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La pedina

Mario Pacifici racconta a Riflessi la sua nuova fatica letteraria

Sappiamo che non sei uno scrittore di professione. Come e quando è nata la tua passione per la scrittura?

Credo di averla sempre avuta ma ero troppo fuori da un ambiente editoriale o quanto meno giornalistico per darle spazio. Poi è avvenuto qualcosa che mi ha fatto scattare una scintilla. Ascoltai la famosa intervista di Vittorio Emanuele riguardo alle leggi razziste firmate da suo nonno. Le definiva poca cosa. Ne fui talmente indignato che buttai giù di impeto alcuni racconti che mostravano l’effetto devastante che quelle leggi avevano avuto sulla comunità degli ebrei italiani. Con uno di quei racconti, nel 2008, vinsi il premio letterario indetto dal Festival della Letteratura Ebraica. L’insieme di quei racconti fu poi pubblicato col titolo “Una cosa da niente”. E da allora non mi sono più fermato. Per un po’ ho seguito la traccia dei racconti brevi e ne nacque un libro che ho molto amato: “Daniel il Matto”. I consensi che ne ebbi mi convinsero che ero pronto per il mio primo romanzo.

I tuoi bisnonni materni vivevano all’interno dell’antico Ghetto di Roma e tutta la tua famiglia ha ed ha avuto forti legami con il quartiere. Quanto queste origini e i racconti famigliari hanno influenzato la scelta del soggetto?

Sebbene mio padre fosse fiorentino, io non ho bagnato i mie panni in Arno, come Manzoni, ma nel Tevere, sotto Ponte Quattro Capi. Le mie radici affondano nel ghetto e quello è l’ambiente di cui conservo storie, memorie, sensazioni. E poi, le storie che racconto non rispondono a criteri editoriali, ma solo agli impulsi che ricevo. Io non le cerco le storie, sono le storie che mi vengono addosso, a volte con una violenza tale che non mi lascia altra scelta che sedermi davanti alla tastiera. Ed è naturale che queste storie provengano quasi sempre dal mondo che sento mio.

il Tempio maggiore appena ianugurato

Anche se “La pedina” si legge tutto d’un fiato come un giallo, colpisce la meticolosa e realistica ricostruzione storica. Dove ti sei documentato e quanto tempo hai dedicato a questa ricerca storica?

Molto, molto tempo. E il libro ha avuto una gestazione lunga e complessa. Scrivere un romanzo, per chi esercita una professione diversa, è un impegno gravoso, soprattutto se la storia si muove in un contesto storico lontano e si dipana in un ambiente politico complesso.

Io ho dovuto svolgere ricerche in due distinte direzioni. La prima era quella della vita nel ghetto, la seconda quella della realtà politica della curia vaticana dell’epoca. Per la prima ho letto tutto ciò che ho potuto, a cominciare dai diari dei viaggiatori dell’Ottocento e dai tanti saggi che, riportando notizie brevi sulle spese, le tasse e i balzelli sostenuti dall’Università del ghetto, gettavano uno sguardo alle condizioni degli abitanti e ai soprusi dagli stessi subiti. Ma un’altra fonte di grandissima ispirazione sono state le foto pionieristiche scattate fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Fra quelle foto scorre la vita, la miseria, la laboriosità del popolo che intendevo descrivere.  Per la seconda ho seguito ogni genere di fonti passando dalle ricerche in Biblioteca a quelle su internet. Ho vissuto la sensazione di tornare agli studi universitari, rubando il tempo al lavoro, alle vacanze e spesso al sonno.

Pio XII (1876-1958)

Un recente convegno su Pio XII ha riportato all’attenzione del pubblico il ruolo del Vaticano nei confronti degli ebrei durante la Shoah. Trovi un collegamento tra il periodo che racconti e quello della Seconda Guerra Mondiale e secondo te, l’atteggiamento dei religiosi cattolici che hanno messo in salvo ebrei come deve essere interpretato?

L’antigiudaismo è stato per secoli un tratto distintivo della politica della Chiesa e ha influenzato profondamente la coscienza delle popolazioni europee. Quel pregiudizio fu portato avanti con tale pervicacia da creare quel brodo di cultura da cui sono poi emerse tutte le forme di antisemitismo e di odio antiebraico che hanno afflitto e continuano ad affliggere il nostro continente. E per rispondere con più precisione alla tua domanda, certo esiste un’indubbia connessione fra i comportamenti della Chiesa durante il Secondo Conflitto Mondiale e quelli che narro nel mio romanzo. Il primo collegamento è la diffidenza, l’astio e l’indifferenza nei confronti del popolo ebraico e delle sue sofferenze. Non parlo qui dei silenzi di Pio XII di fronte alla Shoah. La parola spetterà agli studiosi e agli storici. Parlo piuttosto dei suoi silenzi di fronte alle leggi razziste tedesche e italiane. Quelli sono sotto gli occhi di tutti! La Chiesa non disse una parola. E il suo silenzio avallò quello scempio morale destinato a lastricare la via delle deportazioni.

E poi?

Il secondo collegamento è l’atteggiamento tenuto durante e dopo la guerra rispetto ai bambini messi in salvo all’interno dei conventi, da genitori poi assassinati nei lager. Erano bambini ebrei. Avevano perso i genitori, ma non i loro legami con i familiari meno prossimi. E conservavano intatte le loro radici con il popolo ebraico. Per riaverli indietro furono necessarie interminabili battaglie legali. E non sempre il risultato fu quello desiderato. La Chiesa si batté per crescerli cristiani, ispirandosi alla nefasta tradizione della Casa dei Catecumeni.

So che il salvaraggio degli ebrei da parte della chiesa ti ha interessato direttamente

Riguardo al salvataggio degli ebrei nei conventi, io non posso che avere grande riconoscenza. Mia madre fu tenuta nascosta fino alla liberazione. E un grande numero di ebrei italiani fu sottratto ai meccanismi dello sterminio. Trovo tuttavia imbarazzante che questa apertura dei conventi sia oggi enfatizzata proprio dalla Chiesa. Era un atto dovuto. Come avrebbe potuto fare diversamente senza perdere la propria anima? E d’altra parte come non ricordare che quella generosità offerta alle vittime, fu poi imbrattata dalla vergogna della Via dei Ratti, offerta ai loro persecutori? Migliaia di criminali nazisti furono sottratti alla giustizia.

Un’ultima domanda, da parte di chi ha letto e apprezzato “La pedina”: ci sarà, come nelle migliori tradizioni un sequel o stai pensando a un altro soggetto?

Piazza Roma
La “Piazza”, da sempre ombelico della comuntà romana.

Ci sarà un nuovo romanzo che uscirà presto, edito ancora da Gallucci. Sarà un sequel nel senso che racconterà la storia dei personaggi de La Pedina, dopo la loro cacciata dallo Stato Pontificio. Ma sarà pure un romanzo a sé. Potrà essere letto anche da chi non abbia letto il libro precedente. Il racconto è avvincente quanto quello de La Pedina e contiene la medesima chiave di lettura: la lotta degli ebrei italiani per la libertà e l’emancipazione. E poi, per il futuro, sto lavorando a un nuovo romanzo. È ambientato nel 1943 e affronta il tema dei silenzi della Chiesa e delle potenze occidentali di fronte alla Shoah. Il tutto raccontato in chiave thriller per tenere i lettori col fiato sospeso fino all’ultima pagina.

 

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