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manifestazione contro Israele

Una sinistra così come la immaginiamo noi, cresciuti nel Novecento, oggi non esiste più. La svolta del 1988-1989, cui prima accennavo e con la quale si chiude il mio libro, ha aperto una fase lunga e non ancora conclusa durante la quale quello che restava del PCI non ha prodotto una scelta definitiva fra un partito laburista e socialdemocratico e la conservazione di punte massimaliste e rivoluzionarie. Tutto nasce sempre dal post 1989 e si protende fino a Bertinotti sì o Bertinotti no, Fratoianni sì o Fratoianni no. Molte cose dentro la galassia del PD sono cambiate, anche rispetto a Israele. Se ripenso al clima del 1982 devo riconoscere che la conoscenza della società israeliana ha fatto moltissimi passi avanti, grazie al cinema e prima della letteratura. E tiro un respiro di sollievo. Yehoshua ha avuto livelli di popolarità in Italia impensabili nel resto d’Europa. Ciò nonostante le frequenti cadute di esponenti soprattutto giovani durante l’attuale campagna elettorale fanno riflettere, ma temo siano scivoloni imputabili, più che ad antisemitismo, alla catastrofe della scuola italiana nell’ultimo ventennio (rinvio in proposito agli articoli lucidissimi che alla vigilia del suo pensionamento Marco Lodoli ha scritto quest’anno sul “Foglio”). Riesce comunque difficile per me rispondere a questa tua domanda, perché “sinistra” è oggi una categoria vaga e al tempo stesso poliedrica e problematica.

Abraham B. Yehoshua

Torniamo al mondo ebraico italiano. Ti soffermi sulla tentazione costante di declinare l’essere ebrei come un invito alla separazione. È interessante perché ad esempio anche in seno all’Ucei, che rappresenta le varie anime dell’ebraismo italiano, questa posizione (del tutto legittima) è a mio avviso tuttora sostenuta da alcuni. Il nostro obiettivo è davvero questo: separarsi dal resto della società? E se no, come garantire che un’apertura non si trasformi in una perdita di identità?

Qui metti il dito nella ferita; per spiegarmi bene devi concedermi un po’ di spazio. Il punto della “separazione” è il più delicato, su cui il mio punto di vista può suscitare scandalo (ma non dovrebbe essere così). Nel libro io cerco di dimostrare che “la separazione” dei due mondi fosse un obiettivo comune sia del fascismo persecutore sia degli ebrei perseguitati. A partire dal settembre 1938, proprio dalla Dichiarazione sulla razza il discorso pubblico sulla questione ebraica si concentrò sul concetto di “separazione” «[Le nuove misure], separando nettamente i rappresentanti della razza ebraica dalle funzioni dello Stato e dal corpo e dalla vita della Nazione italiana, non importano alcuno spirito offensivo e alcuna pratica persecutoria». Si potrebbero riportare altri passaggi di eguale tenore, tratti dagli editoriali della «Difesa della Razza», dai libri di propaganda. Tutti si attestano sulla nuova linea del fronte: la “separazione”. I nuovi provvedimenti mirano a separare i due mondi, a evitare ogni forma di comunicazione fra di loro.

“Separazione” come “persecuzione”, allora?

La parola “separazione” ha una sua lunga storia. Due mondi, due corpi separati. Un’idea di per sé nient’affatto originale. Contrariamente a quanto spesso si scrive e si legge, “separazione” non è però sinonimo di “persecuzione”. Vantandosi di plasmare l’umanità secondo criteri di avanguardia e modernità, in quelle settimane Mussolini altro non faceva che compiere un’operazione passatista. Sarebbe più corretto definire il periodo che va dall’ottobre 1938 all’8 settembre 1943 come il periodo della separazione, perché se, all’esterno, i diritti sono tutti rapidamente e crudelmente cancellati, nella vita interna delle Comunità, rimangono in vigore le norme esistenti e la libertà di culto tutelata. Alle persone comuni il disegno pare indecifrabile, ma solo fino a un certo punto minaccioso. Il disegno diventerà chiaro nella fase successiva della persecuzione delle vite.

Restiamo ancora su questa idea della distinzione, allora. Quando nasce?

