tutta la notte accesa, le strade sono deserte quindi ogni singolo rumore fuori dalla foniatra ci alzavamo a vedere cosa succedesse. Sono momenti di tensione in cui nessuno ha informazioni, ci sta anche molta frustrazione nel non sapere come stanno i tuoi amici, nel sapere che il numero di morti aumenta ma non sapere i nomi che rappresentano quel numero. Ci sta delusione nello stato per non aver previsto tutto ciò e ovviamente molta paura.
Ciò che ha lasciato più sconvolti, e continua a preoccupare, è la quantità di civili che Hamas è riuscita a portare a Gaza. È la prima volta nella storia di Israele che un gruppo di terroristi (e non un esercito regolare come l’Egitto nel ’73) riesce ad entrare nei confini in maniera così organizzata e ad uscire indisturbato portandosi dietro ostaggi. È inspiegabile come non solo l’esercito non sia stato in grado di prevenire l’invasione, ma anche come abbia impiegato ore prima di riuscire a riprendere il controllo di una città intera come Sderot. Noi a Tel Aviv viviamo in una bolla, siamo rimasti a casa e la giornata è passata relativamente tranquilla, se non fosse stato per tutte le notizie che continuavamo a leggere e sentire.
Durante la giornata ci siamo visti tutti gli amici insieme a casa e abbiamo passato il sabato guardando il TG e aspettando la prossima sirena.
Nonostante al centro del paese siamo stati fortunati, essendo lontano dalla zona dei combattimenti, abbiamo passato la giornata guardando il telegiornale, con il cuore in gola e pregando per i nostri connazionali.
Ho versato tante lacrime inutili e una notte insonne pensando a chi è stato portato vivo a Gaza come ostaggio e non ha passato la notte nel proprio letto come me. Un pensiero va a loro e alle loro famiglie, sperando che si possano riabbracciare presto. Sembra un incubo e ha lasciato tutti molto scossi…
Imprigionata visto che non c’era nessun volo per partire e mettere mia figlia al sicuro…
Pubblichiamo anche il resoconto di Ugo Pacifici Noja, che vive a Gerusalemme
Sabato mattina. A Gerusalemme manca poco alle sette del mattino. A svegliarmi non sono come al solito le grida festose dei bambini che stanno andando al Tempio con i nonni e con i genitori. E’ il sibilo acutissimo e penetrante delle sirene. Mentre mi scuoto dal sonno, cerco, uscendo dal dormiveglia, di rifare tra me e me il punto.
Oggi non è Yom ha Zikaron, il giorno dedicato alla memoria di chi è morto in Kiddush Ha Shem, mi dico, allora siamo sotto attacco.
Il telefono è spento come si conviene per Shabbat. Rifletto. Mio papà ha ottantaquattro anni.
Comunicare che non ci sono problemi diventa a questo punto un imperativo categorico. Decido che mi trovo sicuramente in uno dei casi di pikuach nefesh. Accendo l’apparecchio.
Il telefono squilla dopo pochi istanti.
All’altro capo il mio amico Andrea Pettìni. Funzionario della Farnesina, sta seguendo in diretta gli sviluppi della situazione. Nella notte i terroristi di Hamas si sono infiltrati penetrando in territorio israeliano a Sderot. Al Ministero, dove si trova malgrado il week-end, seguono con apprensione e, cosa particolare, per dei funzionari avvolti dallo stile paludato della diplomazia, con partecipazione.
Amici che mi sanno a Gerusalemme, mi chiamano un po’ da tutte le parti del mondo. Altri come
Agostino Pendola, mio amico da molti lustri e repubblicano storico, preferiscono la messaggeria istantanea. E affidare a whatsapp, il comunicato ufficiale della Mazziniana con cui in maniera diretta “senza se e senza ma” si proclama il sostegno totale e assoluto allo Stato d’Israele, “unico stato di diritto della regione”.
Rispondo con la stessa stringatezza: grazie. Sono le parche comunicazioni tra due “liguri” (io lo sono solo di adozione, ma tant’è). Un po’ come i “sabra” ruvidi fuori e dolcissimi dentro.
