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Nell’intolleranza deperiscono le nostre democrazie

L’attacco di Hamas a Israele e la guerra che ne è seguita interroga anche noi: come legge il conflitto l’opinione pubblica occidentale? Ne parliamo con Federico Rampini

Dottor Rampini, cosa ci sta mostrando l’attacco di Hamas? La regione è destinata a non trovare mai pace?

Federico Rampini, scrittore e giornalista, oggi è editorialista de “Il Corriere della sera”

Un ingrediente che ha reso possibile questo conflitto è simile al 1973 (guerra dello Yom Kippur): un senso di superiorità eccessivo da parte di Israele, che aveva generato un’illusione di sicurezza e aveva indotto ad abbassare la guardia contro i pericoli. Un’altra spiegazione può collegarsi alla lacerazione profonda della società israeliana che ha dato ad Hamas l’idea di una finestra di opportunità. Infine l’attacco di Hamas va visto nel quadro della rivoluzione geopolitica del Medio Oriente: fino a poche settimane fa si dava per imminente una storica riconciliazione tra Arabia saudita e Israele; la guerra è un tentativo di sabotare quel disgelo da parte di Hamas e del suo protettore, l’Iran.

È possibile reagire con una forza militare per combattere il terrorismo? In Afghanistan e in Iraq le cose non sono andate come si sperava. Come può Israele assicurarsi la sconfitta definitiva di Hamas ed evitare il più possibile di colpire i civili?

La forza militare è necessaria contro il terrorismo, ma può essere maneggiata con effetti controproducenti. Uno dei messaggi di Joe Biden nella sua visita in Israele è stato proprio questo: noi americani nel reagire agli attacchi dell’11 settembre 2001 commettemmo degli errori, soprattutto con l’invasione dell’Iraq. Non entro nei dettagli operativi su come le forze armate israeliane possano decapitare Hamas evitando stragi di civili, perché non sono un esperto militare e anche i veri esperti ammettono che la situazione sul terreno a Gaza è maledettamente complicata. Sappiamo che Hamas usa i civili come scudi umani, e inneggia al martirio, per usare queste vittime nella sua propaganda. La sfida che ha di fronte Israele è proprio questa: sferrare un colpo decisivo contro Hamas riducendo al minimo le vittime collaterali nella popolazione civile.

Joe Biden e Benyamin Netanyahu, la scorsa settimana a Gerusalemme

Hamas ha mostrato un salto nella violenza e nel terrore mai raggiunto prima. In Cisgiordania Abu Mazen è un leader anziano e di fatto delegittimato. Chi può essere l’interlocutore palestinese di Israele?

Né l’uno né l’altro, temo. In America si discute sulla possibilità di affidare Gaza a una sorta di protettorato Onu, che però di fatto andrebbe gestito da una coalizione di paesi della Lega araba tra cui Egitto, Arabia saudita, Emirati, Qatar. Attori come questi avrebbero l’autorevolezza politica e la forza economica per farsi ascoltare dai palestinesi, e in prospettiva costruire una loro autorità politica che non sia né jihadista come Hamas né inefficiente e corrotta come l’Autorità della Cisgiordania. Resta da vedere se quei paesi arabi abbiano voglia di assumersi simili responsabilità.

Il segretario generale dell’Onu ha dichiarato ieri che l’attacco di Hamas, che condanna, tuttavia ha origine nei 56 anni dell’occupazione israeliana delle terre palestinesi.  Vuole commentare tale dichiarazione?

Antonio Guterres, portoghese, segretario generale ONU

E’ una dichiarazione storicamente inesatta. Per quanto riguarda Gaza parlerei di 15 anni di occupazione di Hamas. Comunque le parole di Guterres sono il risultato di un equilibrismo politico: all’Assemblea delle Nazioni Unite da anni esiste una maggioranza filo-palestinese di cui il segretario generale deve tenere conto. Guterres sembra influenzato anche dagli appelli alla moderazione che l’Amministrazione Biden rivolge al governo Netanyahu.

Dietro Hamas c’è l’Iran, che ha relazioni con Russia e Cina. Come giudica l’atteggiamento di Putin e Xi in questa crisi?

