Torà, scuola, giovani: ecco il nostro futuro
Rav Menachem Lazar è responsabile del centro chabad di piazza Bologna. A Riflessi spiega le idee del movimento Lubavitch, e come fare per rafforzare l’ebraismo italiano
Rav Lazar, per cominciare, ci parli un po’ di te?
Sono arrivato a Roma nel 2009, su invito di rav Hazan; essendo lui emissario del Rebbe, ha infatti la facoltà di nominare altri ad essere emissari. Oggi vivo qui con mia moglie e i miei 5 figli. In realtà sono nato a Milano, dove i miei genitori, originari di Austria e Ungheria, sono arrivati nel 1961, da New York. Mio padre nel 1939 riuscì a emigrare in America, mia madre invece restò nascosta per tutta la guerra, per poi emigrare nel 1947 negli Usa. Nessuno di loro era chabad, però mio padre era molto attivo nel cerchio dei chassidim di Agudat Israel. Poi ha voluto continuare la passione per i campeggi e per l’educazione dei bambini, si è avvicinato ai chabad e ha creato il Gan Israel dei Lubavitch a New York, modello poi diffuso in tutto il mondo. Anche mio nonno, che abitava vicino a Crown Heights, si è avvicinato al Rebbe, e così la mia famiglia è entrata nel movimento chabad. Dopo il matrimonio, mio padre, che voleva andare in missione, è il Rebbe l’ha mandato così a Milano. Attualmente anche i miei fratelli sono sparsi nel mondo sempre su missione del Rebbe.
Ci spieghi in breve qual è la formazione del rabbino Lubavitch? E quali sono i tuoi rapporti con gli altri rabbanim italiani?
Secondo la Torà, l’ideale è che una persona si occupi solo dello studio della Torà, però se sia hanno altre necessità per vivere, allora si può imparare le altre materie. A Milano la scuola chabad è paritaria, e lì si studiano tutte le materie, poi in yeshivà si studia solo Torà, ma dopo la yeshivà si può decidere la propria inclinazione. Personalmente, io per esempio ho un MBA (Master of Business Administration, n.d.r.) e vorrei iniziare un dottorato in filosofia ebraica. Il rapporto tra i Lubavitch e altri rabbini è sempre individuale. Io per esempio ho ottimi rapporti con i rabbini capo Di Segni, Arbib, Di porto. Abbiamo ad esempio costituito un comitato di Halakà sul mikve, in cui ognuno di noi dà il proprio rapporto, e la collaborazione è piena.
Di che ti occupi qui a Roma?
Quando siamo arrivati abbiamo cominciato a vivere a piazza Bologna, a fianco del tempio di via Garfagnana. Con mia moglie abbiamo iniziato attività con i bambini e gli studenti, che ospitavamo per shabbat. Allora abbiamo cominciato a fare per loro cene al tempio il venerdì sera, all’inizio 1 volta al mese, poi tutte le settimane, aprendo anche ai turisti. In più abbiamo iniziato corsi di studio per studenti. Alla fine ci siamo accorti che via Garfagnana non bastava più, perché avevamo oltre 100 persone a cena; così abbiamo trovato un centro, a via di Villa massimo, dove ci siamo sistemati da oltre 3 anni. Oggi, col Covid, senza turisti, facciamo ancora cene per studenti. Devo dire però che vengono anche persone di Roma, che non sanno con chi fare shabbat, e naturalmente accogliamo tutti. Anche per i moadim abbiamo molti italiani, anche famiglie, o persone sole.
Come si finanzia il movimento?
La regola dei Lubavitch è che ogni emissario sia economicamente autonomo. Così noi ci finanziamo attraverso le offerte. A Roma ci sono persone che ci sostengono mensilmente, e in più cerchiamo di coprire le spese delle nostre attività attraverso il costo del servizio, per esempio abbiamo un bat mitzvà club, con cui prepariamo la maggiorità religiosa, e chiediamo una quota ai genitori. Allo stesso modo, gli studenti che finiscono di studiare, poi continuano ad aiutarci; anche rav Hazan ci dà un aiuto. Dalle istituzioni in passato ci sono stati a volte degli aiuti ma solo in casi sporadici.
Ora che sei qui da qualche anno, puoi definire i caratteri dell’ebraismo romano?
