Shoah e foibe: pari sono?

Poche settimane fa Fratelli d’Italia ha presentato un progetto di legge che mette sullo stesso piano la Shoah e le foibe. Abbiamo chiesto a uno storico, Miguel Gotor, un’opinione al riguardo.

Miguel Gotor insegna storia moderna all’università di Roma-Tor Vergata; è stato senatore Pd dal 2013 al 2017, e poi di Articolo uno nel 2018

Professor Gotor, di recente il partito dei Fratelli d’Italia ha presentato un progetto di legge per equiparare il negazionismo delle foibe a quello della Shoah. Lei ha subito preso posizione contraria su “La Repubblica”. A suo avviso perché questa operazione è sbagliata?
Penso che siano sbagliati e vadano fermamente combattuti tutti i tentativi politici e culturali che tendono a relativizzare e, inevitabilmente, a banalizzare o, addirittura, edulcorare la shoah, un fenomeno che ha una sua “singolarità storica” per usare una convincente espressione dello studioso Enzo Traverso. D’altra parte, ritengo che vada ostacolato anche un processo, soltanto all’apparenza opposto al precedente, funzionale alla sacralizzazione e alla assolutizzazione di quel tragico evento perché lo sposta in una dimensione metastorica che non ne aiuta la comprensione e quindi la presa di coscienza. Comprendere e ricordare, infatti, sono i due doveri civili che abbiamo davanti a noi, ora che, per inevitabili ragioni biologiche, la stagione dei testimoni sta volgendo al tramonto insieme con i loro preziosi racconti.

Fratelli d’Italia è un partito che al proprio interno non nasconde simpatie, e in alcuni casi vere adesioni, all’ideologia fascista. Secondo lei l’operazione di accomunare Shoah e foibe nasconde anche un tentativo di riscrivere la storia?
Che questo tentativo avvenga da una forza politica che ha scelto di conservare nel suo simbolo la fiamma tricolore del Movimento sociale italiano rende questo tentativo ancora più imbarazzante e grottesco. Ma a prescindere da tale aspetto bisogna vigilare contro simili tentativi di equiparazione e di relativizzazione da qualunque parte politica e ideologica essi provengano. Quando a sinistra, ad esempio, sento parlare in modo provocatorio di comportamenti “fascisti” o addirittura “nazisti” da parte dei governi israeliani non mi sfugge l’implicita matrice antisemita di questo modo di ragionare e di esprimersi. Le parole sono importanti.

Più in generale, il nostro paese sembra non avere mai fatto i conti davvero col passato. Lei si è interessato ai silenzi e alle omissioni degli ultimi 40 anni, in particolare in riferimento al sequestro Moro (“Il memoriale della Repubblica“, Einaudi, 2011). Quali sono a suo avviso le ragioni storiche e culturali di tante reticenze?
Non so se questo sia una specificità italiana. Francamente non credo che spetti alla ricerca storica questa attività “regolativa” implicita nell’espressione “fare i conti con il proprio passato” che ha un retrogusto di tipo giustizialista che non mi appartiene. Si tratta, infatti, di un lento processo culturale e civile che non avviene mai una volta per tutte ma si costruisce mediante un impegno quotidiano che deve vedere diversi soggetti sensibilizzati: la famiglia, la scuola, la società civile, le diverse agenzie formatrici dell’opinione pubblica – dalla carta stampata, alla televisione, a internet, al mondo sportivo e artistico – e che coinvolge anche, ma non solo, il senso comune storiografico e l’uso pubblico della storia. L’elaborazione di un trauma richiede sempre tempo e un doloroso lavoro di scavo che non consente reticenze né deresponsabilizzazioni. È bene che ciascuno faccia la sua parte senza evocare supplenze.

Sullo stesso tema, leggi anche: Alberto Cavaglion e Gadi Luzzatto Voghera

 

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