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Trovare una guida per non smarrirsi

Rav Ariel Di Porto, rabbino capo di Torino, ci parla di cosa siginfica essere rabbini, e di due temi di stretta attualità: le coppie miste e la lashon harà sui social

Buongiorno Rav Di Porto. Da 7 anni lei, ebreo romano, è Rabbino Capo a Torino; come si trova ad operare in una Comunità così diversa da quella in cui si è formato?

Tutto sommato mi trovo bene. A livello rabbinico Roma rappresenta una ottima palestra. L’impatto dovuto al cambiamento è stato inferiore rispetto a quanto previsto. Chiaramente – e ciò è stato acuito pesantemente dalla pandemia – la nostalgia per Roma è tanta. Le differenze fra Roma e Torino, sia se consideriamo le città, sia se parliamo delle comunità, sono molteplici. Il lavoro poi è molto diverso. A Roma ho ricoperto diversi incarichi, principalmente sono stato occupato nella chazanut, nell’insegnamento a scuola, e per alcuni anni come direttore dell’Ufficio Rabbinico. Quest’ultimo incarico in particolare richiede principalmente capacità organizzative e relazionali, dovendo gestire una molteplicità di attività in una realtà discretamente grande. L’esperienza torinese mi ha permesso di crescere in altri ambiti ai quali mi ero dedicato meno in precedenza. Chiaramente l’impostazione è diversa, è più basata sul lavoro svolto in prima persona.

Esiste una scuola rabbinica romana dentro l’ebraismo italiano? O il fatto che molti rabbini romani siano andati in altre comunità è solo il risultato dato dai numeri dell’ebraismo italiano? Attualmente, anche la Margulies-Disegni riesce e può ambire a formare Maestri per il futuro dell’ebraismo italiano?

I poli di formazione rabbinica in Italia sono due, il Collegio Rabbinico a Roma e la scuola Margulies Disegni fra Torino e Milano. Entrambi hanno lo scopo di offrire una formazione rabbinica di alto livello, che negli ultimi decenni ha inevitabilmente avuto degli sviluppi che hanno indirizzato lo studio verso il Talmud e la halakhà come discipline dominanti nella formazione, almeno da un certo punto in poi. Un elemento che ho sempre apprezzato è poi l’ingresso nel percorso formativo in un momento apparentemente precoce, che quando ho intrapreso gli studi era situato fra la fine delle scuole elementari e l’inizio delle medie. In questo modo, in quell’età assolutamente cruciale, venivano forniti quegli strumenti, come la lettura fluente dell’ebraico e i rudimenti della grammatica, che è difficile acquisire in età adulta. La componente numerica della comunità romana credo che dia modo ai futuri rabbini di crescere e svilupparsi senza eccessiva pressione, ricoprendo degli incarichi intermedi già durante il percorso di studio, come la chazanut e l’insegnamento. Il vantaggio è evidente, perché in questo modo non si soffre in modo particolare l’ingresso nel mondo rabbinico, e anzi tale ingresso è spesso il coronamento naturale di un percorso organico.

Si riconosce negli insegnamenti di un Maestro in particolare?

Se mi permette farei riferimento, non potendo citare tutti, a una triade, che poi mi è stata vicina anche nella formazione professionale: Rav Di Segni, che mi ha seguito nel periodo adolescenziale, che è quello potenzialmente quello più pericoloso nella formazione, e mi ha insegnato come, in un contesto come il nostro, sia necessario accompagnare alle nozioni rabbiniche una solida cultura generale; Rav Eldad, che mi ha formato tecnicamente in modo intensivo negli anni del corso superiore del Collegio Rabbinico; Rav Funaro, che è stato sempre un prezioso aiuto per comprendere le specificità della comunità romana. Ho collaborato poi con tutti loro negli anni in cui ho lavorato presso l’Ufficio Rabbinico, spero proficuamente.