Poche settimane fa oltre 150 paesi si sono ritrovati a Pechino per il III Forum della via della seta; di questi, 44 erano paesi africani

Sia Putin che Xi non hanno esitato a sacrificare i buoni rapporti che avevano con Israele, per schierarsi decisamente con l’aggressore. Non c’è stata una condanna né russa né cinese di Hamas per la strage di civili israeliani, bambini inclusi. Per Russia e Cina i vantaggi da una nuova guerra in Medio Oriente sono evidenti: si apre un secondo fronte che obbliga l’America a venire in aiuto a un secondo alleato aggredito. Dopo l’Ucraina, ora Biden deve ripartire delle risorse scarse indirizzandone una parte verso Israele. Risorse scarse in due sensi: anzitutto perché gli arsenali americani già soffrivano di penuria, per esempio nelle munizioni richieste dalle forze ucraine. Secondo, le risorse militari americane sono soggette a una scarsità di tipo politico: sull’appoggio all’Ucraina c’erano vistose defezioni in campo repubblicano, sul sostegno a Israele Biden deve fare i conti con la sinistra democratica filo-palestinese. In conclusione, il duo Iran-Hamas ha fatto un regalo a Putin aprendo un fronte che distrae l’America dall’Ucraina; un regalo pure a Xi Jinping perché quest’America ha meno attenzione e risorse da destinare all’Estremo Oriente.

L’ultimo libro di Rampini, “La speranza africana” (Mondadori)

Nel suo ultimo libro, “La speranza africana”, lei si interessa di Africa, un continente-mondo eterogeneo composto da tante realtà diverse. Può aiutarci a comprendere come gli stati africani si posizionano rispetto al conflitto israelo-palestinese?

Il summit di Pechino dedicato al decennale delle “Nuove Vie della Seta”, per coincidenza si celebrava proprio negli stessi giorni della tragedia in Medio Oriente. Quel vertice ha avuto molti significati. È stato disertato per la prima volta dagli europei, con la solitaria eccezione dell’ungherese Orban, a conferma che il clima della nuova guerra fredda impone scelte di campo chiare. È stato un summit dove si è parlato poco di economia, investimenti, infrastrutture, anche perché su quel terreno il bilancio dei mille miliardi investiti o più spesso prestati dalla Cina è meno esaltante di quel che si vorrebbe. Si è parlato molto più di politica estera, sempre con i toni di un processo all’Occidente, alla sua nazione leader che sono gli Stati Uniti, all’ordine globale ancora troppo americano-centrico che la Repubblica Popolare si propone di smantellare e sostituire. L’adunata del Grande Sud globale a Pechino è stata una sorta di “conta” dei governi che condividono l’ostilità all’Occidente, alla sua storia, ai suoi valori.

Questa posizione neutrale dei paesi emergenti è una novità?

Manifestazione pro palestinesi a Parigi

Durante la prima guerra fredda in una conferenza internazionale del 1955 a Bandung (Indonesia) fu tenuto a battesimo il movimento dei non allineati detto anche “Terzo mondo” perché ufficialmente non voleva schierarsi né con il primo (l’Occidente) né col secondo (il blocco comunista comandato dall’Unione sovietica). Nella realtà però i leader più influenti di quel Terzo Mondo erano come l’indiano Nehru: guardavano con più simpatia il socialismo sovietico. Il vertice di Pechino del 2023 potrebbe essere ricordato come un evento simile: con tanti leader africani, sudamericani, che professano il non allineamento ma abbondano nella propaganda antioccidentale.

In molte università americane gli studenti si sono schierati dalla parte della Palestina e lo stesso sta avvenendo in alcuni atenei italiani. Come giudica questa posizione in luoghi che dovrebbero formare le classi dirigenti di domani?

Anche negli USA si sono registrate molte manifestazioni antisraeliane

È vero che a Harvard, Columbia, Berkeley, si forma la nuova classe dirigente della più grande potenza d’Occidente. È altrettanto vero che questa generazione viene allevata da anni nella radicale ostilità verso l’Occidente. Anche a costo di sorvolare sulle proprie contraddizioni: per esempio, quegli stessi giovani americani che giustificano la violenza di Hamas dovrebbero essere orripilati dal sessismo e dall’omofobia degli islamisti. Siamo abituati a pensare che educare le nuove generazioni al dissenso, alla critica anche spietata verso noi stessi, sia una nostra forza. La libertà di espressione è uno dei beni più preziosi che associamo alle liberaldemocrazie occidentali: essa include il diritto di esecrare l’Occidente. Contro Israele si scatenano di sicuro le pulsioni profonde dell’antisemitismo, ma inoltre non gli si perdona di essere «uno dei nostri», da questa parte della barricata nelle grandi divisioni geopolitiche fin dal 1947. L’anno di nascita dello Stato d’Israele coincise con l’inizio della Guerra fredda, quella che l’Occidente avrebbe dovuto perdere, stando alle preferenze e simpatie dei college.

