L’antisemitismo trova nuova linfa contro la democrazia israeliana
Gadi Luzzatto Voghera, direttore del Centro di documentazione ebraica contemporanea, riflette sugli effetti che la guerra in corso produce su un male perenne: l’antisemitismo
Gadi, cosa ci mostra l’attacco di Hamas del 7 ottobre che già non sapevamo sul terrorismo islamico?
Le novità ci sono. Sono novità innanzitutto operative, cioè Hamas – nonché l’insieme delle altre organizzazioni jihadiste che operano a Gaza – hanno dimostrato di avere un’efficienza militare inattesa, che al tempo stesso ha messo in evidenza le gravi lacune dei sistemi difensivi e delle valutazioni strategiche israeliane. È per questo che l’attacco ha prodotto una situazione emotivamente molto delicata in Israele, anche perché caduto praticamente nell’anniversario nella guerra dello Yom Kippur, in cui, seppure con modalità completamente diverse, il paese si era trovato impreparato. È evidente che il 7 ottobre dimostra come per anni Hamas sia stata pensata dalla politica e forse anche dalla società israeliana come un gruppo islamista che operava a livello locale, quindi non particolarmente pericoloso, al punto tale da poter tralasciare qualsiasi soluzione politica alla questione palestinese, compresa una forma di convivenza anche solo economica e sociale. La questione non è mai stata affrontata, Hamas ha approfittato di questa sottovalutazione e oggi scopriamo che è diventata un anello importante nella catena del fondamentalismo islamista, che colpisce l’intero Occidente. È come se la sconfitta del Daesh/Isis ci avesse convinto che avessimo vinto la guerra contro il terrorismo. Infine questa operazione dimostra una novità storica evidente: l’inedita alleanza fra sciiti e sunniti, cioè fra Iran e Hamas, di cui credo dovremo ancora comprendere i confini.
Per molti l’attacco di Hamas può essere paragonato alla Shoah. E a tuo giudizio?
Certamente l’odio antisemita dimostrato da Hamas è paragonabile a quello nazista della Shoah. E sicuramente c’è un antisemitismo di marca islamista, anche molto diffuso, di cui Hamas si nutre. Però sappiamo che l’antisemitismo non nasce nella Shoah, ma l’ha attraversata e che, dopo di essa, ha continuato ad alimentarsi seguendo altre retoriche fino ai nostri giorni. È per questo che trovo il parallelismo fra la Shoah e l’attacco di Hamas del tutto inopportuno e ingiustificato. Naturalmente si tratta di una tentazione che ha le sue ragioni, perché quella subita il 7 ottobre è una strage che non ha precedenti nella storia di Israele, e tuttavia ritengo che assimilarla o paragonarla alla Shoah sia sbagliato, tant’è che tale accostamento viene rifiutato da tutti gli istituti di ricerca che da decenni contrastano la distorsione dell’Olocausto nel discorso pubblico. Hamas, a parte l’odio verso gli ebrei e la volontà di ucciderli, non ripropone l’apparato nazista, sia per quanto riguarda l’operatività della sua forza che per l’organizzazione militare, sia con riferimento al contesto storico in cui si muove.
Un argomento che si ascolta molto in questi giorni, come anche adombrato dal segretario dell’ONU, riguarda la responsabilità di Israele, in tutti questi anni in cui il conflitto non ha avuto una soluzione politica.
Sicuramente Israele ha molte responsabilità nel conflitto con i palestinesi, anche gravi. Dopodiché non dovremmo però trascurare di valutare altre situazioni che portano al risultato di uno scontro così duro. Pensa ad esempio all’educazione che i giovani palestinesi ricevono fin da quando sono piccoli, che li porta a provare un odio radicale nei confronti degli ebrei – bada bene: non israeliani –, che diventano il nemico da abbattere. Al tempo stesso, ritengo francamente che le parole di Guterres, ma anche di tanti altri esponenti di varie istituzioni nel mondo, che tendono ad assegnare a Israele la responsabilità per quel che è avvenuto il 7 ottobre, siano inaccettabili. Israele è un piccolo paese con grandi contrasti interni, che deve gestire i territori occupati e che da sempre ha una grande difficoltà a trovare un interlocutore affidabile nella realtà palestinese. Ritengo dunque che, se c’è una responsabilità della situazione attuale, essa vada individuata non tanto in Israele, quanto nelle Nazioni Unite, e a cascata in tutti gli altri strumenti della comunità internazionale (penso ad esempio al cosiddetto quartetto, oggi esteso anche all’Italia), che avevano la responsabilità di individuare una road map per trovare una soluzione, ma che si sono dimostrati inerti o che hanno registrato un fallimento. È evidente infatti che nella zona in cui si trova Israele operano e si scontrano interessi giganteschi, che hanno a che fare con gli Stati Uniti, l’Europa, la Russia, il mondo arabo. Sono questi soggetti che hanno la responsabilità di trovare una mediazione soddisfacente per i diretti interessati, ma che hanno lasciato tutta la responsabilità a Israele, il quale a sua volta ha inanellato una serie di leadership drammaticamente inadeguate.
