Innanzitutto vorrei parlare dei Maestri di preghiera. Israele si fonda sulla preghiera. Amavo pregare nelle yeshivot dei grandi Maestri di Israele. Da Abuhazera, a Sharabi, Rav Eliahu. Mi ricordavano con la loro Kavanah il mio primo maestro di ebraismo: il cognato della mia tata, a Tripoli Eliahu Messica. Avrei voluto essere ospite nella sua casa alla Hara (quartiere arabo ebraico) ogni sabato, ma non mi era concesso dalla famiglia che lo rispettava e considerava un santo, ma che temeva un poco che io potessi essere trasformata in una vera ebrea incapace di interpretare il ruolo prescelto di ebrea assimilata. Poi tra i miei Maestri di Torah in Israele ho avuto l’onore di avere Rav Steinsaltz, Rav André Neher, Rav Yehuda Lyon Ashkenazi veri Gheonim, orgogli e splendori dell’ebraismo e della Terra di Israele.
E in Italia?
Ricordo con indefettibile omaggio e rispetto Rav Laras z”l, che fu il primo a notare in me una certa attitudine allo studio della Torah e della filosofia e mi spinse a concorrere per una borsa di studio offerta dalla comunità ebraica di Milano, nel 1987.
E ancora, chi altri?
Poi ci fu l’incontro con Rav Avihail che Rav Avraham Isaak Kook che aveva inviato in missione agli arba kanfot ha olam, ai quattro angoli della terra, per recuperare all’ebraismo i nevukhim, questi smarriti, come avrebbe detto Rabbi Moshe Ben Maimon. Insomma, ebrei che devono poter tornare all’ebraismo per contribuire con questo loro ritorno al compimento del Tikun Olam. Il mio rispetto per questo rabbino fu enorme. Una persona anziana che fino agli ultimi anni di vita continuò a viaggiare da una parte all’altra del globo a “ritrovare” e consentire agli ebrei dispersi di far ritorno a Isreale e alla Torah. Da Manipur a Kyoto al Messico alla Tailandia, dovunque esistessero testimonianze di comunità disperse, là il Rav arrivava, in ossequio alla missione affidatagli. Ho aiutato Rav Avihail nella corrispondenza con tutti coloro che gli scrivevano perché l’avevano identificato come il Padre delle tribù disperse. Anche i Marranos (il nome è orribile, ma lo uso solo come un virgolettato) che scrivevano dalle Baleari da Minorca, da Maiorca per parlare delle loro storie familiari, della loro appartenenza ancestrale all’ebraismo – solo in apparenza rinnegato – mi toccavano molto soprattutto come sefardita, come discendente di tanti ebrei i cui cognomi, magari italianizzati, indicano ancora oggi la loro provenienza iberica. E da qui anche la mia collaborazione con Rav Scialom “Mino” Bahbout, e con la comunità ebraica tranese attiva e operosa nel Medio Evo e riportata a nuova vita proprio dal grande Bahbout.
Però so che hai avuto anche delle Maestre.
Hai ragione. In effetti, il mondo ebraico è costellato anche di grandi Maestre. La moglie di Rav Tidar Elon, Iris Elon, è tra queste. Iris mi aiutò a comprendere cosa volesse dire Eshet Chayil, al giorno d’oggi quella che definiremmo con un anglicismo “empowered woman“. È la donna che quando apre la bocca per parlare lo fa con chochmah, sapienza, saggezza. È lei, la donna, che valuta il campo e lo compra. La donna che danza, che coltiva erbe medicinali, che canta, che si diverte, che sa usare la sessualità per cambiare il mondo, come la Regina Ester. Quella di guardiana della kasheruth. Questo era compito delle nostre matriarche. I pasti di shabbat e di seudat shlishit preparati da loro non erano solo sapidi e gustosi, contenevano qualcosa in più: l’amore per tutto il creato. Ester Kitov, moglie di Oded Kitov, spiegava l’essenza delle festività in maniera esperienziale. Per esempio a Tubishvat, a febbraio, quando a Yerushalaim fa ancora tanto freddo, andavamo alla ricerca del primo albero di mandorlo a sbocciare. Lo ispezionavamo per verificare che avessero gettato le prime gemme che annunciavano l’arrivo della prossima primavera, una specie di campanello che annuncia il risveglio dell’anima dall’inverno.
Come vedi oggi l’ebraismo?
Mi piacerebbe vederlo in maggior movimento. Non sto ovviamente dicendo che l’ebraismo sia fermo ma mi farebbe però piacere vederlo tornare a svolgere quella che è una delle sue funzioni principali: essere or ha goym, luce dei popoli. Se non lo farà come diceva tristemente Rav Ashkenazi, Manitu, affermando che se continuiamo a parlarci addosso tra ebrei, il nostro ruolo sarà preso dal Dalai Lama. Io vorrei che l’ebraismo tornasse ad essere come diceva Rav Steinsaltz capace di elevare i popoli: se Israele resta fedele alla sua essenza eleva il mondo intero. Ma se Israele cade, trascina con lei tutto il mondo. Vorrei anche che il mondo ebraico si riappropriasse di quel retaggio ebraico di cui è intriso tutto il pensiero cristiano soprattutto delle origini. A questo Rav Laras z”l, Rav Kopciowski z”l così come il grandissimo Maestro Benamozegh z”l tenevano tanto: far riappropriare il cristianesimo della sua essenza ebraica, come prima arma da utilizzare contro il mostro dell’antisemitismo.
