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La crisi in Israele è uno spartiacque per l’Occidente

Il tentativo del governo Netanyahu di riformare la giustizia finora ha ottenuto la più grande mobilitazione democratica del paese contro un governo in carica: cosa succederà ora? Riflessi lo ha chiesto a Gabriele Segre

Gabriele, da circa tre mesi Israele vede una straordinaria partecipazione popolare mobilitarsi contro la riforma della giustizia voluta dal governo Netanyahu. Partirei da qui per chiederti: siamo davanti a una normale crisi politica o a uno spartiacque?

Gabriele Segre, direttore della “Segre Foundation”, è nipote di Vittorio Dan Segre

Io credo che in effetti siamo di fronte a uno spartiacque, che può avere processi, dimensioni, ritmi e cadenze diverse, in parte ancora sconosciuti. Del resto, quando c’è un momento di crisi della storia non è detto che chi lo vive se ne renda conto. Pensa alla deposizione di Romolo Augustolo: nessuno poteva immaginare a quel tempo che fosse caduto anche l’impero romano. Facendo le debite proporzioni, lo stesso vale per questo momento storico. Questa specifica fase della crisi avrà una sua evoluzione e verrà risolta, ma certamente questa non è una normale crisi politica. Stiamo assistendo a un momento di cambiamento radicale del paese che non inizia oggi ma ha radici antiche. Ed è per questo che oggi tanti pensano che se passasse questa riforma per Israele sarebbe la fine.

Non è così?

qui e sotto: manifestazioni di protesta in Israele contro la riforma della giustizia avanzata dal governo Netanyhau

A chi teme “la fine di Israele”, rispondo che è probabile che oggi siamo di fronte a un cambiamento fisiologico di una società che è per natura dinamica, come lo è stata in passato. Certo, come detto assistiamo a una crisi epocale. In Israele sotto la superficie della riforma della giustizia c’è un conflitto molto più profondo, espressione di alcune contraddizioni irrisolte. Il rischio per Israele non è tanto questa riforma, ma l’incapacità di risolvere questi conflitti più profondi. Al pari di ogni altra società, anche Israele non è statica, ma in costante evoluzione, per cui bisogna essere in grado di cogliere queste trasformazioni. In fondo, già oggi Israele non è quella dei padri fondatori e dei pionieri, né quella delle grandi guerre che ha dovuto sostenere per sopravvivere.  In questi settantacinque anni il paese ha affrontato molte trasformazioni, impegnata sul fronte della sicurezza, dello sviluppo economico e tecnologico, del confronto con la sfida della convivenza con il popolo palestinese, eccetera. Per cui credo che domani un certo tipo di Israele non esisterà più, esisterà un altro Israele, ma che tipo di paese sarà è ancora tutto da costruire.

Quindi è sbagliato essere pessimisti?

Se noi lasciamo vincere il sentimento di disperazione che si vede in tante persone, soprattutto in quella parte della società più cosmopolita, radicata in una concezione democratico liberale della società, se prevalesse il sentimento di un disastro incombente, ossia la paura, si lascerebbe un vuoto politico, un vuoto di rappresentanza, che come tutti i vuoti sarebbe riempito da qualcos’altro. Credo al contrario che dovremmo seguire e partecipare a questa trasformazione per farne un progetto condiviso. Se si lasciasse il campo solo a una parte, mentre l’altra rimanesse a guardare, questo sarebbe un grande errore. Israele deve restare una società dalla natura dinamica.

Resta il problema dell’immediato: come si uscirà da questa crisi?

La Corte suprema israeliana

A questo punto è molto difficile cambiare la riforma in una maniera che possa essere risolutiva anche degli altri livelli di frattura nella società. Questo perché, ripeto, ci sono ragioni molto più profonde in questo conflitto, e dunque la questione non è, ad esempio, il numero di voti da raggiungere in parlamento per rigettare una sentenza della Corte suprema. Sulla riforma una negoziazione prevalentemente tecnica non si può fare, perché il campo è occupato ora da passioni così ben determinate che tutti hanno molta difficoltà a riconoscere le ragioni dell’altro. È invece necessario ricomporre questa frattura. È necessario aprire un dialogo che non abbia come unico argomento la negoziazione della riforma della giustizia, ma che abbracci una prospettiva più ampia. Occorre tornare a costruire un immaginario collettivo, un’idea di Israele che non sia divisiva come ora.

Questa prospettiva che tu delinei e che auspichi deve confrontarsi però con una visione diversa, opposta.