Dunque, la retorica di “Gaza prigione a cielo aperto” che fine fa?
La rigetto, perché in una prigione non si costruiscono chilometri di tunnel segreti dai quali partono migliaia di razzi diretti verso Israele. In una prigione non si occupano le scuole e gli ospedali, finanziati anche dall’unione europea e dall’ONU, per usarli come basi missilistiche. In una prigione non si lasciano aperti i varchi per consentire a migliaia di persone ogni giorno di andare a lavorare in Israele. Gaza non è una prigione, ma un luogo in cui si gioca una partita fondamentale per il Medio Oriente e per Israele. Addossare le uniche responsabilità della situazione attuale a Israele è scorretto. Anche se, ripeto, io credo che Israele abbia le sue responsabilità.
Quali?
La maggiore è quella della modalità con cui è stato gestito il ritiro unilaterale di Sharon da Gaza nel 2005. Si è pensato che bastasse questo per potersi disinteressare nella questione palestinese, il che è stato un errore. Se Israele ha l’ambizione a essere una potenza regionale non può permettersi di lasciare oltre due milioni di arabi ai suoi confini senza una prospettiva.
Una cosa che mi colpisce molto è la reazione della nostra opinione pubblica, sempre sensibile al conflitto Israelo-palestinese ma non altrettanto, ad esempio, per i curdi, i siriani, gli iraniani, gli yemeniti. Tu come spieghi questa differenza?
Ci sono molte ragioni. Comincerei col dire che per il mondo occidentale Israele, in qualche modo, è parte di noi. Lo è, cioè, non solo perché Israele viene percepito come un paese occidentale, ma anche perché si ritiene che la sua nascita sia avvenuta per mano di europei, quali erano gli ebrei in fuga dall’Europa. Tieni ancora conto che una città come Gerusalemme fa pienamente parte dell’immaginario occidentale, in quanto è lì che sono nate le religioni monoteiste. Inoltre tanta attenzione verso il conflitto non può non scaturire anche dall’antisemitismo di cui siamo circondati: nelle nostre società l’antisemitismo esiste e verso Israele ha un suo naturale sfogo. Infine tanta sensibilità ha un’altra giustificazione, questa volta a favore di Israele: lo Stato ebraico sarebbe l’avamposto d’occidente che ci difende rispetto al mondo arabo. Mi sembra però che in tutto questo soffriamo di una specie di illusione ottica.
Quale?
Innanzitutto quella per cui Israele sarebbe nato da un’impresa coloniale. La sua nascita non segue affatto una logica coloniale. Certo, Ben Gurion e gli altri ebrei che hanno dichiarato l’indipendenza dello Stato ebraico erano europei, come gli emigranti ebrei della fine dell’Ottocento, ma non hanno mai seguito una logica del controllo e dell’appropriazione dei beni economici altrui, come è avvenuto da parte delle grandi potenze europee. Inoltre, sbaglierebbe oggi chi considerasse Israele come un avamposto occidentale in Medio Oriente. La popolazione ebraica, 75 anni dopo la nascita dello Stato, è completamente parte di quei territori. Dovremmo cioè prendere atto che da un punto di vista geopolitico Israele è un paese mediorientale. Certo, a Tel Aviv e a Gerusalemme luccicano i bagliori della ricchezza che vediamo in Occidente, ma in molte altre aree del paese si respira un’aria profondamente mediorientale. I sapori, gli odori, le lingue e i colori che si trovano in Israele sono simili a quelli di tutta l’area circostante e appartengono a quel mondo. Lo stesso dovremmo dire per quel che riguarda la dinamica politica e la leadership, che segue una logica locale, potremmo dire levantina, molto distante dal modo di agire che abbiamo in Europa.
Ma così Israele non rischia di diminuire anche il livello di democrazia al proprio interno?
Io ritengo che non si possa mai disegnare un quadro in bianco e nero. Rispetto alla tua osservazione, rispondo che Israele è tuttora una grande democrazia. Lo è non soltanto per il modo in cui funzionano gli apparati dello Stato, per il bilanciamento istituzionale fra poteri, seppure messo in discussione da questo governo. Israele è una grande democrazia nel senso che interpreta la libertà di parola e la libertà sociale in modo pieno. Pensa al Gay Pride, che ogni anno si svolge nella culla delle religioni monoteiste. Oppure pensa alle grandi manifestazioni antigovernative, alla libertà di stampa che si pratica nel paese. Ogni mattina io ascolto la radio dell’esercito israeliano, e ogni mattina ci trovo una pluralità di opinioni, comprese quelle di dura critica ai vertici dell’esercito. Il giornalismo israeliano è un’altra grande espressione di democrazia proprio come la intendiamo noi in Occidente. D’altra parte, tuttavia, Israele è anche una democrazia diversa dai nostri abituali standard: pensa ai partiti etnici come quello dei russi, o degli arabi, che noi in Italia non riusciremmo neanche a concepire.