Per alcuni anni, a Roma, è stato incaricato di seguire le coppie “miste” nel loro percorso di conversione dei figli. Che giudizio dà di quell’esperienza? Non ci risulta che a Roma sia stata più ripetuta. E altrove, in Italia?

In quegli anni erano stati proposti progetti analoghi anche in altre comunità, come Milano e Torino. Il progetto romano ha avuto probabilmente una maggiore stabilità nel tempo. A livello personale è stata un’esperienza molto interessante, nella quale convivevano diverse esigenze: una, quella principale, di formazione, ma anche al contempo quella di costruire un clima piacevole e conviviale nel quale vivere l’ebraismo. Quindi, devo ammetterlo, spesso e volentieri mangiavamo assieme. Sicuramente quello non è l’unico modello immaginabile, ma è importante che vi sia da parte della comunità, e non mi riferisco necessariamente alla comunità come istituzione, la capacità di interagire con queste realtà e indirizzarle. Spesso viene rivolta una critica al rabbinato sulla gestione delle conversioni, ma credo che il discorso sia un filo più complesso: se queste famiglie non individuano all’interno della comunità delle famiglie con le quali interagire e che possano fungere da guida in un percorso, è abbastanza naturale che la conseguenza sia quella di smarrirsi. Il discorso fondamentale quindi è a mio parere quello della ricettività dell’impianto rispetto a determinate realtà. A Torino la situazione è diversa da altre comunità, per via dei suoi numeri, che non consentono di organizzare delle attività ad hoc per le famiglie miste. La scuola è storicamente aperta a ebrei e non ebrei, e i figli di matrimonio misto in questo modo possono dunque ricevere un’educazione ebraica a scuola, al pari degli altri. Inoltre possono prendere parte ad alcune attività e lezioni organizzate dalla comunità, anche dopo la fine delle medie. Non si tratta tuttavia di un percorso strutturato. I risultati sono rappresentati da una partecipazione relativa a tali attività, ma raramente ci sono state forme di coinvolgimento più intenso e costante.

Un problema che serpeggia nell’ebraismo italiano, in questo troppo simile al resto della popolazione, è l’uso compulsivo dei social, che spesso degenera in maldicenza, se non vera e propria aggressione. In una recente occasione, avete pubblicato un comunicato volto proprio a stemperare i toni. Vi sembra che abbia avuto effetto? Pensate di portare avanti questo tema?

Il tema merita senz’altro di essere affrontato ed è senza dubbio uno dei grossi problemi del nostro tempo, non solo nelle comunità ebraiche. È senz’altro necessario adoperarsi per educare al dialogo civile, sia in sede di formazione, sia in contesti informali. Per fare questo è necessario forse tornare a sistemi di comunicazioni più tradizionali, come l’incontrarsi e il parlare assieme. I social network hanno alcuni lati positivi, ma anche tante magagne, come quello della creazione di un clima da stadio e della gogna pubblica, fenomeni che certamente non incoraggiano il dibattito. Personalmente li seguo molto, per capire quello che succede nelle nostre comunità, ma attivamente li uso molto poco. Anche quest’ultimo tentativo non mi sembra abbia sortito effetti particolari, se non rinsaldare determinate posizioni. In questo ultimo anno, in modo particolare durante i mesi del lockdown, i social sono però serviti per avvicinare tante persone allo studio della Torà, e spero che ora, che le cose stanno volgendo per il meglio, questo impegno possa continuare e anzi accrescersi ulteriormente.

Questa è la quinta tappa del nostro viaggio nel rabbinato italiano.

Per leggere le altre tappe del viaggio: Rav Arbib, rav Della Rocca, rav Momigliano (qui e qui), Rav Spagnoletto, Rav Dayan (qui e qui)

2 risposte

  1. Lasciarlo andare via è stata una grave perdita per l’Ebraismo Romano. Rav Ariel apettiamo comunque il tuo ritorno.

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