La guerra ad Hamas ha bisogno della politica
Fabio Nicolucci spiega perché nella lotta al terrorismo Israele ha bisogno, oltre all’uso della forza, di una strategia politica che sappia affrontare il nodo della questione palestinese
Fabio Nicolucci, che cosa ci sta insegnando questa guerra nello scenario mediorientale?
La guerra fra Israele e Hamas è iniziata soprattutto a causa di una ragione nota.
Quale?
Si è frantumata definitivamente la narrativa con cui Benjamin Netanyahu in questi anni ha descritto la questione palestinese, ossia che essa non esisteva più, che Hamas non costituiva più un problema per Israele, e che ci fosse una terra a completa disposizione dello Stato ebraico. Tutto ciò ha contribuito a far scoppiare il conflitto, aggravato dal fatto che, in nome di quella retorica, il governo ha sguarnito il fronte sud, per convogliare truppe dalla parte opposta a tutela dei coloni della Cisgiordania, esponendo il paese all’attacco di Hamas. È un tragico fatto che, in alcuni casi, il 7 ottobre l’esercito israeliano ha impiegato oltre 8 ore per raggiungere i luoghi degli attacchi terroristici.
Dallo scoppio del conflitto sono trascorse tre settimane. Cosa ci ha mostrato finora questa guerra?
Netanyahu ha impostato la guerra allo scopo dichiarato di distruggere Hamas. Purtroppo si tratta di un obiettivo non realizzabile, perché Hamas gode di largo consenso non solo nel popolo palestinese, ma anche nell’opinione pubblica araba, senza contare degli assurdi sostenitori presenti anche in Occidente. Tale impossibilità, nonostante le dichiarazioni fatte da Netanyahu, rende di fatto confusi gli obiettivi della guerra che Israele vuole raggiungere. Tieni anche conto che Hamas ha dimostrato di agire non solo come soggetto terrorista, ma anche sul piano politico. Guarda come sta usando la propaganda anche in queste ultime ore.
A cosa ti riferisci?
L’eco dei bombardamenti a Jabaliya è certamente voluto. Tutti gli arabi, non solo i palestinesi, si ricordano infatti che proprio lì l’otto dicembre 1987 scoppiò la prima intifada.
Quali sono invece gli obiettivi che Hamas voleva prefiggersi con l’attacco del 7 ottobre?
È evidente che Hamas ha inteso rompere l’isolamento che rischiava di accerchiarlo e che punta all’estensione del conflitto contro Israele. Guarda alle iniziative di Hezbollah in Libano, o anche a quella degli Huthi in Yemen. Questo è il rischio maggiore al momento: che l’operazione di allargamento del conflitto voluta da Hamas riesca, e che né Israele né gli Stati Uniti riescano a limitare e circoscrivere il conflitto. D’altra parte, l’errore di Netanyahu è stato di far sentire Hamas con le spalle al muro, ed è noto che un nemico che si sente senza scampo reagisce in modo ancora più violento e imprevedibile.
L’opzione militare di Israele ha alternative?
Credo che l’obiettivo che deve realizzare Israele in questo momento, essenziale per la sua sicurezza, sia ristabilire la sua capacità di deterrenza, che i fatti del 7 ottobre hanno drammaticamente e tragicamente incrinato. Per ristabilire la deterrenza è inevitabile l’azione militare e che si registrino dei costi umani, non solo per Hamas, ma anche per la popolazione civile e per i soldati israeliani. A tal proposito, lasciami ricordare che in politica gli esempi contano, e che se in questo momento oltre 350.000 riservisti servono lo Stato di Israele, i due figli di Netanyahu si trovano molto lontano dal fronte, uno in Florida e l’altro a Londra. Tutti sanno che in questa guerra si conteranno molti morti, che però rischiano di crescere tanto più saranno irraggiungibili gli scopi militari di Israele.
Quindi l’azione militare deve cessare?
Niente affatto. L’azione militare di Israele non deve cessare, ma deve essere guidata da un obiettivo politico, che al momento non c’è. Ripeto: distruggere Hamas non appare fattibile. Il rischio che vedo è perciò che questa operazione militare andrà avanti con un alto numero di civili ma senza raggiungere alcun obiettivo politico e senza ristabilire il potere di deterrenza di Israele.
Qual è questo obiettivo politico che dunque Israele dovrebbe realizzare?
