La crisi israeliana a una svolta?
Dopo mesi di contrapposizioni, in Israele la Corte suprema ha cominciato a esaminare la parte della riforma della giustizia già approvata. Con Gabriele Segre esaminiamo le novità in vista
Gabriele, vorrei cominciare questa intervista partendo da Israele. Abbiamo lasciato la cronaca politica al primo passo della riforma della giustizia voluta dal governo Netanyahu, e alle grandi proteste rinnovate in tutto il paese. Che aria si respira alla vigilia della ripresa del dibattito politico?
In questi giorni vivremo probabilmente una situazione “rallentata”, a causa delle Feste Ebraiche. Sul tavolo però sono rimasti tutti i dossier aperti. Quello che stiamo vedendo è il confronto di almeno due posizioni. La prima è data dall’atteggiamento intransigente delle forze d’opposizione: si tratta ormai di un approccio di radicale contrarietà che non ammette alcuna interlocuzione su nessuno dei disegni di legge avanzati dalla maggioranza. Le forze di opposizione guardano oggi come irricevibile qualunque tipo di iniziativa governativa, non solo in materia di giustizia: ad esempio, la legge profondamente controversa che adesso sarà in discussione sull’esonero definitivo degli ultra-ortodossi dal servizio militare; o i finanziamenti agli insediamenti nei Territori; e altro ancora. Tutto ciò mostra come la natura dell’opposizione a questo governo sia ad ampio raggio per ciò che concerne il merito, ma è ulteriormente radicalizzata e veemente per la mancanza totale di fiducia nei riguardi della maggioranza e delle sue intenzioni.
La seconda posizione?
È quella che riguarda il livello strettamente legato agli attori politici, che, in questo periodo di attesa, si stanno “prendendo le misure” a vicenda, sia all’interno della coalizione di maggioranza sia per ciò che concerne l’opposizione, valutando se esistono le condizioni per altre scelte politiche. Per esempio, alcune forze di governo stanno provando ad avanzare la propria agenda particolare, verificando fino a dove possono spingersi prima di mettere a repentaglio la tenuta della coalizione. Lo vediamo, per esempio, con l’inedita posizione parzialmente critica da parte dei partiti ultra-ortodossi nei riguardi dell’avanzamento della riforma della giustizia: alcune riserve vengono manifestate nel tentativo di aumentare il proprio potere negoziale sulle questioni a loro più care e per tutelare la propria immagine agli occhi della società civile contraria a questo governo. Tutto queste dinamiche concorrono a produrre effetti più ampi.
Quali?
Guarda ai primi risultati dello scontro sulla riforma riguardo, ad esempio, la “minaccia” di azioni di disobbedienza civile messi in atto dai movimenti di opposizione, in particolare quelli concernenti il servizio dei riservisti all’interno dell’Esercito. Alcuni riservisti oggi cominciano a non rispondere più alla chiamata in servizio, come avevano minacciato di fare prima del passaggio della prima parte della riforma. È bene ricordare che non tutta la riforma è stata approvata ma che la Knesset ne ha per ora votato un piccolo segmento, forse uno di quelli nel merito meno controversi, almeno in origine, ma che ormai è diventato del tutto inaccettabile da parte dell’opposizione. Come detto, infatti, oggi il merito delle questioni ha un peso secondario nel contrasto politico, proprio perché a dominare è la totale mancanza di fiducia, l’acrimonia e la divisione politica e identitaria tra le forze politiche e sociali del Paese.
L’opposizione in Parlamento sta portando frutti nel paese?
Questo si vedrà soltanto quando si tornerà alle urne. Certamente è palpabile una sfiducia crescente nei confronti del Governo, rilevata dai sondaggi, che si sta facendo sempre più forte anche a fronte degli effetti disastrosi che le scelte dell’esecutivo stanno avendo sull’economia del Paese. Questo non fa che alimentare la pressione delle forze politiche: quelle d’opposizione, ma anche da parte di alcune facenti parte della maggioranza. Si percepisce la difficoltà di mettere assieme i vari partiti e di mantenere l’equilibrio nel tentativo di avanzare una qualunque agenda politica coerente.
Prenderei spunto da quello che ci hai detto per allargare il raggio di esame. In particolare quest’estate ha messo ancora di più in evidenza la grande epoca di cambiamento in cui siamo ormai immersi: mi riferisco al cambiamento climatico, a quella che con una amara battuta molti dicono essere l’estate più fresca che stiamo vivendo in confronto a quelle che ci attenderanno nel prossimo futuro. Con che tipo di prospettiva può essere affrontata sul piano politico questa epoca di cambiamento?
