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Guardo a Israele con preoccupazione e ottimismo

Wlodek Goldkorn ricorda la figura di Amos Oz, oggi più che mai presente nel particolare momento storico che vive il paese, tra scontri interni e minacce esterne 

Wlodek, vorrei far partire questo dialogo dall’ultimo libro di Amos Oz, appena uscito: “Resta ancora tanto da dire”. Puoi farci un suo ritratto?

Wlodek Goldkorn, giornalista e scrittore

È stato un grandissimo scrittore. Uno scrittore da Nobel, anche se non l’ha mai avuto, forse perché israeliano. È stato un intellettuale a tutto tondo, era un uomo che interveniva anche nelle questioni pratiche, distinguendo sempre con una certa insistenza fra i suoi scritti politici e suoi romanzi. Amos Oz diceva che se voleva criticare il primo ministro scriveva un articolo sul giornale, se invece voleva fare letteratura scriveva un romanzo. Questo era Amos Oz; un’autorità morale ed etica in Israele, riconosciuto tale anche per chi non era d’accordo con le sue idee. Ed era un grande sostenitore di un compromesso fra gli israeliani e i palestinesi. Non ne faceva solo una questione di prammatica, ma anche etica: per lui il compromesso era il contrario del fanatismo.

Questo libro è una sorta di testamento politico e spirituale. È possibile oggi immaginare ancora, per Israele e i palestinesi, la soluzione dei due popoli e due Stati?

Immaginare certo si può, si può sempre immaginare tutto, parafrasando Oz. Quando gli esprimevo i miei dubbi, che erano anche i dubbi di una persona di cui ho avuto in dono l’amicizia, A. B. Yehoshua, lui mi rispondeva che in politica non c’è niente di impossibile e c’è tanto di imprevedibile.

l’ultimo libro di Amos Oz (1939-2018)

Dunque?

Se posso esprimere la mia opinione, da israeliano, direi: occorre tornare ai fondamentali. La realtà ci dice che c’è un paese, non più grande della Toscana, che è la casa di due popoli; nessuno dei due ha intenzione di andarsene o rinunciare ai propri diritti, come diceva Oz. Si tratta allora di trovare una soluzione in cui ambedue i popoli hanno gli stessi diritti. Credo che ai leader e ai popoli sta decidere come, però non bisogna avere paure delle utopie. Né dell’una né dell’altra: che si scelga la confederazione, oppure una separazione, purché si scelga una delle due. Certo, è un problema terribilmente difficile da risolvere, però, come pensava Oz, io credo che alla fine non c’è soluzione razionale se non quella di arrivare a un accordo che porti al riconoscimento di due popoli in un piccolo pezzetto di terra.

Nel tuo ultimo intervento sul numero di Limes dedicato a Israele, descrivi una fragilità interna dello Stato ebraico che questa crisi sociale, politica e istituzionale sta evidenziando. Si tratta di una novità preoccupante, o ha radici lontane?

da destra: Amos Oz, A. B. Yehoshua, David Grossman

Mi sono limitato a fotografare la situazione. Da molti anni ho questa impressione: Israele è un paese molto forte – perché Israele è molto forte militarmente ed economicamente e produce pure una cultura molto interessante– abitato da persone molto vitali, perché se parli con gli israeliani risulta che sono abbastanza felici. Al di là i tutti i problemi il paese è benestante (seppure con grandi disuguaglianze e sacche di povertà) e sul piano internazionale pienamente legittimato (con l’eccezione dell’Iran) da quello che una volta si chiamava il consesso delle nazioni. Tuttavia, in loro c’è anche una sensazione di insicurezza, abbastanza diffusa. Io non so da dove arrivi, forse perché Israele è in guerra fin dalla sua nascita, forse perché c’è la realtà dell’occupazione che dura da decenni, come sottolinea un altro grande scrittore David Grossman e su questo insistevano Oz e Yehoshua. E poi c’è il fatto che questa crisi istituzionale ha reso palese una cosa che molti avevano rimosso.

Cosa?

Theodor Herzl (1860-1904)

Israele non ha una costituzione scritta. Il parlamento è monocamerale. A pensarci, la maggior parte dei paesi democratici ha una costituzione e due rami del parlamento, perché in genere uno, il Senato, agisce con più ponderazione ed è meno soggetto ai voleri dell’esecutivo. E poi, la religione non è separata dallo Stato.  Per fortuna esiste la Corte suprema che in qualche modo modera l’esecutivo e vigila sulla laicità dello Stato. Ma abbiamo scoperto che il sistema dei contrappesi in Israele è più vulnerabile di quanto avessimo immaginato.

È solo un problema di ingegneria costituzionale, dunque? Questa crisi non evidenzia forse che arrivano al pettine le questioni relative al concetto di sionismo? In fondo sionista era Theodor Herzl, sionista era Martin Buber, sionista era Ben Gurion e sionista è Netanyahu: modelli molto diversi l’uno dall’altro.

