Per niente. A quel tempo non avevo alcuna esperienza del mondo editoriale, all’inizio si è sempre un po’ smarriti. Ricordo che vinsi il premio Elsa Morante, ne fui contenta, ma non molto colpita, mentre oggi so quanto sia difficile farsi strada nella narrativa.
Esiste secondo lei una letteratura ebraica italiana?
Io credo questo: mi sembra che per scrivere un libro in cui l’ebraismo venga rappresentato al meglio ci vogliono scrittori ebrei. Se non sei calato in quel mondo, e lo leggi dall’esterno, non sarà mai un libro ebraico. Direi dunque che esiste una letteratura ebraica. Abbiamo Primo levi, che all’inizio fu considerato solo un testimone e non un grandissimo scrittore come è; Edith Bruck; Giacometta Limentani e altri.
Quali sono i suoi autori preferiti?
Non ho molti modelli di scrittore; forse direi Catherine Mansfield, che illumina i particolari attraverso il piccolo dettaglio, e il suo stile mi piace molto. Per il resto, amo gli scrittori come lettrice, ma non significa che poi li imiti. Gli autori che mi piacciono mi danno la carica per scrivere, ma a modo mio. Direi che i grandi scrittori mi fanno sentire galvanizzata.
È stato per via della narrativa che ha lasciato il giornalismo?
In parte sì. Cominciai sempre più a vivere una convivenza difficile tra i due mondi, soprattutto quando scrissi “Tutti i giorni della tua vita” che mi prese molto tempo. Per cui lì cominciai a pensare di fare solo la scrittrice. E poi c’era il fatto che anche la comunità ebraica stava cambiando, e con essa la sua dirigenza.
Come è cambiato l’ebraismo italiano in questi anni?
L’ho visto cambiare quando si è formata una classe dirigente più vicina all’osservanza religiosa. In precedenza c’era naturalmente un grande rispetto per la religione – rav Toaff era una grande luce che si proiettava anche all’esterno – ma anche una forte prospettiva laica. Poi le nuove generazioni hanno cominciato a cambiare questa prospettiva. Se in passato i figli si allontanavano dalla religione dei padri, adesso accadeva il contrario, i giovani si identificavano con una visione religiosa dell’ebraismo, e “accusavano” i padri di non fare altrettanto. Inoltre aumentava l’influenza di Israele. Insomma, in una prospettiva meno laica mi sono resa conto che anche io dovevo passare la mano, perché era giusto che il giornale fosse diretto da chi si trovava più in sintonia con questo nuovo sentire.
Quali sono le figure più importanti del mondo ebraico che ha conosciuto?
Ne indicherei tre. La prima è rav Toaff. Come detto era un rav molto aperto al mondo esterno, e anche nei giudizi e negli atteggiamenti non prescindeva mai dai valori della legge ebraica. La seconda figura è quella di Tullia Zevi, molto importante per l’ebraismo italiano. Era innanzitutto una donna, e in questo l’ebraismo italiano è diventato un precursore, per cui oggi una donna guida l’Ucei, la Cer, il Centro di cultura. La Zevi era una grandissima giornalista, una donna di cultura e di statura internazionale; divenne anche una valida collaboratrice di Shalom. La terza figura, come ho detto, è stata quella di Carlo Alberto Viterbo, presidente della federazione sionista, oltreché direttore di “Israel”.
A proposito di donne e politica: le è mai stata offerta una candidatura?
Non nel mondo ebraico, forse perché non sono mai stata molto interessata. Invece ricevetti un’offerta dall’esterno. Francesco Rutelli mi chiese di candidarmi con lui quando poi divenne sindaco; mi venne spiegato che sarei stata candidata come donna ed ebrea, ma fu proprio questo, l’idea di essere associata a delle categorie, che mi convinse a non accettare l’offerta.
Signora Levi, lei ha da poco compiuto 90 anni, e mostra, anche in questa intervista, una lucidità e una lungimiranza ancora esempio per molti. Riflessi le fa ancora moltissimi auguri, e le domanda, per concludere: come vede il futuro dell’ebraismo italiano?
Io sarei per difendere il valore della diaspora. Essere ebrei significa solo essere israeliani? Naturalmente tutti abbiamo un fortissimo attaccamento a Israele, e lottiamo per difendere Israele in tutti i modi, ma occorre difendere anche l’ebreo della diaspora, che rappresenta il rapporto con il mondo esterno, il dialogo, quello che il rabbino Sacks chiama “il contraddittorio alla conversazione umana”. Appiattirsi solo in una prospettiva che vede Israele il nostro unico punto di riferimento, quasi fosse un simbolo, rischia di far perdere una parte della nostra identità. Occorre combattere l’antisionismo, certo, però io credo molto nell’ebreo della diaspora, di questo intrecciarsi tra cultura ebraica e il resto della cultura occidentale che noi da sempre riusciamo a realizzare.
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Una risposta
Lia Levi mostra anche in questa occasione una personalità ricca viva equilibrata e accattivante …
Vanno fatti tutti i complimenti a questa donna che orgogliosamente e sommessamente ha rappresentato sia con il periodico Shalom e sia con i suoi romanzi una voce significativa dell’ebraismo italiano.
Un abbraccio virtuale a Lia Levi