Non vi è dubbio che stiamo vivendo un’epoca di cambiamenti radicali, che trasformeranno la maniera in cui siamo stati abituati a vivere. Certo, il cambiamento – anche climatico – non è una novità, anzi è in qualche modo fisiologico nella storia umana e del pianeta. Viviamo in un sistema dinamico in costante divenire: si pensi solo alla rivoluzione industriale e cosa essa ha significato per l’evoluzione della vita nostra e delle nostre comunità. Oggi siamo di fronte ad almeno tre grandi trasformazioni epocali. La prima è quella climatica che pare per certi versi incontenibile soprattutto per la rapidità con cui si compie. C’è poi la trasformazione tecnologica (si pensi all’Intelligenza Artificiale) che già oggi presenta un’inedito grado di pervasività nei suoi effetti sulle nostre vite, sul modo di interpretare il nostro ruolo nella società, il nostro lavoro, le nostre relazioni. Infine, c’è una trasformazione radicale dal punto di vista geopolitico: l’equilibrio del mondo post Guerra Fredda sta mutando, con l’emergere di nuove realtà, nuove potenze, nuovi attori. Tutte queste grandissime questioni, che avvengono a una velocità mai vista prima, ci chiamano a nuovi impegni.
Tu hai scritto al riguardo che c’è la necessità di costruire un nuovo rapporto di fiducia, una fiducia che manca soprattutto nelle nuove generazioni; si parla ad esempio di “ecoansia” per descrivere il male che colpisce soprattutto i giovani, estremamente preoccupati del loro futuro. Questa necessità di ripensare il modo, di fare politica non è già uno spartiacque politico? Voglio dire: sappiamo che la destra spesso cavalca le paure piuttosto che provare a risolverle. Dunque la destra è incapace di generare fiducia?
Sarebbe una lettura troppo semplicistica. Se è indubbio il tentativo di una parte della destra di relazionarsi in maniera strumentale con la paura, non possiamo allo stesso tempo non registrare l’incapacità di una parte della sinistra di creare un consenso ampio e un vero spazio di partecipazione collettivo, con l’intenzione di avanzare un approccio alla responsabilità davvero condiviso. Il tema mi sembra più ampio e non riducibile a una questione di pozioni e scelte partitiche.
A cosa ti riferisci?
Immaginiamo che domani Elon Musk trovi la soluzione concreta, praticabile e sostenibile al cambiamento climatico… Avremmo risolto il problema? Io credo di no. La soluzione, per quanto ottima, non sarebbe efficace perché mancherebbe dell’aspetto fondamentale, ossia un senso di appartenenza, adesione e responsabilità condivisi: sarebbe una soluzione, per quanto ottima, calata dall’alto. Di fronte a queste sfide così complesse che toccano le persone e le comunità in maniera diretta e profonda c’è al contrario necessità di una partecipazione collettiva e pervasiva della popolazione.
Questa tua sottolineatura mi porta però alla domanda successiva. Oggi tutti gli schieramenti politici sono afflitti dallo stesso male, per così dire: quello di cercare il consenso nell’immediato. Il politico, in generale, è schiacciato sempre sul presente, c’è sempre la rincorsa al voto del prossimo mese o del prossimo anno, mentre l’età del cambiamento richiederebbe la necessità di una programmazione. Come è possibile coniugare una buona politica, ossia una politica che sia consapevole dei problemi e sappia trovare la strada per affrontarli nel medio e lungo periodo, con la necessità di ogni democrazia, che richiede di confrontarsi ciclicamente con il voto elettorale per ottenere consenso?
Certo, in democrazia programmi sul lungo periodo e consenso devono trovare il modo di stare insieme. Per riuscirci, occorrono a mio giudizio due condizioni. La prima è la più ovvia, ossia avere la capacità di visione oltre la contingenza immediata, ma in grado di immaginare il futuro oltre le scadenze elettorali. La seconda condizione riguarda invece il coinvolgimento democratico.
Cosa intendi?
