La comunità, per come l’ho vista io, superata la fase di ricostruzione del dopoguerra in cui si era cercato di progettare le cose indispensabili – la scuola, l’amministrazione, e nel 1967 il giornale – era ancora priva di una programmazione di largo respiro. In quegli anni si stava però progettando un Centro di consulenza familiare, il Centro culturale e poi il liceo ebraico; erano questi gli obiettivi di una parte della dirigenza, ricordo in particolare Enrico Modigliani, Aldo Terracina, Sergio Tagliacozzo, sotto la presidenza di Fernando Piperno. Da parte di questo gruppo, che insieme ai promotori appoggiò il Centro fino dagli inizi, c’era l’idea di sprovincializzare la comunità. La mia impressione infatti era quella di una comunità molto ripiegata su sé stessa, senza respiro nazionale e internazionale, mentre questa dirigenza, che aveva contatti con il Joint, voleva servizi più moderni e adeguati. Certo, non tutti erano d’accordo, c’erano degli scettici, espressione di una posizione più conservatrice; ma alla fine, questa linea fu quella che passò.
E così nacque il Centro. Mi parli degli inizi?
Bisognava progettare un servizio del tutto nuovo. Dovevamo dare alla programmazione un senso meno sporadico, destinarla cioè a durare nel tempo, senza basarsi solo sull’esperienza di volontari. Dovevamo creare un centro dentro la comunità, rafforzando l’identità ebraica, ma aperto anche all’esterno, che fosse un polo di animazione culturale, oggi si direbbe di valorizzazione e promozione; ma anche un centro di documentazione, con una biblioteca e del materiale didattico. Fummo i primi in Europa a fare questo, perché c’erano solo i centri di documentazione e quelli di risorse, legati all’Agenzia ebraica, che fornivano materiale ai movimenti giovanili, ma mancava un centro di propulsione culturale. Se ci riuscimmo, fu grazie anche alla collaborazione di molti volontari. Natan Orvieto fu a capo della commissione che mi sostenne per molti anni.
E la comunità, come reagì a questa novità?
Da subito con la commissione mi resi conto che c’erano molte esigenze a partire da un lavoro di base.
Che intendi?
Venivano persone che chiedevano informazioni su cosa fosse l’halakhà, cosa il midrash. Occorreva quindi partire dall’alfabetizzazione culturale, e colmare delle grosse lacune. Ma non solo. Il Centro è stato tra i primi a Roma in occasione del referendum a parlare di aborto, per mezzo di esperti, ovviamente in una prospettiva ebraica. E così abbiamo fatto corsi di halakhà, kabbalà, midrashim; e poi abbiamo riscoperto i riti, d’accordo con rav Toaff con cui abbiamo recuperato la tradizione della derashà di Shabbat teshuvà. Con l’aiuto degli amici rabbini Riccardo Di Segni, Mino Bahbout e Alberto Piattelli abbiamo ripristinato l’uso del seder di Tubish’vat e di Rosh ha Shanà e successivamente creato la tefillà di Kippur con spiegazioni e commenti. Una svolta è stata poi la mostra del 1975.
Di che si tratta?
A palazzo Reale di Milano c’era stata la mostra del CDEC sul contributo degli ebrei alla Resistenza e sulla deportazione, e volli portarla a Roma. Dal CDEC ottenni subito l’assenso; pensavo così che avrei trovato porte aperte a Roma, invece in comunità mi dissero “Signorina Migliau queste cose si fanno solo in nord Italia, qui è difficile”.
E tu?
Non mi sono rassegnata. Ho chiamato amici della FGEI, e ho allestito la mostra con loro. All’inaugurazione vennero Primo Levi, Ferruccio Parri e Piero Caleffi. La mostra la organizzammo a sant’Egidio, oggi sede del Museo di Roma. A quel punto la dirigenza comunitaria si convinse che il Centro di cultura qualche utilità ce l’avesse.
Perché questa mostra è stata così importante?
Non avevo pensato prima che m’avrebbe suggerito un metodo di lavoro. Durante la mostra, infatti, vennero ebrei romani portandomi documenti e fotografie che non erano mai state esposte e di cui il CDEC non era informato; allora pensai a un metodo di lavoro, che chiamai della “ricerca partecipata”; in altre parole, il Centro avrebbe dovuto raccogliere documentazione e testimonianze tra il pubblico comunitario, per creare poi degli eventi. E così è successo. Da questo metodo di ricerca tra storia e memoria nacque il questionario, la mostra e il convegno “I ragazzi del 1938”, realizzato nel 1988. Insieme a Micaela Procaccia, con cui avevo lavorato alla ricostruzione storica, l’anno dopo abbiamo fatto una relazione al convegno “Italia judaica” degli Archivi di Stato. Poi in base alle testimonianze raccolte nel 1995 c’è stato “Racconta il tuo Schindler”. In una cerimonia in Campidoglio rilasciammo 300 attestati di benemerenza a chi aveva salvato ebrei durante la guerra. Questo lavoro su Roma è stato successivamente utilizzato dal CDEC e dalla Shoah Foundation.
Domani, con la seconda parte, Bice Migliau ci parlerà degli anni della sua direzione al Centro di cultura ebraica, dei rapporti con rav Toaff e rav Di Segni, nonchè sul futuro del Centro
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Miriam Meghnagi