Israele al bivio tra democrazia e democratura
Nel giorno dell’indipendenza, Israele guarda al futuro mentre non si arrestano le proteste contro la riforma della giustizia. Ne abbiamo parlato con Davide Assael
Davide, nel tuo saggio pubblicato sul numero monografico di Limes dedicato ad Israele scrivi che il progetto di Netanyahu e del suo governo rischia di spostare il paese dalla democrazia liberale ad una democrazia autoritaria, sul modello della Polonia e dell’Ungheria, confidando che, nel tempo di guerra che viviamo, la necessità di avere Israele dalla parte occidentale possa costringere obtorto collo ad accettare il cambiamento. Quanto è alto il rischio di vedere Israele diventare una democratura?
Penso che il rischio c’è e che sia percepito all’interno di Israele. Oggi due schieramenti si stanno confrontando, uno dei quali anima le manifestazioni di protesta in corso da oltre tre mesi, mentre l’altro vi si oppone. Vedo qui una frattura fra una concezione liberale dello Stato, legata al principio di divisione dei poteri, e una fazione invece disposta a rinunciare ai principi liberali per affermare elementi identitari, che in Israele significa rafforzare l’ebraicità dello Stato, con tutte le conseguenze che questo può avere sui confini, sulle relazioni coi palestinesi e in generale con il mondo arabo. Questo è il pericolo che sta attraversando Israele e credo che, a partire da questa considerazione, dovremmo anche un po’ rivedere le letture che tutti abbiamo fatto rispetto al governo che si è insediato in Israele alla fine del 2022.
Cosa intendi?
L’interpretazione prevalente, cui anche io avevo dato credito, era quella di un Netanyahu debole politicamente, addirittura ricattato dalla parte religiosa del suo governo, cioè da tutti i suoi alleati. Un leader debole perché senza più strumenti di contrattazione nei confronti delle richieste che provenivano dai suoi alleati. Invece credo che abbiamo sottovalutato l’aspetto delle convergenze ideologiche fra l’ala religiosa (consentimi la definizione un po’ generica, perché in realtà c’è un’articolazione interna tra tutti questi partiti legati a quella che in Occidente si chiama la sfera ultraortodossa, ad esempio tra chi rifiuta l’esistenza dello stato ebraico e chi invece ha deciso di confrontarsi con la società e la politica) e Netanyahu.
Ad esempio?
Anzitutto, entrambi sono orientati a ridimensionare il peso della Corte Suprema. Netanyahu perché convinto che magistratura e Corte siano il braccio armato di un establishment a lui ostile, i partiti religiosi perché vedono nella Corte un ostacolo all’affermazione dell’ebraicità dello Stato. Storicamente la Corte è l’organo a difesa dei diritti democratici e liberali. C’è, poi, la questione territoriale. Il mondo religioso, anche nelle sue differenze, ha sempre immaginato una grande Israele che va dal Mediterraneo al Giordano, naturalmente poggiando su riferimenti biblici. Dall’altra parte, Netanyahu pare essere convinto che la situazione internazionale consenta un ampliamento dei confini di Israele e di risolvere una volta per tutte la cosiddetta “questione palestinese”. Questi due elementi, uno Stato pienamente ebraico e dai confini ampliati, sono oggettivamente elementi di convergenza tra Netanyahu e i suoi alleati. Penso che sia questo il pericolo in Israele, fortemente percepito e avversato da coloro che per il sedicesimo sabato consecutivo hanno manifestato contro il governo.
Eppure noi ebrei occidentali ed europei sosteniamo da sempre che Israele è l’unica democrazia dell’area. Scusa la provocazione, ma per te avrebbe senso uno Stato ebraico che non fosse più democratico?
