L’ebraismo italiano? Serve memoria, tradizione, pluralismo e fiducia

Micaela Procaccia, presidente dell’Associazione italiana degli archivisti italiani, racconta di una vita spesa a tutelare la memoria del nostro paese, e di una passione per la storia imparata da una morà speciale  

Dottoressa Procaccia, per cominciare ci fa una breve descrizione della sua lunga carriera?

l’archivio centrale di Stato, all’Eur

Io nasco, professionalmente, con una grande passione per la storia – in particolare medievale –, fin dalla scuola dell’obbligo, e con una forte attenzione familiare ai temi della memoria. Dopo l’università ho frequentato la scuola di paleografia vaticana, dove si costituì un gruppo di ricerca sulla Roma del rinascimento, con il compito di setacciare archivi. Da lì entrai nell’amministrazione degli archivi di Stato, come vincitrice di concorso per funzionario. Andai a Napoli per poco tempo, con la mia prima gravidanza fui spostata a Rieti, poi a Roma. In quegli anni ho lavorato a uno dei primi progetti di informatizzazione di un fondo archivistico, terminato il quale sono andata alla Direzione generale degli archivi di Stato. Successivamente, dopo aver lavorato nel servizio che si occupava del coordinamento delle sovrintendenze archivistiche, dal 2009 andai a Torino, come Soprintendente archivistico del Piemonte e Valle d’Aosta. Infine sono tornata a Roma, dove ho terminato la mia carriera come dirigente del Servizio patrimonio archivistico e contemporaneamente, ad interim, come Sovrintendente della Toscana e poi dell’Archivio centrale dello Stato. Attualmente sono la presidente dell’ANAI, l’associazione nazionale degli archivisti italiani.

Perché è importante un archivio storico?

È fondamentale. Noi parliamo tantissimo di memoria – ora le parlo anche da ebrea – e sappiamo quanto è importante la conoscenza della storia. Eppure, siamo in un momento particolare, in cui la perdita di conoscenza storica e di memoria è evidente, anche nelle manifestazioni di queste settimane. L’antidoto contro le varie forme di negazionismo, riduzionismo e distorsione – in particolare quello della Shoà – finora sono stati i testimoni, ma il dato anagrafico è sempre più incisivo, sebbene ormai molte testimonianze siano state registrate e conservate. Finita l’età dei testimoni, l’unica risposta antidoto contro la perdita o la cancellazione della memoria è che si conservino i documenti. Anche se non si studiano ora, un giorno qualcuno li studierà. Vanno dunque conservati, e conservati bene. Occorre fare in modo che in futuro possano essere studiati. Nella memoria di lunga durata c’è la risposta all’amnesia, alla “memoria del pesce rosso”, quella che dura venti minuti, di cui soffriamo oggi, su cui si innestano i fenomeni che conosciamo: l’antisemitismo, il razzismo, l’autoritarismo., gli orrori della storia.

A che punto è la conservazione della memoria nel nostro paese?

un documento sulle leggi razziali, custodito negli archivi di Stato

Lo Stato, in questo momento, non brilla, perché viviamo una profonda crisi degli archivi. L’ANAI nel 2012 promosse un’iniziativa per segnalare la carenza di personale, io, da allora, per conto della direzione generale, scrissi decine di lettere sul collasso del personale. Oggi gli archivisti in organico sono meno della metà di quelli necessari. In queste condizioni non si riordina il materiale, non si fanno gli inventari, non c’è digitalizzazione, né messa on line dei documenti. Al tempo stesso, nascono iniziative basate molto sul volontariato, in cui i colleghi fanno cose egregie. Un paio d’anni fa, ad esempio, sono stati messi on line gli atti della prefettura di Roma relative alle domande di discriminazione razziale e agli accertamenti di appartenenza alla “razza ebraica”. Un lavoro realizzato nonostante le enormi difficoltà in cui gli archivi di Stato operano.

Prima accennava all’influenza che la sua famiglia ha avuto nella sua formazione.

Sì. Mia madre, Gabriella Procaccia, è stata prima insegnante e poi direttrice della scuola elementare ebraica. Da piccola, invece delle fiabe mi raccontava la storia: quella dello sbarco dei Mille, oppure quella della Resistenza. In casa sono cresciuta con quei miti e poi con le storie familiari, fatte di fughe, nascondigli, persecuzioni. Contrariamente a molti che non avevano voglia di raccontare, mia madre mi ha sempre raccontato queste storie, credo perché quasi sempre, per nostra fortuna, concluse con un lieto fine.

Ci parla un po’ della sua famiglia?

Provengo, da parte di madre, da una tipica famiglia ebraica romana, molto legata alle tradizioni, dove ancora oggi ci si vanta di avere un illustre trisavolo: rav Angelo Mordechai Fornari, nato nel ghetto, e poi impegnato a tutelare l’identità ebraica dopo l’emancipazione. In generale nella mia famiglia l’elemento femminile è preponderante: Rav Fornari lasciò 2 figlie, che a loro volta partorirono 6 femmine e 1 solo maschio, purtroppo deportato. In casa nostra le donne hanno tutte studiato; le mie zie per esempio erano tutte maestre. Non c’erano commercianti, e il diploma era il minimo, meglio ancora la laurea.

E suo padre?

