Il pendolo della storia non finisce mai di oscillare
Alberto Cavaglion, nel suo ultimo libro, descrive la parabola dell’ebraismo italiano nella storia del nostro paese, che alla vigilia del voto forse si prepara a scrivere una nuova pagina
Alberto, ho trovato di grande interesse nel tuo ultimo lavoro (“La misura dell’inatteso. Ebraismo e cultura italiana, 1815–1998”, Viella 2022) la lettura che fai del rapporto tra ebraismo e società italiana. Evidenzi infatti una circolarità, un rapporto pendolare, per cui gli ebrei passano dal “dritto” al “torto”: prima i ghetti, poi la libertà napoleonica, poi la restaurazione, poi l’emancipazione, poi il fascismo e le leggi razziali, ora la Repubblica. È una lettura che turba. In Italia ha cessato di ondeggiare sugli ebrei il pendolo della storia?
La circolarità, o meglio il rapporto pendolare fra ebraismo e società italiana che ho analizzato nel libro, abbraccia un lungo periodo (1815-1988) segnato da alcuni drastici cambiamenti (1848, 1930, 1943-1945). L’ultimo contraccolpo è quello avvenuto nel 1988-1989, che si prolunga ai nostri giorni, ma, per nostra fortuna, non ha le caratteristiche epocali dei precedenti. Ne parlo nel libro perché testimone diretto di quel momento. Nel giro di pochi mesi gli italiani (mondo universitario incluso) hanno “scoperto” il 1938, hanno iniziato a definire Primo Levi “un classico” dopo averlo ignorato mentre era in vita, hanno iniziato a invitare nei media i superstiti dei Lager, hanno prodotto film sulle leggi razziali, incluso Benigni. Non ho un buon ricordo di quella svolta, temo la presenza di un lato oscuro: nella parte finale del libro cerco di spiegare perché secondo me quella improvvisa “scoperta” sia stata strumentalizzata a fini politici (ascesa di Berlusconi, svolta di Fiuggi) e dunque penso sia una svolta che si fonda su basi fragili, che non lasciano bene sperare per il futuro. Mi auguro di non sbagliare.
La seconda domanda riguarda direttamente noi. Almeno fin dall’Unità, tu scrivi, la dirigenza ebraica italiana è stata piuttosto miope. Ha preferito arroccandosi su posizioni conservatrici, un po’ elitarie, non in grado di interpretare la società italiana del tempo. E così il fascismo viene come minimo sottovalutato. Oggi, secondo te, la dirigenza dell’ebraismo italiano è immune dalla miopia?
Mi appassiona la storia degli ebrei in Italia, ho tuttavia scarsa dimestichezza con il mondo istituzionale. Difendo come meglio posso la distinzione che esiste fra storiografia e politica in mezzo a tanti che confondono le due attività. Vedo con timore quando i due mestieri di sovrappongono e tanto più mi spaventa l’idea di storici che corrono in soccorso della politica. Non mi illudo (non ho la presunzione) di saper togliere voti alla Meloni con i miei libri. La mia è da sempre una posizione eccentrica, legata all’anomalo percorso della mia formazione che racconto nell’introduzione: rischierei di dare giudizi ingiusti. Tengo da dieci anni una rubrica sul portale dell’Ucei, godendo di una totale libertà, ma vivo troppo lontano dalle istituzioni per esprimere giudizi dotati di un minimo valore. Quello che mi sembra si possa dire è che, ieri come oggi, spesso le intelligenze migliori, più creative, le ritrovo fuori delle istituzioni, le vedo in azione solitaria. Il caso del sionismo delle origini è stato esemplare e dovrebbe servire di lezione: nel saggio che ho dedicato a questo tema ho osservato la distanza abissale che ha separato il sionismo-istituzione dal sionismo-movimento, composto per lo più di personaggi anomali, visionari, sognatori senza alcun legame con i vertici.
Vengo adesso al rapporto tra fascismo ed ebraismo. Tu scrivi che gli ebrei antifascisti furono tutti estranei alle istituzioni ebraiche, e che rappresentano “una minoranza della minoranza”; al contrario, la dirigenza ebraica non seppe cogliere i rischi del regime, e molti ebrei di primo piano furono vicini al fascismo. E oggi? Ritieni che sussista, in alcuni, questa scarsa capacità di leggere le dinamiche politiche e sociali in corso? Ad esempio, per essere più chiari: l’ebraismo italiano oggi è consapevole dei rischi per l’Europa, per la tenuta della democrazia liberale e dello Stato di diritto?
