Perchè questa crisi è diversa da tutte le altre crisi?
Dopo 17 settimane di proteste, in Israele ancora non è certo l’esito della crisi che attraversa il paese. Ne abbiamo parlato con Rav Michael Ascoli
Michael, Israele è alla diciassettesima settimana di proteste contro la riforma della giustizia voluta dal Governo Netanyahu e tutti gli osservatori cercano di valutare i possibili esiti di questa forte contrapposizione sociale. Innanzitutto, come stanno le cose?
I numeri delle manifestazioni sono per definizione incerti, perché ogni parte tende a ingrossare le proprie fila. Ciò detto, a me pare che le manifestazioni di protesta, come dicevi arrivate alla 17 settimana di fila, continuano a portare per le strade numeri importanti. Grossomodo, scendono in piazza 200.00 persone ogni sabato sera, lo scorso sabato anche di più. La caratteristica di queste manifestazioni è di avere epicentro a Tel Aviv, ma di essere diffuse sul territorio, si contano addirittura centinaia di luoghi. Senza contare che a volte la destra contraria alla riforma manifesta a parte, come a Gush Etzion, con una forte rappresentanza religiosa. D’altra parte, giovedì scorso, con il ritorno pieno alle attività, anche la parte del paese favorevole alla riforma si è fatta sentire, con una grande manifestazione a Gerusalemme, anche questa di circa 200.000 persone, importante anche perché i numeri sono stati raggiunti nonostante gli haredim non abbiano aderito, e grazie al sostegno economico del Likud e di altri partiti di governo.
Mi piacerebbe provare a indagare gli orientamenti interni al mondo religioso. È vero che gli ebrei osservanti sono tutti schierati dalla parte del governo e della riforma?
Per onestà, prima devo dirti che io rappresento la parte contraria a questa riforma. Detto questo, uno dei risultati più importanti e positivi, paradossalmente, di queste proteste, è la presa di coscienza di una certa parte della popolazione sionista-religiosa nel non identificarsi con il partito di Smutrich e Ben Gvir, e di voler cercare una nuova identità politica, e forse una rappresentanza differente. In realtà già prima si sapeva che molti del partito del sionismo religioso non si sentivano rappresentanti da quelle due figure, ma avevano concesso loro una forma di delega, come prima era stata data a Bennet. Ora questa delega sembra vacillare, tant’è che in Samaria si protesta. Anche da piccoli gesti si coglie questo: a shabbat, grazie all’eruv, come sai i giornali possono circolare, ce ne sono parecchi che vengono distribuiti nelle sinagoghe; in molte pubblicazioni non marginali (Shabbaton, 60.000 copie di tiratura), si leggeva una linea critica contro il governo e la riforma. Naturalmente, chi esprime perplessità, contrarietà, alla riforma non si sposta su altre forze politiche, ma comunque sono distinguo importanti. Direi però che la maggior parte del sionismo religioso è a favore della riforma: in alcuni casi con cognizione di causa, in alte a prescindere, per sentimento identitario. C’è un sentimento di riscossa da parte loro, di rivalsa verso i torti del passato (pensa al ritiro da Gaza, o agli accordi di Oslo); ci troviamo davanti a una platea convinta di essere odiata dalla parte laica del paese.
Ed è così? Detto altrimenti: la frattura tra laici e religiosi in Israele può essere ricomposta?
Esiste il rischio di superare il punto di non ritorno. Del resto, non è la prima volta. Io abito qui da non molti anni, ma all’inizio dello Stato di Israele si racconta di una fortissima tensione tra religiosi e non religiosi, che in alcuni momenti diventa particolarmente acuta. La possibilità di gestirla, e di far prevalere la larga fascia di moderati e di persone di buon senso sugli estremisti di entrambe le parti però esiste ancora, io spero che prevalga. In buona parte dipenderà dalla saggezza delle guida delle due fazioni, ognuna del quali si scompone in tante altre.
C’è poi l’altra componente del paese, i cosiddetti Mizrachi, che una lettura forse un po’ troppo rigida vorrebbe anche loro tutti schierati dalla parte del governo, animati da un sentimento di rivalsa per essere stati storicamente sempre considerati subalterni alla componente ashkenazita.
Non sono un demografo né uno statistico, tuttavia alcune considerazioni al riguardo possono farsi. È chiaro che, all’inizio di Israele, il ceto intellettuale e di governo era ashkenazita; tuttavia oggi le cose sono diverse. Deri [il rappresentante di Shas che si è dovuto dimettere dal governo per essere stato condannato per fatti di corruzione, n.d.r.] è un ebreo mizrachi riuscito a fare carriera molto brillante, prima di incappare in una condanna. Questo vittimismo che si ascolta, che diventa paradossale quando ad esempio espresso dal ministro Smotrich, che non ha certo quel back-ground familiare da emarginato sociale, è una scusa. Penso agli ebrei etiopi, ad esempio, che non sono difesi dalla destra, e sono ancora più deboli. Seppure in passato queste lamentale avevano una base di verità, oggi mi sembrano pretestuose.
Non vedi il rischio che, con il passare del tempo, in Israele prevalga un modello politico e sociale diverso, più mediorientale e definitivamente lontano dai principi del liberalismo che siamo abituati a conoscere qui in Occidente?