Sabato scorso abbiamo ricordato l’anniversario della morte di Yitzhak Rabin, ucciso da un estremista ebreo. Io credo che dovremmo recuperare la lezione di Rabin: fare la guerra al terrorismo come se non fosse possibile la pace e lavorare per raggiungere la pace come se non esistesse il terrorismo. Se potessi dare un suggerimento a Israele, direi di programmare un intervento di terra moderato e limitato, ma soprattutto prendere consapevolezza che non è più possibile procrastinare la questione della nascita di uno Stato palestinese.
Come sta reagendo il mondo arabo a questo conflitto? Gli accordi di Abramo sono già finiti?
Gli accordi di Abramo, da quando sotto la presidenza Trump furono firmati, si sono sviluppati su due livelli. Inizialmente, Trump e Netanyahu hanno perseguito l’obiettivo di dimostrare che non esistesse più una questione palestinese e che dunque si potessero siglare patti fra Israele e altri paesi arabi a prescindere dal problema di uno Stato palestinese. In questa fase Hamas non è intervenuta, in quanto ha considerato quegli accordi di tipo minore, e dunque poco rilevanti. Le cose sono cambiate quando si sono intensificati i colloqui tra Israele e Arabia Saudita, che, voglio ricordare, nel 2002 aveva presentato un progetto che prevedeva la nascita di uno Stato palestinese a fianco dello Stato ebraico, ma che Netanyahu aveva sempre ignorato. Ora, di fronte alla possibilità di una relazione diplomatica fra l’Arabia Saudita e Israele, Hamas ha visto un rischio e ed intervenuta nel modo tragico che abbiamo visto. A questo punto la questione degli accordi di Abramo non è più quella di riprendere il discorso dove si era interrotto il 7 ottobre, ma di inserire nell’agenda anche la questione palestinese. Netanyahu aveva rimosso il problema e, come insegna la psicoanalisi, un problema rimosso non fa che aumentare i danni.
La guerra sta avendo d’altra parte effetti anche in Occidente. Si segnalano sempre più frequenti gli episodi di antisemitismo in Italia, Germania, Francia, Austria.
L’antisemitismo nasce in Europa, come del resto la Shoah. Occorre però distinguere vari tipi di antisemitismo. Il primo, storicamente, è quello di matrice cristiana, e che ha origine in età molto risalente. A questo si è aggiunto in età moderna un nuovo tipo di antisemitismo, che altro non è se non una specie di razzismo, e che si nutre da una lettura razzistica della storia, quale quella conosciuta in Europa fra 800 e 900. Dovremmo poi distinguere fra l’antisemitismo di destra, che si alimenta di un negazionismo della memoria, e che si è mostrato in questi giorni con le pietre d’inciampo bruciate a Roma. È questo un antisemitismo contro cui la Germania ha molto lavorato, mentre molto meno si è fatto in Italia; tutto sommato però è ancora sotto controllo, fino a quando la Shoah sarà un tabù in Europa. Non possiamo poi dimenticare una quarta forma di antisemitismo, di matrice anticapitalista, radicale, che alligna soprattutto nell’estrema sinistra, e che vede in Israele lo stereotipo del carnefice, lo Stato ricco e potente, filoamericano. Questo antisemitismo si nutre di un antiamericanismo che nasce durante la guerra fredda. Ne abbiamo avuto una prova con i manifestanti a Roma che strappano la bandiera israeliana dalla sede della FAO, o che la bruciano, come sabato scorso. Infine c’è una forma spuria di antisemitismo, che io definisco “a soffietto”.
Cosa intendi?
L’antisemitismo a soffietto è quello che si gonfia e si sgonfia a seconda del momento. Esso non afferma, come nei casi precedenti, che Israele non ha diritto ad esistere, che è un errore della storia, né si dichiara favorevole ad Hamas. È invece un antisemitismo più insidioso, che nasce ancora una volta nell’opinione pubblica soprattutto di sinistra, anche se non solo a sinistra, e che si è manifestato in questi giorni specialmente dall’altra parte dell’oceano, nei campus americani. Questo antisemitismo, basato sull’ignoranza e l’indifferenza, che alza appena lo sguardo ogni tanto dai propri affari quotidiani, legge lo scontro come quello fra uno Stato con un forte esercito e un popolo privo di tutto. Si tratta di una lettura distorta, frutto della mancata conoscenza dei processi storici, ma che produce una evidente ostilità nei confronti di Israele e degli ebrei.