Oggi non possiamo più concepire la politica come unidirezionale: i politici spiegano, gli elettori ascoltano. Certamente c’è bisogno di una classe politica di professionisti, di un élite di competenze, soprattutto oggi in cui affrontiamo questioni così tecnicamente complesse e rapide nel cambiamento. Tuttavia, credo che per cambiare per davvero e adattarci a una realtà così complessa serva quello che oggi manca: una comunità progettuale. Intendo che oggi il cambiamento ci viene incontro trovandoci fondamentalmente soli: ciascuno prova a reagire come può, ma come singoli individui, e questo non potrà portarci ad alcuna effettiva soluzione. Siamo invece di fronte alla necessità di affrontare le sfide che ci aspettano non singolarmente, ma come comunità “politiche”, ovvero attraverso un impegno collettivo. Questo oggi manca. Viviamo in un momento storico di desolazione e grande solitudine: soffriamo per l’incapacità di vedere un futuro, causata proprio dal fatto che ciascuno opera da solo. È solo immaginando soluzioni insieme che si creano progetti che funzionano. Dobbiamo tornare a sentirci parte di un progetto collettivo, di una comunità.
Per chiudere questa nostra intervista vorrei affrontare un’ultima questione. Tu ricordi la necessità di ricostruire una comunità. Secondo te il pensiero ebraico può fornire almeno alcuni strumenti per ricostruire quest’idea di comunità politica, una comunità progettuale in cui la maggioranza si riconosca?
Il pensiero e la cultura ebraica a lungo hanno fatto proprio questo, e l’hanno fatto magistralmente: pensa alla creazione dello Stato d’Israele, che ha saputo unire identità, costumi e lingue così diversi. Sappiamo infatti che l’ebraismo non è unitario, ma composto da rivoli e derivazioni molto differenti. Ma oggi anche Israele si trova ad affrontare una profonda crisi d’identità. Oggi, prima ancora che a rischio la democrazia, temo sia a rischio Israele. Quella risorsa ideale e culturale che permise la nascita dello Stato, fondato sulla capacità di unire le differenze all’interno di una collettività – quasi un’Utopia all’epoca – che è servita a costruire una coesione sociale di un paese fortemente frammentato e a creare quell’immaginario collettivo che ha portato al miracolo che abbiamo conosciuto. Oggi tutto questo sembra perso. Siamo passati dallo Stato unitario alle 12 tribù in guerra tra di loro. Questo aspetto tribale è una delle grandi questioni e delle grandi sfide di oggi. Quella frammentarietà che porta ad affrontare i problemi come “singoli” o “entità singole” che non cercano la sintesi con “l’altro” è un problema che attanaglia tanto Israele quanto il resto del mondo. Ognuno cerca di costruire un disegno differente, che non prevede la possibilità della pluralità ovvero della capacità di riconoscere le differenze che gli altri portano. La grande sfida globale è questa: come riuscire a mantenere quella diversità, fonte di autenticità e di autodeterminazione individuale, e al tempo stesso costruire un progetto “Politico” no univoco ma unitario nella forma e nella capacità di tenere assieme le diversità, fatto di programmazione e propensione verso il futuro. Come facciamo a costruire una società che tenga conto della pluralità, ma che riesca a organizzarsi in direzione del bene comune? Questa è la sfida di Israele, che poi è la sfida del mondo globale di fronte alla modernità.
In conclusione, ora che siamo entrati in un nuovo anno, ti senti di fare un auspicio per il futuro del paese?
Potrei dire che non tutto è perduto, soprattutto alla luce delle audizioni della Corte Suprema, relative alla parte della Riforma che riguarda proprio il criterio di ragionevolezza.
Cosa è emerso?
Per la prima volta dopo tanti mesi abbiamo finalmente assistito a un dibattito nel merito, non urlato e sguaiato come avvenuto ahimè per lo più alla Knesset, complice la necessità di argomentare giuridicamente il dibattito sulla sostanza.
Che impressione ne hai ricavato?
Quello che ne è uscito, al di là dei problemi di fiducia e delle questioni personali, è che esistono ottime ragioni da entrambi i lati per sostenere tanto il bisogno di cambiamento quanto quello di protezione delle conquiste ottenute finora. La qualità del dibattito suggerisce che, forse per la prima volta, si sta aprendo una finestra di opportunità “costituente”, ovvero quello sforzo collettivo mai affrontato definitivamente di costruire un rinnovato patto sociale che sappia legare i cittadini e rafforzare il Paese. Se sapremo ammorbidire le inimicizie e superare almeno parzialmente la sfiducia di questo periodo, mi sento di spendere una parola di ottimismo riguardo alla possibilità di iniziare a porre le basi per un nuovo percorso di costruzione e non di separazione.
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