Io vi entrai alla fine del 1966, trasferendomi da Milano a Roma per il matrimonio, in un momento di vita comunitaria molto effervescente. Presidente era Gianfranco Tedeschi, che aveva creato il circolo Weizmann. Ci incontravamo lì per affollatissime riunioni collettive. Quando, nel gennaio 1969, Abraham J. Heshel passò a Roma, io, che dopo la laurea avevo tradotto il suo Dio alla ricerca dell’uomo, lo presentai al Weizmann; in seguito, accompagnai questo moderno profeta nel giro di conferenze che fece per l’Italia, traducendo i suoi interventi. Inoltre, quelli erano gli anni in cui era da poco nato il mensile Shalom. Grazie all’amicizia con Enrico Modigliani, fui inserita nel gruppo di redazione, per dare un contributo di critica letteraria. Ricordo le belle riunioni con Lia Levi, Luciano Tas e gli altri collaboratori. Fu su quelle pagine che nel biennio 1969-1970 potei cominciare a far conoscere la letteratura ebraico-americana ai lettori del mensile. La mia rubrica si intitolava: inizialmente “Le passeggiate jiddish”, poi “Letteratura ebraico-americana”. Infine, partecipai anche alla nascita del Centro di Cultura Ebraica della Comunità di Roma, sorto per iniziativa dei consiglieri della Comunità Giuliano Orvieto, Sergio Di Veroli e Sergio Sonnino; io fui invitata a far parte della commissione che fece nascere il Centro, e fu scelta allora molto felicemente come direttrice Bice Migliau. In quegli anni, infine, seguivo anche le lezioni di Torà di Augusto Segre.
E professionalmente? Che anni furono quelli?
La mia attività professionale, fatta di ricerca e di insegnamento, ha avuto un ruolo importante nella mia vita. Dopo la laurea, essendomi subito abilitata all’insegnamento ho cominciato a insegnare Inglese al liceo scientifico, appassionandomi a questo tipo di insegnamento, prima di passare all’Università. In effetti, la mia carriera professionale è divisa a metà: la prima parte al liceo, la seconda all’Università. Ma anche quando insegnavo al liceo, ho continuato a fare ricerca e a pubblicare i miei studi.
Sempre all’insegna della letteratura ebraico-americana.
Sì. Mi sono dedicata fin dall’inizio dei miei studi alla letteratura ebraico-americana, che stava emergendo allora sulla scena letteraria degli Stati Uniti. Mi laureai in un contesto in cui gli studi americani si stavano affermando in Italia per la prima volta in campo accademico. È nata in quel periodo l’Associazione Italiana di Studi Nord-Americani (AISNA), alla cui fondazione nel 1973 ho partecipato, e ho avuto la fortuna di poter raccontare il momento d’oro della letteratura ebraico-americana, cioè quando si stava imponendo come un filone fondamentale della letteratura americana. In seguito, in un mio libro ho esplorato la lunga storia precedente di questa presenza in America, dalle origini nel Seicento alla Shoà.
Mi parli degli scrittori che hai conosciuto?
Posso dire di aver conosciuto praticamente tutti i principali protagonisti contemporanei: ho incontrato Saul Bellow a Chicago, Bernard Malamud e Isaac Bashevis Singer a New York, e poi Henry Roth, Philip Roth, e molti altri. Anche alcuni degli scrittori più recenti – Jonathan Safran Foer, Nicole Krauss, Nathan Englander – li ho incontrati per gli 80 anni di Roth, a Newark. Per tornare a quegli anni, vinsi una borsa di ricerca Fulbright per la Brandeis University di Waltham, Mass., e la Columbia University di New York. Insomma, ho fatto la conoscenza della letteratura ebraico-americana nel suo momento d’oro e ho avuto stimolanti incontri con diversi dei suoi protagonisti.
Vorrei che mi parlassi in particolare di Philip Roth.
Il nostro incontro più importante avvenne a Manhattan, poco prima che morisse. Avevo appena curato il primo dei Meridiani Mondadori su di lui, uscito nel 2017. Era molto felice del Meridiano e mi ha accolto a braccia aperte a casa sua alla fine di quell’anno, quando mi fermai a New York di ritorno da un convegno di studi ebraici a Washington. Credo che la mia sia stata la sua ultima intervista. Oggi è rintracciabile sulla rivista della Philip Roth Society.
Oggi la letteratura ebraico-americana è agli stessi livelli di quella del dopoguerra?
Oggi questa letteratura deve confrontarsi con tanti altri filoni letterari prodotti da altri gruppi etnici che stanno arricchendo la letteratura americana, per cui la presenza ebraica non si impone più con i caratteri di eccezionalità del passato.
E per venire all’Italia? Esiste una letteratura ebraico-italiana?
Certo. C’è un filone costituito da tanti scrittori: Italo Svevo, Umberto Saba, Alberto Moravia, Natalia Ginzburg, Carlo Levi e Primo Levi, Giacomo Debenedetti, Giorgio Bassani, Aldo Rosselli, Alberto Vigevani, Edith Bruck, Aldo Zargani, Lia Levi, anche Alessandro Piperno. I nomi nel ‘900 sono tanti, e altri si potrebbero aggiungere. E poi ci sono le tradizioni del giudaico-romanesco: basti citare Crescenzo Del Monte. È un filone già in parte studiato, in particolare da H. Stuart Hughes, ma che va ancora approfondito. Direi che fino al secondo dopoguerra era una letteratura che per lo più si nascondeva, camuffandosi. Il momento di svolta si ha con Primo Levi e Bassani, negli anni ‘60, mentre negli USA esplodeva il mito degli scrittori ebrei americani. E la memorialistica, anche con Edith Bruck e Lia Levi, ha portato un grande contributo.