Sono assolutamente contrario ad ogni paragone fra la crisi politica attuale e la situazione in cui l’ebraismo italiano venne a trovarsi nell’arco di tempo che lega la legge del 1930 e la campagna razziale di otto anni dopo. Nel libro mi soffermo sulle dimensioni tragiche di quelle scelte, che perdurano oltre il 1945, ma la situazione di oggi, pur essendo figlia di quelle lacerazioni, a me sembra completamente diversa; ogni paragone rischia di essere fuorviante. Più che di miopia parlerei di una scarsa volontà di guardare al passato oltrepassando le colonne d’Ercole del 1938. Manca una reale volontà di comprendere l’età liberale e individuare il punto debole dei nostri avi, incapaci di comprendere quanto importante fosse il principio della libertà religiosa e il dovere di tenere separata dallo Stato la propria appartenenza. Oggi il verbo che si usa di più è “sensibilizzare” e tutto ruota intorno alla catastrofe del 1938. Manca la volontà, la determinazione di capire come e perché la difesa della libertà religiosa non sia stata messa al primo punto, fino al punto di dimenticarsene e arrivare a stringere un patto con Mussolini (nel libro mi soffermo ad analizzare il dato di cui nessuno aveva finora parlato: le disposizioni razziali del 1938 non cancellarono la legge del 1930 ovvero quello che Mussolini cinicamente dopo il 1938 continuerà a definire “il libero esercizio del culto”). Parlerei dunque meglio di una miopia storiografica: mi piacerebbe che sul periodo anteriore al fascismo si indagasse di più, non per “sensibilizzare” le generazioni più giovani, ma per comprendere i fenomeni storici nella loro profondità. Una mancanza di consapevolezza politica ha riguardato gli ebrei fino alla Grande Guerra: questo spiega il così alto consenso al regime.
In particolare, scrivi che Mussolini sugli ebrei è fino alla fine ondivago: sei perciò in disaccordo con la costruzione del Mussolini razzista dalla prima ora? È comunque una ricostruzione interessante, se applicata oggi. Secondo te, nelle varie destre politiche attuali, l’antisemitismo è scomparso, o rimangono posizioni ondivaghe?
L’antisemitismo è ben presente in molti tratti della politica e della società italiana, non solo di destra. Lo si è visto durante la pandemia, lo si vede nei social, ma come dicevo prima preferirei evitare paragoni azzardati. Mussolini era un dittatore spregiudicato, saldo nell’esercizio del potere, disposto a conservarlo a qualsiasi costo, privo di qualsiasi cultura politica (ignorava i classici dell’antisemitismo ottocentesco, soffriva complessi d’inferiorità verso chi, per es. Evola, quei libri francesi e tedeschi conosceva molto bene). Nei confronti degli ebrei e del sionismo rincorreva tutto e tutti pur di mantenersi in sella, una serie di operazioni ciniche le sue: si alternano nelle sue posizioni, fino alla vigilia del 1938, comportamenti oscillanti. Secondo me – ma questo è un punto di discussione aperta (che avevo già avanzato vent’anni fa ma non ha mai trovato spazio di una riflessione pacata) – nel 1938, dichiarando “libero” l’esercizio del culto e non cancellando la legge del 1930, il Duce raggiunge l’apice del cinismo, secondo una modalità tipica dei dittatori quando rinfacciano alle loro vittime il ricordo del dialogo costruttivo avuto con loro. Il cinismo e l’ipocrisia producono spesso risultati più efferati della ostilità dichiarata e sbandierata. Questa è la triste lezione che il fascismo ha lasciato agli ebrei italiani.
E la sinistra? Scrivi che ha sempre sottovalutato la questione ebraica. In Italia questo pregiudizio riaffiora, anche di recente, mentre in passato (penso al 1967 e al 1982) era addirittura manifesto. Come valuti oggi il rapporto tra la sinistra e il mondo ebraico, e Israele?
Una risposta
Un’intervista che non è semplicemente tale: è il modo migliore sul piano storiografico e culturale di introdursi nel denso reticolo esistenziale, prima ancora che storico-socio-politico, in cui si è profuso in maniera intensa il discorso ricostruttivo di Alberto Cavaglion. Le domande di Boni snodano infatti gli aspetti essenziali da fococalizzare per cogliere le vicissitudini profonde dei rapporti tra ebraismo e società italiana nelle varie fasi dalle due emancipazioni al fascismo fino ad oggi. E le risposte tutte donano una retrospettiva di lettura profondamente e circostanziatamente innovativa delle oscillazioni stesse del senso di tale rapporto. Dove però il lemma ‘separazione’ funge da vero e proprio volano critico, per pervenire a comprendere modalità distinte del suo prodursi, con alla fine comunque il richiamo di un superamento da alimentare e rinforzare, nel senso indicato da Arnaldo Momigliano. Una intervista da diffondere non solo tra gli storici e gli studiosi ma anche tra i giovani studenti, che intendono diradare le tante nebbie che ancora oscurano una parte estremamente rilevante della nostra storia: grazie a Massimiliano Boni e al Professor Caviglione