Mi parli dell’influenza di Maimonide sulla tua opera?
L’influenza di Maimonide sulla mia opera e le mie scelte in campo di salute è enorme. Nel mio libro guarire per curarsi cito spesso Maimonide per il quale la prima cosa è aiutare il paziente a stare bene e elevare il suo stato psicologico: attraverso la migliore musica, i migliori oli essenziali, un supporto spirituale che gli permetta di avvicinarsi a Dio e di accettare il tikkun hamidot. La trasformazione, la permutazione di un sintomo. È a seconda della teshuvah di ciascuno che si decide chi guarisce, che vive e chi muore come leggiamo chiaramente nella tefillah di Rosh Ha Shanah. Il mondo ebraico conosce benissimo queste cose: seguire con rigore un giusto piano alimentare; mangiare con attenzione e nel rispetto della sacralità del cibo. Ma ancora una volta se non ci si prende cura del proprio spirito, come ci si potrà prendere cura del proprio corpo? Per Maimonide prima della cura farmacologica, bisogna curare le emozioni. Un ebreo religioso non dovrebbe assolutamente affidarsi esclusivamente ai farmaci che sono solo una parte del percorso di guarigione di cui il Tikun hamidot, la giusta dieta, il giusto esercizio, il digiuno, la preghiera e la tzeddakah sono protagonisti altrettanto importanti che i medicinali.
Cominci ancora la tua giornata con il Modah e con lo Shema?
Sì, soprattutto le prime preghiere del mattino lasciano un forte imprinting sul resto della giornata. Se dopo ogni volta che ho espletato le mie funzioni fisiologiche riesco a pregare con kavanah Asher Yatzar e a visualizzare i vari canali energetici che scorrono nel mio corpo collegando i vari organi mi sento in piena forma. Prima di dire qualsiasi tefillah cerco sempre di fare almeno cinque minuti di meditazione. Non mi verrebbe in mente di mangiare senza prima e dopo benedire il cibo o l’acqua alzarmi da tavola senza aver detto prima la Birchat Ha Mazon. Sarebbe un furto, come direbbero i maestri.
Vai in sinagoga?
No, non solo perché non ne ho una vicina, ma perché il livello di preghiera a cui mi ero abituata vivendo tra grandi maestri mi fa sentire un poco fuori casa. Di Shabbat resto a casa, medito, canto, studio. Ma devo dire che se Rav Carlebach z”l fosse ancora tra noi, cercherei di raggiungerlo per partecipare alle sue funzioni. Era stato lui a spiegarmi che non si può pregare se non cantando. Usare il siddur è importante perché contiene tra le sue righe importanti segreti cabalistici e le preghiere perfette per ogni situazione. Ma sta pur scritto al taasè tefillat keiva, non rendere la tua preghiera un’abitudine, uguale a quella del giorno prima. E in questo al taasè secondo me sta la chiave della preghiera ebraica. Se il siddur o il sefer tehillim non sono con noi e può succedere, possiamo pregare lo stesso. È il modo per trasformare l’et zarà (il momento di pericolo o difficolta) in un et razòn, momento di grazia (stesse lettere!) che si può vivere anche senza un libro di preghiere in mano. Personalmente ora che vivo in un’isola, uno dei modi di meditazione e preghiera preferiti è farlo sott’acqua. Non a caso il mikve è la chiave di entrata all’ebraismo. I kiddushim che emergono spontanei quando mi immergo sott’acqua mi riempiono di commozione, per poter lodare D-o anche quando quando sono nel “profondo degli abissi”, come è scritto: le techomot ti loderanno. Oppure Be iam darkeha, Le tue Vie sono nel Mare. Gli ebrei immersi nel Mar Rosso ebbero rivelazioni simili a quelle dei profeti. Non ho dubbio che l’ebraismo sarebbe enormemente arricchito se come nel Perek Shira tornasse a vedere la Natura, gli elementi, gli animali come espressione dei Volti di D-o.
Per la serie “Donne del mondo ebraico”, leggi anche:
2 risposte
Intervista molto interessante!
Concordo appieno su quanto sosteneva il Rambam, cioè che per aiutare una persona sia fondamentale elevare il suo stato psicologico attraverso musica, oli essenziali ed altri rimedi che aiutino a “riallineare” il corpo e lo spirito. E concordo anche con Daniela riguardo all’importanza dell’alimentazione e dell’esercizio fisico in parallelo al Tikun haMidot, alla Tefillah, alla Tzedaqah ed alle Mitzvot per integrare corpo ed anima, così come il versetto di Shemot 24,7 (“Naassè veNishmà”) ci insegna…
Molti spunti interessanti nell’intervista anche diversi da quelli che sto sentendo in queste sere nell’evento con molte testimonianze di ebrei libici organizzato a Roma da David Gerbi