Il rischio c’è. Tuttavia credo che dobbiamo cogliere l’opportunità di ricomporre la frattura. La domanda è: siamo nelle condizioni di farlo? Oggi vedo che Israele deve confrontarsi con grandi problemi. Il primo è il fatto che ha sviluppato, soprattutto negli ultimi decenni, una società a livello fortemente tribale. Ogni parte della società si riconosce in clan diversi, che non riconoscono gli altri clan; non parlo solo dei religiosi, o di chi vive negli insediamenti, ma anche della parte più moderna e tecnologica. Questa divisione in clan e questa mentalità di clan o, se vuoi, di tribù, è dominante, e mina seriamente la coesione sociale. Allora la prima questione è: si riesce a rafforzare un’identità fondata su un progetto comune? All’inizio, nel 1948, questa visione comune c’era, poi nel tempo è stata superata da sensibilità, interessi e visioni diverse, fino ad arrivare al paese spaccato di oggi. La seconda questione è istituzionale: la legge elettorale prevalentemente proporzionale rafforza le tante identità sociali e politiche oggi in lotta, ossia le ragioni dei clan. In questo modo ogni leadership politica esprime un’agenda di parte, che è legittimo, senza tuttavia riuscire a cogliere la dimensione complessa della società composita e articolata, e questo blocca il riconoscimento reciproco.
Tu vedi oggi il rischio per Israele di trasformarsi in uno Stato dai caratteri teocratici?

scontri tra laici e ortodossi in Israele

Non so se ci sia veramente una progettualità chiara, una strategia politica definita rispetto alla volontà di uno stato teocratico; però penso che esistano delle anime all’interno del governo che esprimono una diffidenza nei confronti di uno stato laico, moderno e liberale. Questa diffidenza fa sorgere il sospetto da parte degli altri sull’esistenza di un’agenda finalizzata a questo obiettivo. E anche solo il sospetto crea la paura e dunque la conflittualità.

Vorrei poi mi dessi un giudizio su Netanyahu, che da 5 elezioni non riesce più a vincere. Secondo te questa è l’ultima tappa della sua parabola politica?

Il governo guidato da Netanyhau

Non sono in grado di dirlo, però posso dirti che non vedo assolutamente un atteggiamento rinunciatario e sconfitto di questo governo sul fronte della giustizia. È certo troppo presto per dire che “la piazza ha vinto”. Dobbiamo ricordare che Netanyahu è un eccellente stratega, è un calcolatore, un uomo politico estremamente capace, più di tutti gli altri. Guarda come si è mosso: era ben consapevole che la riforma come prevista in origine non sarebbe potuta passare. La sua preoccupazione allora è stata di farsi approvare un passaggio decisivo: la legge che limita fortemente la possibilità di obbligare il premier a dimettersi, mettendosi così al riparo. Per fare questo non ha esitato a imporre dei ritmi ai lavori parlamentari molto serrati, con riunioni fissate già dalle otto del mattino in commissione giustizia. Una volta ottenuto questo risultato ha aperto alla possibilità del negoziato. La pausa che ha deciso non è una sua sconfitta, perché comunque la riforma non sarebbe potuta passare prima di Pesach.

Al contrario, questa mossa di aprire all’opposizione all’ultimo minuto utile ha messo in difficoltà quest’ultima, che è stata chiamata a scegliere: accettare il negoziato, e dunque una mediazione, o rifiutare di farlo e assumersi la responsabilità di una divisine ancora più profonda? La pausa serve a Bibi per tentare di attenuare le proteste di piazza in settimane complesse dal punto di vista della sicurezza, sapendo che sarà più difficile mantenere viva la protesta nel corso delle settimane. Forse Netanyahu si è preso questo mese perché spera di infiacchire sia l’opposizione parlamentare che quella sociale, e puntare così a far passare la riforma; forse sta aspettando per provare a sferrare il colpo finale.

Secondo te è quella incorso è una crisi locale, del tutto particolare, oppure costituisce un altro tassello di un mosaico più ampio, se guardiamo alla Francia, e ancora prima all’Ungheria e alla Polonia, oppure agli Stati Uniti e al Brasile? In altre parole, le democrazie liberali vivono un momento di crisi generale?

