Dall’altare alla tavola: la rivoluzione dei rabbini
Prosegue il nostro viaggio con Miriam Camerini, che ci accompagna nella lettura dei Pirkè Avot e nel conteggio dell’omer
Ed eccoci già a leggere il III dei Capitoli dei Padri, unico trattato della Mishnà (Il primo testo rabbinico, II sec. d.C.) di genere interamente etico – apodittico – narrativo.
Anche questa settimana scelgo qua e là fra le mishnaiot che più mi piacciono, o anche fra quelle che mi disturbano.
La I dice:
Tieni sempre a mente tre cose e non rischierai di incorrere in trasgressioni:
- Ricordati da dove vieni: da una goccia putrida.
- Ricordati dove vai: verso polvere e vermi.
- Sappi davanti a chi dovrai rendere giudizio: al Re dei re.
Dopo un inizio piuttosto ottimista, troviamo nella II e nella III mishnà una netta distinzione fra lo stare a tavola senza altro scopo che quello di mangiare, bere e passar del tempo in compagnia e lo stare a tavola per mangiare e bere condividendo però parole di Torah.
Inizia nel progetto rabbinico quella sostituzione dell’altare del Tempio di Gerusalemme, da poco perduto, con la tavola “casalinga” di ognuno e ognuna: il culto diventa domestico e ubiquo, studiare la Torah è causa e conseguenza del praticarla e sostituisce le offerte sacrificali per sempre e ovunque; il potere religioso passa dalle mani dei sacerdoti alle teste dei rabbini. È una rivoluzione, e dura ancora, duemila anni dopo, il suo effetto. “Tre che hanno mangiato allo stesso tavolo senza dire parole di Torah è come se avessero mangiato delle offerte per i morti (idolatria), ma se tre persone hanno mangiato assieme e condiviso anche parole di Torah, è come se avessero mangiato alla tavola dell’Onnipresente”. Da qui deriva il precetto di recitare assieme – invitandosi a vicenda con il permesso della o del padrone/a di casa – la benedizione dopo il pasto se a tavola vi sono almeno tre commensali, il minimo di una “comunità”. Trovo sempre sorprendente come la stessa azione, animale e necessaria alla nostra sopravvivenza, ossia bere e mangiare, possa essere un atto brutale e meramente fisiologico, oppure assumere una dimensione spirituale, culturale e cultuale, a seconda del contesto e dello spirito in cui la svolgiamo: con chi, dove, quando, che cosa e come mangiamo determina chi siamo.
Indugiando sulla domanda: “Che cosa crea una comunità?” la VI mishnà ci dice che se dieci persone siedono assieme e studiano la Torah, la shechinà – la presenza divina – dimora fra loro, ma si accontenta anche di cinque, come “dimostra” un verso del profeta Amos (9:6). In puro stile rabbinico, il gioco dei numeri prosegue dimostrando che Dio risiede anche fra tre, fra due e persino con una persona sola, purché si occupi di Torah.
La VII mishnà se la prende con chi se ne va per la strada ragionando di Torah e osa interrompersi per ammirare e dichiarare bello un albero o un fiore: non l’ho mai capita, poiché mi pare che le due attività siano intrinsecamente collegate e mi domando che cosa c’è dietro questa frase di profondo che mi sfugge.
La mishnà successiva prosegue nel preoccuparsi di distratti e smemorati prendendosela con chi ha dimenticato la Torah che ha studiato, salvo concludere che colpevole è soltanto chi “si è seduto” e l’ha attivamente dimenticata, di proposito e con impegno. Cerco di immaginare questa o questo sapiente che si siede e dice: “Ora dimentico tutto”. Chissà perché lo fa?
Dalla mishnà XI ricavo e trattengo questo: Chi fa impallidire (di vergogna) il volto del suo prossimo in pubblico non ha posto nel mondo a venire, da cui capiamo che non solo umiliare un compagno è una colpa grave, ma è un’azione che tutti a volte purtroppo compiamo e che ha qualche cosa che la accomuna all’omicidio – “Far sbiancare il volto equivale a versare il sangue”, spiegano i maestri – e che ostacola la redenzione.
L’inizio della mishnà XV è fondamentale per stare in bilico fra libero arbitrio e onniscienza divina: “Tutto è previsto e il permesso è dato”: Dio sa già ogni nostra azione, ma noi possiamo agire come se tutto fosse sempre ancora possibile, perché non sappiamo che cosa è deciso per noi, come i personaggi dell’Orlando Furioso che – come si studiava al liceo – si muovono come dentro una vasca di cristallo osservati dal loro autore, ma al contempo “liberi” perché ignari di essere guardati e raccontati, descritti e osservati.
La penultima mishnà, la XVII, è una lunga catena di condizioni necessarie le une alle altre fra cui scelgo le tre che meglio comprendo:
– la Torah
– un comportamento corretto e onesto (derekh eretz, alla lettera: la via della terra)
– la farina: senza cibo non si studia e studiare se non si è capaci di comportarsi bene è inutile se non dannoso.
Studiare senza mangiare e senza procurarsi un onesto sostentamento non è un vero studiare.
Il legame tra tavola (condivisa) e Torah mi pare uno dei fili che uniscono le 18 mishnaiot di questo III capitolo, a suggerire una convivialità che apprezza e gusta la tavola, il vino, il cibo e la compagnia e li rende sacri: il “peccato di gola” è molto lontano da questo mondo.
(oggi è il giorno n. 24 dell’omer)
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Una risposta
Il luogo del culto dal tempio alla tavola mi riconduce ad una spiritualità che rifugge da ogni metafisica. Normalmente la tavola è il luogo in cui ci incontriamo con le persone cui vogliamo bene, amiamo. La piacevolezza dello stare insieme è già qualcosa di sacro. Grazie