Successivamente al voto ONU del 29 novembre 1947, il 14 maggio 1948 Ben Gurion proclama la nascita di Israele

I sionismi sono stati molteplici. Herzl, ebreo integrato e occidentale, aveva intuito che gli ebrei avevano bisogno di uno Stato per sfuggire alle persecuzioni ed essere soggetto sovrano. Ma c’era un altro sionismo, io lo chiamo il “sionismo di Odessa”, perché  quella città era a fine Ottocento un importante centro di elaborazione culturale degli ebrei; era uno sionismo che  vedeva  nella aliyah [l’emigrazione in Israele, n.d.r.] non solo uno strumento per costruire uno yishuv [la prima forma di comunità ebraica nella palestina ottomana, n.d.r.] nuovo, ma serviva alla  rinascita delle persone, a creare un ebreo nuovo, agricoltore e combattente, lontano dai modi di vita della Diaspora. Come dicevano allora: “Siamo arrivati nel nostro paese per costruirlo e per costruire noi stessi”. Il movimento laburista nasce da quel sionismo. E poi c’era il sionismo di Vladimir Zabotinski – un misto fra il liberalismo di Herzl e pensiero di destra, i cui eredi hanno costruito il partito Herut e i liberali che avversavano i laburisti. E c’è il versante religioso che da ultimo diventa nazionalista.

Tra questi modelli, quale prevale?

Il sogno sionista di cui parlava Herzl è stato realizzato. Da 75 anni esiste uno Stato sovrano degli ebrei ed è un fatto compiuto. Ci sono 5 generazioni di persone che parlano l’ebraico. Perfino la storia della Diaspora è stata rivalutata. Ecco perché a me sembra che lo scontro in atto non riguarda il modo di essere sionisti ma una ridefinizione del concetto di identità israeliana. La piazza che protesta invoca un’identità di stampo costituzionale e non solo ebraico, e lo può fare perché è dato per scontato che Israele è lo Stato degli ebrei.

Come giudichi le mosse di Netanyahu?

da circa 4 mesi si susseguono le proteste che coinvolgono centinaia di migliaia di cittadini israeliani contro la riforma della giustizia del governo Netanyahu

Una premessa: in passato Netanyahu era il garante della stabilità e di un certo benessere dei ceti medi e medio-bassi. Ed è, a mio avviso, là il segreto del suo consenso, e non nella retorica nazionalista, come invece spesso si dice. Penso dunque che Netanyahu sia stato poco intelligente a mettersi nelle mani dei coloni e dei fondamentalisti religiosi, che non erano il suo elettorato, cosicché oggi ne è diventato ostaggio, costretto probabilmente dalle sue vicende giudiziarie. Considero questo un grave errore politico.

Tu evidenzi anche la differenza di linguaggi che oggi esistono in Israele: c’è quello liberale, laico, di destra, religioso. È possibile trovare un comune denominatore in cui riconoscersi?

Rimando al discorso delle quattro tribù di Reuven Rivlin (laica, religiosa, nazionalista e araba, n.d.r.). Forse sono anche più di quattro. Da democratico penso che in tutti gli Stati democratici ciò che è in comune è la Costituzione. Dopodiché va anche considerato che ci sono specificità ebraiche.

A cosa ti riferisci?

L’asino del messia, uno dei libri più recenti di Goldkorn

La moltiplicazione delle forme di educazione, per esempio, è un’eredità del rapporto tra ebraismo e modernità. E sarebbe complicato spiegarlo qui. In ogni modo, nello yishuv, prima della nascita dello Stato, ogni corrente dell’ebraismo aveva un suo sistema di educazione e così è rimasta la situazione nello Stato. Ma importante è trovare un punto comune. Il movimento di protesta in fondo sostiene questo: no taxation without representation.  L’altra specificità di Israele è poi un certo spirito anarchico. L’ebraismo mal sopporta un re, la monarchia non è ben vista. In fondo, la Torah è stata data a tutto il popolo, non solo a Mosè. Noi non abbiamo un papa, ogni ebreo è chiamato a interpretare il testo. È per questo che credo che a moltissimi israeliani non piaccia il modo con cui Netanyahu rappresenta sé stesso. A prescindere dalle accuse per le quali si sta difendendo in tribunale, gli israeliani non amano lo sfarzo, l’atmosfera da corte reale.

Questo spirito anarchico che tu poni alla base della nascita di Israele non è un difetto? Stato e anarchismo non sono in contraddizione?

Forse, ma questa è la contraddizione con cui Israele vive, e la trovo bellissima, anche se alla vena anarchica occorre dare una cornice istituzionale; è di questo che oggi si sta parlando.

Nazionalismo e fondamentalismo religioso rischiano di soffocare la parte anarchica e liberale dello Stato ebraico?

Israele organizza ogni anno uno dei più partecipati gay pride del mondo

Se ne parla in relazione al trend demografico. Ma non credo che il trend demografico porterà alla crescita del fondamentalismo. La modernità tocca e trasforma tutti, anche chi cerca di scansarla.

Dunque, come finirà la crisi in corso?

Vedo una società viva e in perenne evoluzione.

Non sei troppo ottimista?

No. Sono semplicemente ottimista.

 

 

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