Mio padre è di origine fiorentina, i suoi vennero a Roma dopo la prima guerra mondiale. Era nato da un matrimonio misto, la madre, non ebrea, morì lasciandolo orfano molto presto; lui studiò al Talmud Torà a Firenze. Con le leggi razziali poi le 4 sorelle, vantando una madre non ebrea, riuscirono a farsi arianizzare; mio padre, invece, che dal 1937 per lavoro era in Africa, scrisse dando indicazioni precise: né per lui né per mio fratello si doveva parlare di conversione. Quanto alle zie, non rientrarono più in comunità; tuttavia, ricordo ancora che, pur non credenti qual erano, continuavano a separare carne e latte

A suo avviso la sua identità ebraica l’ha influenzata nella conservazione della memoria?

Certo, io avverto molto la mia identità, e questo ha avuto un effetto anche nel mio lavoro. Per esempio mi sono occupata del portale delle interviste della Shoah Foundation di Steven Spielberg sui testimoni italiani; non è stato certo un caso. Come non è stato un caso il recupero, nel 1993, di 8 casse ritrovate a Merano, contenenti i documenti della Demorazza a Merano. La segnalazione la fece il presidente, Steinhaus, e Tullia Zevi mi chiese di accompagnarla dal capo gabinetto del ministro Ronchey, per ottenere di poterle esaminare e consentirne poi la consultabilità. Feci parte per questo di una commissione con Claudio Pavone, Mario Serio e Lucilla Garofalo. Ho fatto il censimento degli archivi delle comunità ebraiche; da ultimo, mi sono occupata anche della desecretazione dei documenti riservati, voluta dal governo Renzi. Faccio inoltre parte della delegazione dell’IHRA e di un gruppo di lavoro del Ministero della cultura sui beni culturali sottratti agli ebrei in Italia dal 1938 al 1945.

Come ritiene che oggi si affronti in Italia il Giorno della memoria?

Circa 15 anni fa, con Anna Rossi Doria, ne ragionammo, perché ci sarebbe piaciuto capire come i ragazzi percepivano questa giornata. Io credo che occorra distinguere. Se è un giorno isolato dal resto dell’anno, il giorno in cui tutti si lavano la coscienza, corre il rischio di essere quasi controproducente, un fatto rituale. Se invece è un momento di commemorazione, ricordo, impegno ribadito dentro un percorso che copre un intero anno, allora può dare buoni frutti. Oggi ci sono tante iniziative eccellenti nelle scuole, c’è un premio del ministero, e poi molte buone pratiche; ma riflettono davvero un impegno generale? In generale, credo sia fondamentale che nelle scuole si studi il ‘900, e poi che si facciano dei corsi di formazione agli insegnanti. Dobbiamo capire se, dopo tanti anni, l’approccio è ancora quello giusto, perché le generazioni intanto cambiano.

Per concludere, da ebrea e da archivista, cosa le sembra dello stato di salute dell’ebraismo italiano?

Rav Shmuel David Luzzatto (1800-1865), fondatore del Collegio rabbinico italiano

Il nostro ebraismo declina nei numeri. Detto questo, mi sembra, anche per esperienza familiare, che ci sia una ripresa dell’osservanza, e di attenzione per il lato religioso dell’identità ebraica. Tuttavia, se la ripresa forte della tradizione è positiva, vedo anche un possibile rischio: che questo movimento risulti poco coinvolgente per chi non avverte questa necessità. Bisognerebbe allora riuscire a trovare un modo per coinvolgere tutti. Le faccio un esempio. Nell’archivio di Shadal, conservato presso il centro bibliografico dell’Ucei, c’è uno scambio epistolare in cui Luzzatto si raccomanda con il suo interlocutore perché si prenda cura di un ragazzo  molto dotto che si sta allontanando dalla comunità; “in Venezia non viveva da osservante israelita… chi sa che, aiutandolo, non si riuscisse a riavvicinarlo a noi”, scrive  Shadal, raccomandando il giovane a un altro rabbino: “Io gli voglio bene  e assai mi dorrebbe se il Giudaismo dovesse perderlo”.

Dunque è preoccupata?

Da persona che ha studiato l’ebraismo romano – mi sono laureata sul dialetto giudaico-romanesco – ho fiducia nella mia comunità. Nonostante tutto è sempre testardamente sopravvissuta, e sono convinta che sarà così anche in futuro; tuttavia vorrei dire: diamole una mano, e che si studi la nostra tradizione, non solo sul piano religioso ed emotivo, ma anche su quello storico.

Per la serie “Donne del mondo ebraico”, leggi anche:

Edith Bruck

Evelina Meghnagi

Miriam Camerini

Simonetta Della Seta

Celeste Piperno Pavoncello

Nathania Zevi

Rotem Fadlon

Laura Raccah

Myriam Silvera

Silvia Nacamulli

Clotilde Piperno Pontecorvo

Daniela Abravanel

Linda Laura Sabbadini

Lia Levi

Anna Foa

Fiona Diwan

 

 

 

Una risposta

  1. Condivido per il presente e il futuro delle Comunità ebraiche italiane :
    “memoria, tradizione , pluralismo e fiducia “….
    Sottolineo pluralismo … forma di necessaria intelligenza e comprensione della cultura religiosa ebraica

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