A proposito di politica, come giudichi la posizione assunta dai principali partiti italiani in riferimento al conflitto?
Vedo dei cambiamenti notevoli. Sicuramente a destra c’è un forte posizionamento, direi comodo e di comodo, pro Israele. Si utilizza una retorica che vede Israele baluardo del mondo occidentale, incorrendo in quegli errori di prospettiva di cui parlavo prima. Si tratta di una posizione che non solo paga da un punto di vista elettorale, ma che soprattutto permette a questa maggioranza di continuare ad accreditarsi presso le grandi cancellerie occidentali come un partner affidabile. D’altra parte, vedo un importante cambiamento nel Partito Democratico. Mi sembra cioè che il Pd sia rimasto evidentemente colpito da quello che è accaduto il 7 ottobre, un evento che ha lasciato un segno in molti e ha fatto comprendere la complessità della partita che si gioca nell’area. Spero che quanto accaduto abbia fatto comprendere ai vertici di quel partito come la realtà mediorientale sia più complessa di come rappresentata per anni. Infine, per quanto riguarda il Movimento 5 stelle, direi che si tratta di un mondo talmente variegato al proprio interno, e soprattutto ancora privo di una preparazione politica adeguata sull’argomento, tale per cui convivono orientamenti diversi.
Come giudichi il modo in cui i media tradizionali e i social media parlano del conflitto?
Occorre considerare che c’è una buona parte del pubblico che non si affida più a tv e giornali per comprendere il mondo. Oggi le notizie della guerra ci arrivano in tempo reale attraverso telegram, corredate di immagini e di suoni. Questo pone un grande problema, perché i canali social sono fortemente indirizzati dalle parti in causa: IDF [l’esercito israeliano, n.d.r.], Hamas e altre agenzie fortemente ideologizzate. Quello che mi spaventa è la tendenza sempre più frequente nel mondo della comunicazione, in particolar modo della Tv, a restituire in prima serata la stessa logica del conflitto che avviene sul campo. Voglio dire che molte trasmissioni ci raccontano il conflitto organizzando favorevoli e contrari che si scontrano fra loro, mentre la questione è molto più complessa. Fortunatamente, in alcuni casi, è possibile ancora trovare trasmissioni che fanno informazione, che provano a riportare la complessità della realtà. Questo grazie soprattutto ad alcuni corrispondenti (penso ad esempio alla giornalista Cecilia Sala), che operano sul campo, e che mostrano una approfondita capacità di analisi.
Che effetti potrà avere questo conflitto sull’antisemitismo?
Con una battuta direi: non bisogna temere che questo conflitto possa aumentare l’antisemitismo, perché l’Italia convive da sempre con un antisemitismo persistente, molto esteso a vari livelli. Allo stesso tempo, non vedo un grande cambiamento nelle retoriche utilizzate dagli antisemiti prima e dopo il 7 ottobre. Quello che mi spaventa semmai è un altro fenomeno.
Quale?
Mi spaventa molto che nel mondo dell’istruzione, già a livello di scuola primaria fino all’università, il corpo docente è spesso molto schierato in maniera manichea, quasi sempre a favore dei palestinesi. Si tende cioè a riprodurre nelle scuole una retorica di forte ostilità, che produce un effetto direttamente sugli studenti. Questo genera un clima di insicurezza e anche di pericolo, ad esempio per le migliaia di studenti israeliani che studiano attualmente nelle nostre università. In molti operatori c’è un chiaro atteggiamento antisemita, in parte causato dal fatto che si tende a riportare nelle scuole ciò che si ascolta nelle case: penso ai ragazzi i cui genitori provengono da paesi arabi e/o africani, nelle cui case prevale una retorica filopalestinese e antiebraica. Questo produce delle manifestazioni come quelle viste alcuni giorni fa a Milano, con slogan che inneggiavano alla morte degli ebrei, o a Bologna, dove gli ebrei sono stati assimilati ai nazisti. Forse proprio l’ebraismo italiano potrebbe insegnare quale rischio alla lunga ci potremmo trovare ad affrontare.
A cosa ti riferisci?
Oggi le più grandi comunità ebraiche italiane, quella di Roma e quella di Milano, sono presiedute da due persone che direttamente o per esperienza familiare, hanno conosciuto una società [in Libia, n.d.r.] in cui si è cominciato a lanciare slogan contro gli ebrei e si è finiti per attaccarli e ucciderli in veri e propri pogrom. Io credo che il nostro paese debba lavorare da subito per evitare il proliferare di queste logiche; mi domando se, fino ad ora, le istituzioni preposte alla lotta all’antisemitismo abbiano prodotto azioni di contrasto davvero efficaci.
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