Come si combatte questo questa forma di antisemitismo?
Certamente non attraverso la narrazione che una certa destra israeliana, purtroppo che attecchisce anche in Italia, continua a raccontare.
E sarebbe?
C’è anche in Italia una lettura, sostenuta da figure note del mondo ebraico italiano e da ultimo esposte anche dall’ex ambasciatore Dror Eydar, secondo cui quando Israele è forte ha il diritto di reprimere il popolo palestinese senza giustificazione e quando invece si mostra debole allora chiede la solidarietà internazionale come se gli ebrei fossero ancora delle vittime. Ritengo che questa lettura faccia il male degli interessi dello Stato di Israele e degli ebrei e che occorre ribadire che non ogni critica al governo israeliano è di per sé una forma di antisemitismo. Israele è una piena democrazia che va difesa, ma anche criticata.
Sì, ma resta il problema: come combattere l’antisemitismo “a soffietto”?
Credo che la risposta migliore la stia dando la società israeliana. Negli ultimi 9 mesi, prima del 7 ottobre, abbiamo visto un’enorme movimento popolare che contestava il governo Netanyahu. Credo che quelle manifestazioni siano la prova più evidente che la lettura stereotipata che danno di Israele gli antisemiti fosse sbagliata e che quindi lo Stato ebraico non può essere identificato né con Netanyahu né con la cultura che esso esprime, ma che è una democrazia con libertà di opinione e di dissenso.
Come sta reagendo la politica italiana a questa guerra?
La mia impressione è che le forze politiche italiane stiano dando il loro meglio, a parte alcune eccezioni, come la Lega, che per motivi elettorali rappresenta uno scontro fra Occidente e Islam, per cui Israele rappresenterebbe il baluardo occidentale contro i paesi arabi. Al contrario, maggiore responsabilità ed equilibrio hanno mostrato sia gli altri partiti al governo, che quelli all’opposizione. Il governo, con Meloni e Tajani, è in una posizione molto equilibrata: l’Italia è un amico d’Israele ma rifiuta una lettura manichea del conflitto. Anche il Pd ha mostrato un’evoluzione positiva. il 9 ottobre il responsabile degli esteri del partito, Provenzano, ha fatto un intervento chiarissimo alla Camera, è lo stesso la segretaria Schlein.
Giudico questa novità un dato molto positivo, l’espressione di una posizione matura raggiunta dal nostro paese. Personalmente in questi giorni ho avuto molti incontri all’interno dei circoli del PD e registro con favore che nessuno ha contestato la posizione del partito, cosa che in passato non accadeva.
Come spieghi questo cambio di percezione?
Io credo che quel che è successo il 7 ottobre, il sangue di 1400 persone trucidate, ha fatto aprire gli occhi a molti, che ora comprendono cosa sia Hamas. Hamas, voglio sottolinearlo con forza, è un soggetto violento, fondamentalista e fascista.
Resta il fatto che la situazione è molto critica e che l’occidente si trova oggi a confrontarsi con due conflitti potenzialmente in grado di espandersi: quello tra Russia e Ucraina è quello tra Israele e Hamas. Le democrazie occidentali non rischiano di uscirne sfibrate, come è sembrato ammettere anche Giorgia Meloni nella telefonata “rubata” dai due comici russi?
Certo il fattore tempo conta e non aiuta. Il tema di fondo del tempo che stiamo vivendo è la capacità delle democrazie di far fronte alle crisi internazionali. La mia convinzione è che la democrazia, e la politica delle democrazie, mostra una sorprendente capacità di resilienza: si piega ma non si spezza. Confido che le democrazie sapranno combattere ogni forma di antisemitismo. Alla fine, fra una dittatura e una democrazia, occorre confidare nel fatto che le democrazie, basate sul consenso, hanno una capacità di resistere alle avversità maggiore, perché realizzano sistemi flessibili e aperti, certo migliore rispetto a sistemi rigidi e oppressivi.
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Una risposta
Una intervista davvero ottima. Grazie a Fabio Nicolucci, come sempre molto serio, e informato, capace di svolgere ragionamenti equilibrati e originali, e di spiegare con chiarezza il suo punto di vista. E grazie anche a “Riflessi” che ha avuto l’idea di intervistarlo.