6 gennaio 2021: estremisti filo trumpiani assaltano il Campidoglio

Alla lista che hai fatto aggiungerei anche l’Italia. Viviamo sicuramente una fase di crisi di cultura democratica e cultura politica in Occidente, per cui non si capisce ancora che direzione prenderemo. Assistiamo al successo di forze politiche alternative a quel modello: penso alla Polonia, ad esempio. Detto ciò, però secondo me siamo dentro un laboratorio in corso. Anni fa Huntington ci parlò di “conflitto di civiltà” tra visioni del mondo; forse siamo di fronte a uno scenario del genere, in cui si confrontano una visione teleologica della società che immagina un ordine ideale a cui aspirare, e una più liberale e pronta a confrontarsi laicamente con l’evoluzione del mondo, e da cui derivano due modelli di società molto diversi; potremo dire un modello statico e un modello dinamico di società. Questo confronto è in corso un po’ in tutto il mondo: in Europa, negli Stati Uniti, ma anche in Russia e in Cina. Credo che questo sarà uno dei nodi cruciali su cui ci confronteremo nei prossimi anni, perché viviamo una crisi profonda e trasversale. In questo, Israele rappresenta un’avanguardia.

Giorgia Meloni e Benjamin Netanyahu

C’è poi la questione della diaspora. A giugno la comunità di Roma, la più antica della diaspora d’Europa, torna al voto per rinnovare il consiglio. A tuo avviso le tensioni in corso in Israele avranno effetto sulla diaspora? Anche noi rischiamo di entrare in questa spirale di profonda spaccatura fra due visioni, quella teologica e quella più liberale?

Non credo che nella diaspora si produca la stessa spaccatura, ma certamente anche la diaspora si trova di fronte alla necessità di fare i conti con le contraddizioni che Israele non ha risolto. Più in generale direi: qual è il ruolo di Israele rispetto all’ebraismo? Israele è ancora in grado di avere un ruolo di leadership sul resto degli ebrei che vivono nel mondo?  Questa è una cosa che fino a ieri era data per scontata, ma oggi, con queste spaccature in corso, la questione va presa in considerazione, e coinvolge anche il ruolo delle autorità religiose: devono avere un primato rispetto alle autorità istituzionali? E ancora: cosa fare con tutte le altre forme di ebraismo che non rispondono alla versione “ufficiale”, quella religiosa ed ortodossa? Tutte queste domande sono rimaste profondamente irrisolte nel corso degli anni, mentre oggi siamo arrivati ad un momento di frattura che non può più essere evitato: l’ebraismo della diaspora è in grado di riconoscersi in un immaginario collettivo condiviso?

Il sit-in a piazza S.S Apostoli dello scorso 10 marzo contro la visita di Netanyahu, Roma, 10 marzo 2023. (ANSA)

Un’ultima domanda. Pesach è stata segnata dall’inasprirsi degli attacchi da Gaza e dal Libano, questi registrati dopo alcuni anni di tregua. Inoltre un attacco a Tel Aviv ha provocato la morte di un turista italiano e il ferimento di altri sette. A tuo avviso il pericolo esterno fermerà, o attenuerà, le proteste contro la riforma?

A vedere le proteste dell’ultimo fine settimana, sembra che le manifestazioni non si siano attenuate, nonostante gli attacchi che ricordavi. Gli ultimi sondaggi inoltre segnalano che il governo Netanyahu perde consensi anche nel suo elettorato. Naturalmente non possiamo prevedere cosa accadrà nelle prossime settimane, ma il trend sembra suggerire che si manterrà un alto livello di partecipazione sociale, tanto più che tra pochi giorni la Knesset aprirà, e la riforma potrebbe riprendere il suo corso. Inoltre, vorrei segnalare un altro punto.

Quale?

la firma degli accordi di Abramo

In questo momento Israele dà agli altri soggetti della regione, molto dei quali suoi nemici, l’immagine di uno stato debole. Si tratta di un rischio che il Ministro della Difesa, Galland, aveva già denunciato per tempo, conoscendo bene le dinamiche politiche del Medio Oriente, di stampo ancora tribale. Secondo questa logica, chi si mostra debole si espone al pericolo di un attacco. Temo dunque questo: che l’incertezza sociale che vive Israele, unita a un progressivo ma evidente disimpegno nella regione del suo maggiore alleato, gli USA, spinga i suoi avversari a metterne alla prova la forza, provocando Israele non necessariamente alla ricerca di un conflitto su larga scala, ma al fine di dimostrare, in uno scenario tornato in movimento – vedi il recente accordo Iran e Arabia Saudita, il ruolo degli Emirati Arabi, il ritorno in gioco della stessa Siria, i colloqui tra Iran e Turchia, e soprattutto il nuovo ruolo della Cina nell’area e la presenza costante dell’influenza Russa – che Israele non è più un attore centrale e imprescindibile dell’area.

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