Siamo così tornati a casa. Vorrei che ci parlassi ancora del Caso Mortara, o meglio di come la cosa ti ha riguardato direttamente.
Ho sempre vissuto la vicenda come una storia di famiglia; poi, nel 2000, ci fu la proposta di beatificazione di Pio IX, e allora, come membro della famiglia, ne fui molto scossa, e così scrissi una lettera, pubblicata da “L’Espresso”. Ebbe una certa eco, da allora ho rappresentato la mia famiglia, e lo stupore e lo sdegno per la beatificazione di quel papa, l’ultimo che ha tenuto gli ebrei nel ghetto e contro cui ha dovuto combattere il Risorgimento. Se non siamo riusciti a evitare la beatificazione, forse è grazie a noi che la santificazione si è arenata. Poi, come studiosa di letteratura americana, ho avuto modo di conoscere la figura di un drammaturgo afroamericano, Victor Séjour, un cattolico di New Orleans, esule a Parigi, che nel 1859 mise lì in scena un’opera teatrale di grande successo ispirata al rapimento del piccolo Mortara. Dallo studio su questa figura e sulle contemporanee lotte di emancipazione di quell’epoca di metà ‘800, è nato il mio libro Writing for Justice, pubblicato negli USA e vincitore del premio europeo di Studi Americani, l’American Studies Network Book Prize, nel 2016.
Per finire, mi piacerebbe sapere come vedi l’ebraismo italiano, oggi.
Ci sono da un lato elementi positivi. C’è un potenziamento degli studi e un crescente ritorno all’osservanza; oggi le sinagoghe e i corsi si sono moltiplicati. Inoltre, ci sono continue aperture con il mondo circostante, grazie alle iniziative culturali, ai festival, e ai contatti politici. Sono nati centri di studio ebraico all’interno di alcune Università, come nella mia Università di Roma Tor Vergata. E poi c’è la presenza di una stampa ebraica nazionale, per merito dell’UCEI, che racconta ogni giorno la vita ebraica in modo capillare. Vedo però anche molti problemi, a partire da quello dell’allontanamento di molti giovani e della crescita dei matrimoni misti, le cui conseguenze sono rese più “catastrofiche” dalla rigidità halakhica nei confronti dei maschi rispetto alle femmine: problema la cui mancata soluzione sta causando la nascita di movimenti ebraici riformati anche in Italia, con conseguente disunione delle comunità. Vedo con preoccupazione la mancanza, o comunque insufficienza, di luoghi di incontro per i ragazzi che non frequentano le scuole ebraiche e per quelli dopo i 18 anni di età. Ci sarebbe invece un gran bisogno di far incontrare i nostri giovani tra loro, perché si possano conoscere e si abituino al confronto delle idee. Abbiamo la cultura alta, la benemerita traduzione del Talmud. Ma sono carenti le iniziative di base per i giovani, orientate alla preservazione della vita ebraica nella diaspora.
Vedi altri problemi?
Se parliamo dell’ebraismo romano, direi che c’è un problema di accoglienza che riguarda anche gli adulti. Soprattutto, è carente l’informazione interna. Sento molto la mancanza di una Newsletter adeguata. Il notiziario che si riceve online (e troppo pochi lo ricevono), frutto certamente di molto impegno e ricco di articoli vari, è utile come rivista. Tuttavia, non risponde alle esigenze concrete di informazione di base della comunità, perché dovremmo essere anche informati settimanalmente su quello che sta per avvenire, sugli appuntamenti della settimana nei vari enti, oltre che sulle prossime riunioni della Consulta e del Consiglio della Comunità, mentre così non avviene; se poi prendi ad esempio le ultime elezioni UCEI, devo dire che non c’è stata alcuna informazione adeguata. Le informazioni, se arrivano, arrivano solo a posteriori. Basterebbe seguire l’esempio della Newsletter online della Comunità ebraica di Milano, che ogni settimana informa in maniera capillare sulle iniziative promosse dai vari enti e sui servizi della Comunità. A Milano poi vi è anche il mensile, sia online che cartaceo. A Roma vi è grande efficienza nella comunicazione politica con il mondo esterno, ma non si può dire lo stesso nei confronti degli iscritti alla Comunità.
Per la serie “Donne del mondo ebraico”, leggi anche:
3 risposte
Troppo vero sulla comunità Ebraica di Roma.
Mi chiamo Simonetta Villoresi. Mia madre si chiamava Clarissa Mortara figlia di Filippo Mortara e Maria Fulcheri. Siamo cugini di Edgardo Mortara io in terzo grado. Ho tante lettere di Edgardo di quando ormai viveva stabilmente in Belgio nell’ Abazia dove poi mori e anche di Paul Isaah ,suo grandissimo amico, che ha scritto molto su di lui su l’ Ehco de Lourdes. Mi piacerebbe tanto conoscere questa parente e mostrarle alcuni documenti inediti.
Io ho scritto un libro su di lui ” Il silenzio di Edgardo Mortara” ma anche alcuni sue interessanti opinioni in un altro libro sempre scritto da me dal titolo ” Vite Straordinarie” se Elena mi manda il suo indirizzo glieli spedisco volentieri nella speranza di poterla conoscere di persona.
Simonetta Villoresi
P.s. mia sorella diede i nostri nomi al figlio di una amica della mamma ( ora mi sfugge il nome) Che cercava per Steven Spielberg i parenti pou prossimi di Edgardo.
segue l’ altro commento.
Ecco, mi e’ tornato in mente il nome dell’ amica della mamma il cui figlio venne alla villa per intervistarci. Berta Wolf
Simonetta Villoresi