Ghetto di roma cartina
L’antica area del ghetto, evidenziata in giallo, nella pianta di Roma di Antonio Tempesta (1593)

Il processo di “distinzione” dei due mondi non è un’invenzione del Duce: affonda le sue radici nell’Ottocento e consegue all’abbattimento dei cancelli del ghetto. Il vocabolario della “separazione”, che la stampa di regime elogia nel 1938 come un atto rivoluzionario, vanta una tradizione lunga circa un secolo. La discussione fra chi operava per abbattere ogni separazione e chi invece rimpiangeva l’isolamento antico nasce nell’Ottocento e si rafforza nell’età giolittiana. La “separazione” si consolida in dialettica con il lessico opposto dei sostenitori, ebrei e non ebrei, dello Stato liberale, che con fatica propugnarono un diverso cammino verso la democrazia: quello dell’”unità”, auspicata, non in modo astratto, ma con rivendicazioni concrete dai «grandi vecchi» dell’Ottocento: Massarani, Castelli, Artom, Cantoni, Ascoli. La loro speranza in un più sereno domani si fondava sul ripudio di ogni distinzione, non per tiepido attaccamento alla propria identità, ma per l’incubo di un ritorno alle vecchie restrizioni. Incubo spaventoso, ma a quanto si vede, analizzando il periodo della «separazione» avviato dalla politica del Duce nel 1938, non infondato. L’umiliazione di una vita da reclusi si era conservata nella memoria dei giovani che avevano combattuto nelle guerre d’indipendenza e aveva generato la paura di una battuta d’arresto, di un ritorno al passato. Tali sentimenti, tuttavia, furono presto osteggiati: molti giovani già prima del fascismo pensano che di fronte ai processi di assimilazione il ritorno alla «separazione» fosse il minore dei mali. Era follia pensare a un ritorno alla reclusione fisica, ma forte diventa con il trascorrere degli anni il desiderio di sognare una visione della vita ebraica slegata dal resto del tessuto sociale.

Primo Levi (1919-1987)

Certo, sul concetto di «separazione» bisogna fare dei distinguo e non confondere la separazione che è tema fondante dell’identità ebraica, dai tempi biblici (Lev. 20,24; Deut 7,6 e 14, 2) con il principio giuridico che deve ispirare un ordinamento democratico. Sarebbe puerile confondere i due livelli della discussione. Alla fine di ogni Shabbat la cerimonia della havdalà, che significa appunto «separazione», prevede che si reciti una benedizione a Colui «che separa tra sacro e profano, tra la luce e il buio, tra Israele e i popoli, tra il settimo giorno e i sei giorni della creazione». I lettori di Se questo è un uomo di Primo Levi sanno bene che cosa significhi quella separazione per la famiglia di ebrei ortodossi tripolini, i Gattegno. Cosa significhi, sul piano giuridico, la separazione è un tema naturalmente reso più complesso dal periodo storico in cui gli ebrei si trovarono ad affrontarlo, cioè nell’età dei nazionalismi.

qui e sotto: il lavoro sull’Orlando furioso citato da Cavaglion

Nell’emancipazione ottocentesca il problema diventa giuridico: c’era chi la considerava un ostacolo alla difesa contro il ritorno dell’antisemitismo e voleva abolirla del tutto e chi le dava un senso esclusivamente religioso spesso sfociante in una componente nazionale. Le regole della halakhà, in particolare quelle sull’organizzazione comunitaria, vanno contro ogni smembramento, ma dopo l’emancipazione confliggono con quelle della moderna democrazia di uno stato liberale: il problema, direi meglio l’urgenza era politica, non accorgersene in tempo, nell’età dei trionfanti nazionalismi (anche degli albori sionistici) significava entrare in un gioco tragicamente pericoloso, tanto più quando si arrivò a chiedere allo Stato, a quello Stato, cioè a Mussolini, di essere lui l’esecutore della halakhà. La “separazione”, di cui i giornali parlano nell’autunno del 1938 a commento della Dichiarazione sulla razza, è figlia di una paura antica. Mutano i protagonisti, la sostanza rimane invariata. Chi come Isacco Artom, Alessandro D’Ancona aveva con forza combattuto ogni forma di separazione, se fosse stato ancora vivo, leggendo prima la legge Falco poi la Dichiarazione che la teneva in vigore nel 1938, avrebbe avuto buon gioco a dire: «Inutile avere ragione».