E’ il modo della Liguria di dire “noi ci siamo”. A cascata sono tante le manifestazioni di affetto e di solidarietà. Impossibile ricordarle tutte.
Non posso rispondere alle domande che mi sono pur legittimamente poste da chi vorrebbe sapere come sia stato possibile che i terroristi di Hamas abbiano potuto varcare i confini nazionali. Non posso ma quasi certamente non risponderei neppure se avessi adeguate conoscenze a riguardo.
Come mi è stato insegnato, molti anni orsono, durante il corso per allievi ufficiali in Italia, considero che in un momento di emergenza nazionale anche la più piccola informazione può essere utilizzata dal nemico e compromettere la sicurezza nazionale. Posso, invece, e mi sento di parlare della compostezza di tutti gli israeliani soprattutto di quelli che hanno avuto perdite gravissime di vite umane. Posso parlare della tranquillità con cui gli abitanti di Gerusalemme sono oggi tutti al proprio posto seppure nel rispetto delle regole stabilite dal sistema di protezione civile per tutelare tutta la popolazione di Gerusalemme. Posso parlare di una città che vive l’emergenza in maniera tranquilla e serena. E dove, compatibilmente con la drammaticità del momento, si vive in maniera “normale”.
In maniera efficiente ha funzionato il sistema di comunicazione rivolto a fornire con messaggeria istantanea informazioni utili ai residenti per il caso di attacchi.
L’attentato dei terroristi di Hamas (non è corretto parlare di “attacco” perché significherebbe riconoscere, seppure indirettamente, uno status militare a dei terroristi) ha avuto come prima conseguenza, e più ancora del dolore e della rabbia suscitati nei parenti ed amici delle vittime, di far sospendere tutte le dispute interne. Nella immediata successione degli avvenimenti, infatti, il leader di Yesh Atid, Yair Lapid, ha subito telefonato al premier in carica, Benjamin Netaniahu, per mettersi a disposizione per la creazione di un “governo di emergenza” la cui creazione è non solo possibile ma certamente auspicabile per far fronte alla situazione presente.
L’attentato di Hamas è stato, come ha detto il presidente Mattarella parlando con il suo omologo israeliano Isaac Herzog, “proditorio”. E non c’è termine più adatto per designare la viltà di chi attenta alla vita di persone in preghiera e in un momento di festa. Le immagini trasmesse dalla televisione non lasciano spazio a dubbi. Bambini, anziani, disabili sono stati vittime di un’espressione di crudeltà che lascia attoniti. Le reti sociali si riempiono come è d’uso in questi casi di commenti di odio. Non si tratta di lasciare a ciascuno il diritto alla propria opinione. Si tratta di sorvegliare e punire (e questo è compito che deve essere lasciato alle forze di polizia specializzate e alla magistratura) su chi integra, con la violenza scritta, reati terribili come l’istigazione all’odio e l’apologia di fascismo e nazismo.
Commenti di sostegno a terroristi, insomma. Diversi per sigle, ma uguali per stile.
Oggi come il 9 ottobre 1982, nell’attentato alla sinagoga di Roma, quando terroristi lanciarono granate e usarono armi da guerra su persone inermi, su bambini, su anziani, che uscivano da un luogo di culto dove si erano raccolti in preghiera.
Anche l’attentato di Hamas di sabato scorso è stato fatto in occasione di una festa.
Una festa che ha coinciso con l’anniversario della guerra del Kippur che colpì Israele, in maniera vile, nel giorno più sacro per il calendario ebraico.
Superato il primo momento di sdegno e di collera, Israele ha rapidamente reagito richiamando i riservisti subito operativi e assegnati ciascuno al proprio reparto.
Offrendo, anche in questo ambito, un’immagine composta e serena e lontana da quella rassegnazione in cui i terroristi avrebbero voluto che lo Stato di Israele sprofondasse.
Dimostrando, casomai ce ne fosse bisogno, che Am Israel Chai, il popolo di Israele vive.