Tuttavia, come dice lei, queste sono manifestazioni della libertà di pensiero, tratto costitutivo delle democrazie occidentali.

Milano, 21 ottobre 2023. Manifestazione pro Palestina

Da queste manifestazioni di auto-denigrazione e auto-flagellazione che vanno in scena ogni giorno nei nostri campus universitari — tutte cose impensabili a Mosca, Pechino, Teheran — potremmo concludere che l’Occidente è vivo e vegeto nella sua magnifica e caotica varietà. In principio è così. A condizione che questi giovani siano anche esposti ad un’altra versione. Già negli anni Sessanta le grandi università americane videro avanzare una «contro-cultura» molto radicale; allora però si confrontava con un forte pensiero conservatore dell’establishment, in una dialettica vivace. Oggi invece il conformismo delle più alte istituzioni formative americane sta diventando allarmante. Queste generazioni sono abituate a crescere dentro una cassa di risonanza monocorde, che assomiglia a un lavaggio del cervello. Il clima di intolleranza fa delle università un luogo dove la democrazia deperisce: le manca l’ossigeno. Poiché tra un anno questa America affronta elezioni di enorme rilevanza anche mondiale, nessun segnale di debolezza della sua democrazia va sottovalutato, da qualsiasi parte venga.

Elena Basile, ex diplomatica in pensione, tra i maggiori critici di Israele in questi giorni

Per chiudere, veniamo in Italia. Il conflitto ha subito catalizzato l’attenzione dei media italiani. Come spiega questo interesse che non trova riscontro per molte altre crisi internazionali?

Per la verità l’Ucraina aveva suscitato un’attenzione molto alta, almeno nelle fasi iniziali. Sono due guerre molto vicine, l’Italia si sente vulnerabile, ha interessi in gioco. Inoltre sono due guerre che fanno scattare logiche di schieramento a priori, scelte di campo dettate dall’ideologia.

A suo avviso i media italiani come stanno raccontando il conflitto?

Il New York Times ha pubblicato il 23 ottobre un editoriale con cui si scusa con Israele per avergli attribuito l’attacco all’ospedale battista di Gaza. Indagini di organismi terzi hanno accertato che non c’è alcuna evidenza né che l’attacco sia provenuto dall’esercito israeliano, né che il numero delle vittime sia pari a quello dichiarato da Hamas

Non peggio di quelli americani, direi con gli stessi limiti. Spesso l’ideologia prevale sull’analisi spassionata. Soprattutto in televisione, la superficialità è un problema serio: si sentono troppo pochi esperti veri (per esempio sulla storia del Medio Oriente), troppi tuttologi che oggi pontificano su Israele e Gaza come ieri lo facevano sul Covid o sul Festival di Sanremo. C’è stato qualche errore grave: per esempio sul bombardamento dell’ospedale attribuito a Israele, i media hanno preso per buona la prima versione di Hamas senza fare verifiche.

Infine, come giudica la posizione della politica italiana?

Paradossalmente la politica italiana almeno nelle prime fasi mi è sembrata più moderata rispetto a certi settori della società civile italiana.

Franco Giordano, ex terrorista, sfila tra i manifestanti pro Palestina e antisraeliani

Quel che mi preoccupa è vedere – come in America – una buona parte della gioventù italiana schierarsi con i criminali di Hamas scambiandoli per partigiani. Un terrorista italiano, condannato per l’assassinio del giornalista Walter Tobagi, ha arringato una manifestazione esaltando Hamas. Lui ha scontato la sua pena, è un uomo libero, in una democrazia come quella italiana ha il diritto di esprimersi (a differenza che nella Striscia di Gaza sotto Hamas, dove questa libertà non esiste): il problema non è lui, a me preoccupano i giovani che lo scambiano per un guru, forse senza neanche sapere che cosa furono i nostri anni di piombo.

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