I dati e i flussi demografici sono chiari; però ne contesto la valutazione. Ti faccio un esempio: ogni volta che vengono pubblicati gli indici di corruzione dei paesi, si vede che Israele è piazzato molto meglio rispetto agli altri paesi del medio Oriente e dei paesi di provenienza di molti ebrei immigrati, il che significa che dovremmo evitare di fare analisi affrettate e troppo superficiali. Certo, l’insidia che indicavi esiste; tuttavia finora Israele ha dimostrato di saperla evitare: la capacità di amalgamare realtà diverse e realizzare un risultato capace di assorbire tali diversità è un dato certo, che tende a diffidare di letture forse troppo stereotipate. È chiaro che questa amalgama è difficile e spesso non completa; penso ad esempio agli ebrei ex sovietici; dall’altra parte, ti chiedo, immagina l’Italia se avesse dovuto accogliere l’equivalente di 6 milioni di persone con cultura lingua e tradizioni diverse: che ne sarebbe stato della tenuta sociale del paese? Eppure, in Israele è successo proprio questo, e il paese ha tenuto, è ancora qui senza essersi snaturato.
Quindi, nessun rischio per la democrazia israeliana?
Mi sento di dire che il rischio di derogare, o rinunciare, ai principi liberali esiste, ma non dipende dagli immigrati. Piuttosto, mi sembra che il tema sia quello dell’educazione interna, questione tutta ebraica; segnatamente, lo dico con tristezza, nell’ambito religioso. Non è solo il mondo degli haredim che va nella direzione di un maggiore irrigidimento nell’insegnamento, e conseguentemente nei rapporti civili e nell’orientamento politico.
In effetti, un’altra previsione che si legge è che, non fosse altro che per spinta demografica, gli ebrei religiosi saranno sempre più numerosi in Israele, spostando così il paese verso posizioni sempre più conservatrici. Tu che ne pensi?
Non posso fare previsioni, ma provare a fare un’analisi. Innanzitutto concedimi una battuta sulla demografia: sarebbe ora che anche i laici mettano in pratica con maggiore fervore la mitzvà del “perù u-revu”! [“fruttificate e crescete”, n.d.r.]. Fare figli è salutare per la società, sempre. Inoltre, dal punto di vista della composizione sociale, dobbiamo ricordarci di fare una distinzione tra haredim e sionisti religiosi. Detto questo, credo sia importante, per rispondere alla tua domanda, tornare sull’aspetto educativo. Penso al partito dei sionisti religiosi, oggi rappresentati in particolare da Smotrich. Smotrich è allievo del merkaz ha-rav, si rifà cioè al pensiero di rav Kook, che era persona di visioni amplissime, che conosceva altre culture e aveva elaborato da un punto di vista teologico una forma di riconoscimento della figura del pioniere non religioso, andando incontro e non contro la parte laica della società. Ebbene, Smotrich è molto lontano da una forma di accettazione della parte laica della società israeliana. Quel riferimento culturale originario a Rav Kook è andato quasi completamente perso nel tempo. Io però spero che si riuscirà a recuperare questa aperura dialettica con il resto della società, senza chiudersi in uno studio dogmatico della Torah, con una fortissima politicizzazione del testo, basata soprattutto sulla sacralità della terra, che offusca tutti gli altri aspetti. Se sarà così, sarà possibile un dissenso, un’alternativa politica a quella seguita oggi da chi siede alla Knesset. Se invece continuerà questa tendenza alla rigidità dell’interpretazione e al disconoscimento dell’altro, tutto potrà accadere. Lo stesso vale per gli haredim: se continueranno a sentirsi o a volersi escludere dalla vita sociale (penso al servizio militare o al percorso di studi), tutto ciò non farà che aumentare il contrasto con la società. Spero invece che si aprano alla società, ma anche che la società non abbia la pretesa di imporre loro esattamente le stesse regole che applica a sé stessa.
L’ultima domanda è su di te. Come ci hai detto, sei contrario alla riforma; eppure, sei un ebreo religioso, un rav, seppure svolgi una professione nella società civile, lavorando in una società come ingegnere. Insomma: come ti senti, da ebreo religioso, a vivere queste settimane di forte tensione e contrapposizione tra le tante anime della società israeliana?
La mia posizione è di minoranza sia dentro il mondo religioso che quello laico, anche se personalmente non ho mai trovato difficoltà nell’esprimerla; per esempio non mi sento certo in imbarazzo andando in giro con la kippà tra moltissimi altri che non la indossano. Detto questo, chiaramente ho un problema di identificazione nel momento in cui si va al voto. Il mio disagio nasce dal non sentirmi rappresentato dal partito HaTzionut HaDatit [il partito sionista religioso di Smotrich e Ben Gvir, n.d.r.], e dunque ogni volta mi trovo a scegliere quello che per me è il male minore. Non so se nascerà una corrente diversa che possa essere abbastanza forte da essere rappresentata in parlamento; anche qui, consentimi una battuta finale: essendo per fortuna Israele vicino al traguardo dei 10 milioni di abitanti, è sempre possibile trovare un gruppo con il quale identificarsi, per quanto piccolo sia.
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