Salvaguardiamo l’autonomia e la tradizione dell’ebraismo italiano
Rav Eliezer Shai Di Martino, da anni al servizio delle comunità della diaspora, indica le caratteristiche da preservare del modello ebraico italiano
Rav Di Martino, ci parla un po’ di lei?
Sono nato Roma 43 anni fa, ma la mia famiglia è in parte di origine napoletana e in parte austriaca. Mia moglie è messicana, ma ci siamo conosciuti in Israele. Abbiamo cinque figli, di cui due studiano in Israele. Dal 2017 sono il rabbino Capo di Losanna.
E prima, dove ha svolto il suo servizio?
Ho preso la Semichà nel 2006 in Israele, poi sono stato 8 anni a capo della comunità portoghese di Lisbona, in seguito ho avuto una piccola esperienza di 6 mesi in Colombia e quindi a Trieste, dove purtroppo sono rimasto troppo poco, solo 2 anni. Per ragioni familiari, nostro malgrado, ho infatti lasciato Trieste e ho preso un anno sabbatico, durante il quale ho prestato a tempo parziale la mia attività per una piccola comunità in Messico, fino a che sono poi sono arrivato a Losanna.
Ci parla della sua attuale comunità?
A Losanna vive una comunità di circa 2.000 ebrei, cui s’aggiungono gli studenti delle tre università, che possono arrivare ad alcune centinaia; in una città di 250.000 abitanti, non è poco. Qui abbiamo tante cose, a differenza di molte comunità italiane: abbiamo miniam tutti giorni, un ristorante kasher, e una scuola elementare ebraica. Avevamo anche una casa di riposo, poi siccome il benessere delle persone fa preferire altre soluzioni, è stata chiusa. La comunità è in origine askenazita. Qui gli ebrei provengono dall’Alsazia da circa 300 anni, come commercianti di bestiame. Hanno fondato le comunità di Losanna, Basilea e Zurigo. Poi ci sono state varie ondate di emigrazione, soprattuto nella Svizzera francofona. Prima della prima guerra mondiale sono arrivati gli ebrei dell’impero ottomano, come a Salonicco, perché lì andavano alla scuola francese. Dopo, nel periodo di Nasser [anni 50, n.d.r.], sono arrivati gli ebrei egiziani in grande quantità, passando per Milano. Avevano infatti ricevuto la cittadinanza italiana grazie alla perdita dei registri del consolato italiano ad Alessandria, e ottenuto il passaporto sono partiti. Inoltre ci sono anche gli ebrei polacchi, discendenti di quelli che sono riusciti venire qua in fuga dal nazismo.
Che caratteri ha l’ebreo svizzero?
Direi che è “Jekke”. Jekke è il termine per indicare quegli ebrei tedeschi che sono askenaziti ma che non parlando yiddish. Ashkenaziti occidentali, li potremo chiamare. Sono germanofoni.
Come ha deciso di diventare rabbino?
La mia famiglia di origine non era osservante. Però mia madre ha lavorato 20 anni in El Al, andavamo spesso in Israele, e me ne sono innamorato. A 19 anni sono andato lì, fino al 2006. Ho fatto l’Ulpan, poi la yeshivà midrash sefaradì, che preparava rabbini per la diaspora. Dopo ho fatto corso post rabbinico, all’istituto Amiel Strauss, istituto che prepara rabbini di tendenza modern orthodox, e grazie a loro ho cominciato la mia carriera in diaspora.
Quali sono i suoi rapporti con l’Italia?
Ho sempre mantenuto il contatto con l’Italia, dove vengo due volte l’anno; a dire la verità, più il tempo passa, e più mi sento italiano in senso ebraico.
Che intende dire?
Penso che, a parte l’Asia, sia per lavoro che per turismo ho fatto il giro del mondo. E credo che l’Italia sia l’unico paese che mantiene uno standard sì di ortodossia, ma al tempo stesso che sia anche intellettualmente vibrante. Intendo dire che è comune che i rabbini italiani abbiano una formazione universitaria, che altre correnti dell’ebraismo invece non hanno. Quello italiano è dunque un modello a priori, perché fatto di rabbini preparati, che hanno studiato.
È un modello in pericolo?
Temo il rischio di vedere aumentare la tendenza ad abbandonarlo, a causa della globalizzazione dell’ebraismo.
Cioè?
Adesso siamo tutti aperti al mondo, e ci sono ingerenze a volte molto negative. Secondo me dovremmo combattere la tendenza a un “ebraismo Coca-cola”, ossia un appiattimento culturale su modelli che impoveriscono quello italiano, e che provengono sia dal mondo americano che israeliano. Ritengo tali modelli non adeguati alla realtà italiana.
Alcuni dei nostri interlocutori hanno espresso preoccupazione per il rischio di una scarsa autonomia dl rabbinato italiano rispetto a quello israeliano, intendo dire delle autorità che rappresentano le istituzioni rabbiniche israeliane. Anche lei vede questo pericolo?
È un tema controverso. Io non sono favorevole a un modello in cui il rabbinato italiano “subisca” queste direttive, e penso che gli ebraismi della diaspora abbiano tutti le spalle abbastanza larghe per fare riferimento alle loro fonti, senza per questo diventare provinciali, ma mantenendo l’orgoglio della propria identità.
Quali sono i maestri italiani cui lei fa riferimento?
Penso innanzitutto a Elia Benamozegh, l’esempio forse più importante. Un po’ meno Shadal, perché io faccio molto riferimento alla corrente sefardita occidentale, anche se mi piacciono molto alcune figure degli ashkenaziti. Ci sono maestri che ho conosciuto studiando a Trieste molto interessanti, come ad esempio Yitzhak Shmuel Regio, del XIX secolo.
I maestri italiani sono studiati all’estero?
Dipende. Certo l’ebraismo ortodosso più illuminato conosce e studia i rabbini italiani. Penso alla Yeshivà University, alla Università di Bar Ilan, o alla scuola fondata da rav Mark Angel, rabbino della comunità ispano americana di New York per 40 anni, e non c’è dubbio che i sefarditi portoghesi a Londra, Filadelfia, o New York studino i maestri italiani. Invece nel mondo Haredi l’ebraismo italiano è ignorato. Ricordo che in yeshivà si annullavano certe autorità italiane perché ritratte senza kippà, come Shadal.
In definitiva, quali dovrebbero essere secondo lei le priorità dell’ebraismo italiano?
So che qualsia cosa dico potrò essere criticato. Comunque, penso che occorra fare una specie di riflessione interna, e cercare di salvaguardare la nostra tradizione e di essere più autonomi rispetto al resto del mondo, soprattutto rispetto al rabbinato israeliano.
Questa è la diciottesima tappa del nostro viaggio nel rabbinato italiano.
Per leggere le altre tappe del viaggio: Rav Arbib, Rav Della Rocca, Rav Momigliano (qui e qui), Rav Spagnoletto, Rav Dayan (qui e qui), Rav Di Porto, Rav G. Piperno, Rav Sermoneta, Rav Somekh, Rav Hazan, Rav Punturello, Rav Caro, Rav U. Piperno, Rav Lazar, Rav Finzi, Rav Canarutto, e Rav Ascoli
2 risposte
Una persona di grande levatura e coraggio …,
Quante esperienze …!!!
Punti di vista interessanti…
?
Un saluto a Rav Di Martino e un grazie per le sue ,sempre, interessanti osservazioni. Complimenti a voi per averle esposte.