E oggi?

Vengo, per concludere, all’oggi. Il principio cattaneano della solidarietà delle culture mi sembra ancora valido. La separazione si abbatte soltanto con la conoscenza reciproca. Maggiore è la conoscenza reciproca, minore il pericolo che la separazione diventi principio di legge dello Stato. Nell’Ottocento questo ruolo di comunicazione vitale era svolto dalle traduzioni: in italiano delle Scritture, in ebraico dei classici della letteratura italiana (Dante e la Commedia innanzitutto). Voglio fare ai lettori di questo tuo portale un dono; un articolo che mi è stato segnalato pochi giorni fa da un caro amico, Ariel Viterbo, che sta lavorando alla biografia di Yoseph Colombo. Figlia di quella battaglia contro ogni separazione è la sua traduzione in ebraico di un canto dell’Orlando furioso di Ariosto. I mondi cessano di essere separati quando si mettono nella condizione di conoscersi e di apprezzarsi, ciascuno valorizzando sé stesso. Solo così si può rompere l’odioso dilemma fra l’apologia e la diffamazione.

In conclusione, vorrei che ci salutassimo con un’ultima domanda. All’inizio del tuo volume citi in modo molto delicato l’ultimo insegnamento di tuo padre: “È la vita che fa l’ebreo”. Non voglio certo sollecitarti un bilancio personale (molti altri scritti ci attendiamo!), ma chiederti, se vuoi, un giudizio sulla vita che attende l’ebraismo italiano, o meglio: su quella che dovremmo cercare di vivere.

Come osservi tu, questo mio libro temo sia il mio canto del cigno (o dell’oca, come preferiva dire Formiggini). Ho fatto quello che si dovrebbe fare una volta sola nella vita: tracciare un bilancio del lavoro fatto, rendendo omaggio ai Maestri. Di qui la concessione, una piccola concezione all’autobiografia, al ricordo di quella frase di mio Padre, nell’introduzione e nel saggio di apertura. All’ebraismo italiano non posso formulare altro augurio che non sia quello di incrementare lo studio della propria storia, in modo libero e slegato dai condizionamenti della vita esteriore. Più investimenti nelle biblioteche, nelle iniziative di ricerca archivistica, nell’editoria, ma soprattutto difesa strenua di quella terza via che più mi sta a cuore e che ho appreso dal mio maestro Arnaldo Momigliano. Diciamo meglio, con parole sue: un’esplorazione di quelle vie intermedie collocate “tra l’accettazione pura e semplice di una fede riconosciuta e l’indifferenza pura e semplice”. Affetto filiale per la tradizione dei Padri, ma anche libero pensiero sciolto dalla pura e fredda conservazione dell’esistente. L’ebraismo a me sembra fatto apposta per soccorrere “chi vive sapendo di dover morire”. Per chi “vivendo vuole anche rendersi conto della vita altrui – comprese le piante e gli animali, e tutto ciò che una volta si chiamava la bellezza del creato – né Condorcet né Marx valgono molto”.

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Una risposta

  1. Un’intervista che non è semplicemente tale: è il modo migliore sul piano storiografico e culturale di introdursi nel denso reticolo esistenziale, prima ancora che storico-socio-politico, in cui si è profuso in maniera intensa il discorso ricostruttivo di Alberto Cavaglion. Le domande di Boni snodano infatti gli aspetti essenziali da fococalizzare per cogliere le vicissitudini profonde dei rapporti tra ebraismo e società italiana nelle varie fasi dalle due emancipazioni al fascismo fino ad oggi. E le risposte tutte donano una retrospettiva di lettura profondamente e circostanziatamente innovativa delle oscillazioni stesse del senso di tale rapporto. Dove però il lemma ‘separazione’ funge da vero e proprio volano critico, per pervenire a comprendere modalità distinte del suo prodursi, con alla fine comunque il richiamo di un superamento da alimentare e rinforzare, nel senso indicato da Arnaldo Momigliano. Una intervista da diffondere non solo tra gli storici e gli studiosi ma anche tra i giovani studenti, che intendono diradare le tante nebbie che ancora oscurano una parte estremamente rilevante della nostra storia: grazie a Massimiliano Boni e al Professor Caviglione

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