L’ebraismo romano è diverso da quello milanese, così come gli ebrei tripolini e romani sono diversi tra loro. In generale, a Milano gli ebrei italiani sono pochissimi, quelli che frequentano la vita religiosa sono persiani e libanesi soprattutto. A Roma ci sono gli ebrei romani che sono molto più attivi, possiedono una grande fede, anche a prescindere dall’osservanza, e hanno un grande rispetto per la tradizione. I tripolini, invece, forse fanno vedere meno esteriormente il loro attaccamento alla fede, ma in genere sono più osservanti nella vita quotidiana. A Roma in particolare registro che c’è stato un grande ritorno negli ultimi anni del sentimento religioso, ad esempio sul fronte della kasherut, del mikve. Per esempio, il mikve costituito grazie alla famiglia Fadlun due anni fa contiene anche un primo mikve per uomini e per kelim (per kasherizzare gli utensili acquistati da non ebrei, n.d.r.), che viene oggi utilizzato quotidianamente. Insomma, c’è una crescita nella partecipazione alla vita religiosa, ad esempio negli ultimi tempi c’è stato incremento nella vendita di tefillin e mezuzot, così come nel servizio di controllo delle mezuzot.
Come te lo spieghi?
Innanzitutto c’è un elemento sociale: se c’è un gruppo che diventa osservante, questo aiuta anche gli altri, li avvicina. C’è insomma un effetto di aggregazione. Inoltre bisogna tenere conto dei tempi che viviamo. Le persone capiscono cosa c’è di importante nella vita, e che le cose possono anche mutare, ma alla fine resta di importante la famiglia, gli amici, e la propria identità religiosa. Insomma, si cerca un motivo per cui vale la pena vivere, altrimenti si resta soli e la vita resta vuota. Alla fine, ciascuno di noi ha un’anima, normalmente non ci si pensa, ma in questi tempi le persone hanno avuto tempo per comprendere. Prendi il fenomeno della crescita dei ristoranti kasher; non si spiega col turismo, ma con il desiderio delle persone di vivere in quel modo. E in più c’è la crescita degli ebrei locali, che frequentano maggiormente questi luoghi, per cui alla fine diventa normale mangiare kosher.
Dal tuo punto di vista, quali sono i problemi e le opportunità dell’ebraismo italiano?
Non c’è dubbio che da sempre ciò che mantiene l’ebraismo vivo è il fatto che, sul piano culturale e sociale, ci sia il legame con la Torà ei rispetto delle miztvoth. Tutte le altre attività, culturali e sociali, sono certo importanti, ma restano in piedi solo con l’osservanza pratica delle miztvoth. E questo è possibile con l’educazione. Solo lo studio, senza la pratica, non assicura la continuità tra generazioni. Se si vuole mantenere l’ebraismo occorre mantenere l’educazione, mirata ad avvicinare le persone. Il primo passo è sempre un’educazione religiosa, che si lega poi agli altri aspetti quotidiani. Per questo la nostra missione è portare la Torà in tutte le città. oggi ci cono rabbini Lubavitch a Firenze, Bologna, Milano, Roma, Venezia, Trieste. Ritengo dunque che sia importante per il nostro futuro investire nell’educazione e nelle scuole, e dare la possibilità di offrire più servizi religiosi, ad esempio costituendo una sezione apposita all’interno della scuola. Se le comunità non danno una risposta che include tutti, compresi coloro che chiedono più religiosità, allora questa domanda troverà risposte altrove. Se l’Ucei deve unire tutti gli ebrei, allora deve unire alla comunità e offrire servizi anche per gli ebrei religiosi.
Questa è la quattordicesima tappa del nostro viaggio nel rabbinato italiano.
Per leggere le altre tappe del viaggio: Rav Arbib, Rav Della Rocca, Rav Momigliano (qui e qui), Rav Spagnoletto, Rav Dayan (qui e qui), Rav Di Porto, Rav G. Piperno, Rav Sermoneta, Rav Somekh, Rav Hazan, Rav Punturello e Rav Caro e Rav U. Piperno
Una risposta
Bravi la vostra missione che sembrava impossibile ora si sta avverando, ora tutti parlano e sanno delle problematiche in essere e nessuno dei responsabili oggi potrà mai dire :”io non sapevo “.Che le istituzioni nostrane ne prendano atto e si muovino di conseguenza.