Israele è nato 75 anni fa; a noi sembra un tempo lungo, ma in una prospettiva storica è niente. Per questo, dobbiamo mettere in conto la possibilità di cambiamento, anche riguardo a degli elementi che oggi ci appaiono strutturali. Certo, fin dalla sua nascita Israele si è sviluppato nel solco della tradizione “occidentalista” – del resto il sionismo è un’deologia ebraico-tedesca – per cui noi abbiamo sostanzialmente identificato Israele come l’avamposto dell’occidente in Medio Oriente, come uno Stato legato ai principi etici occidentali. Anzi, abbiamo rivendicato il contributo che la cultura ebraica ha dato alla formazione di questi principi, che poi hanno animato e nutrito tutta la modernità politica dell’occidente: la libertà, l’uguaglianza, la fratellanza o fraternità, tutti principi biblici. Ma l’ebraismo è una realtà complessa, che vive di molte esperienze diverse. Pensa ai flussi migratori dal mondo ex-sovietico (tra l’altro in crescita dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina)che portano nello Stato ebraico flussi di persone non certo allevate a pane e democrazia. A questi si può aggiungere la popolazione ebraica proveniente dall’Africa. Sono, in fondo, temi che accompagnano Israele fin dal principio, quando intellettuali sionisti-tedeschi giunti nell’allora Palestina si scontravano con nuclei ebraici locali o provenienti da altre aree del mondo, che certo non rappresentavano il prototipo dell’ebreo ashkenazita di stampo germanico-europeo. L’utopia si è spesso scontrata con la realtà, per citare un titolo di uno studio di Claudia Sonino. In Israele hanno sempre vissuto molte anime e non è detto che quella occidentale prevarrà per sempre.
Quindi, come dobbiamo guardare a Israele, oggi?
Oggi dobbiamo ammettere che si è aperto un conflitto interno che può portare a mutamenti profondi nel carattere dello Stato e che questi mutamenti non sono necessariamente in contrasto con l’etica ebraica. Non dobbiamo banalizzare la componente identitario-religiosa come se fosse del tutto insensibile ai principi biblici di uguaglianza, libertà e fratellanza; il problema, semmai, è che loro credono che questi stessi principi si possano mantenere solo affermando l’ebraicità dello Stato e che se si arretra rispetto al carattere ebraico, quindi a tutto l’impianto normativo della Torah, si abdica a quei principi. Certo, è un’impostazione suprematista anti-moderna che vede la barbarie fuori dall’identità ebraica, ma resta interna all’ebraismo e ai suoi valori ispiratori. Si tratta di inesauribili dialettiche interne alla storia ebraica.
Queste tue considerazioni mi riportano da quest’altra sponda del Mediterraneo, dove siamo noi. Se Israele dovesse prendere una direzione illiberale, noi ebrei della diaspora, in particolare noi ebrei occidentali, non pensi che rischieremo di essere completamente spiazzati?
Anzitutto non dobbiamo dare per scontato che la democrazia in Occidente sia e sarà eterna, perché la democrazia è un fenomeno storico che potrà esaurirsi, almeno se adottiamo una prospettiva filosofica, per cui i fenomeni storici nascono e muoiono. Del resto, lo stiamo vedendo anche con i nostri occhi: pensa a cosa succede in Italia, in Francia, in Austria negli anni passati, oltre a Polonia e Ungheria oggi, che hanno definitivamente passato il guado, abbandonando una prospettiva liberal-democratica e rivendicando un modello a loro dire più adatto a contrastare la crisi e l’instabilità dello scenario globale. Detto questo, però, è chiaro che oggi gli equilibri sono chiari: la stragrandissima maggioranza dei paesi occidentali restano legati all’esperienza democratica e al principio di distinzione dei poteri. E ancor di più lo sono gli ebrei della diaspora, da sempre inclini ad interpretarsi come minoranza custode dei principi di libertà e uguaglianza. La frattura con l’attuale governo israeliano c’è ed è anche esplicita. Specie con quella americana, con numeri e peso politico incomparabili con quella europea. Tutto l’ebraismo è più debole se abbiamo una frattura fra la diaspora e Israele. Su questo, da ebreo italiano ed europeo, mi sento davvero di rivolgere un rimprovero all’attuale governo israeliano, che sembra, però, indifferente rispetto alle conseguenze di questo spostamento verso l’asse illiberale.
Che rimprovero?
È chiaro che l’operazione politica che sta compiendo Netanyahu ha delle grosse conseguenze su tutto l’ebraismo mondiale e dà fiato a chi è animato da un antisionismo radicale e ha sempre sottolineato l’incompatibilità fra sionismo e principi democratici, arrivando fino all’aberrante accostamento con l’apartheid. Lo spostamento di Israele verso l’asse illiberale, agli occhi di questi signori, non fa che confermare simili idee, peggiorando anche la condizione degli ebrei della diaspora perché verrebbero confermati pregiudizi e sospetti atavici nei confronti dell’identità ebraica. Da qui ad azioni violente verso gli ebrei, già frequenti negli ultimi anni in Occidente, è solo un passo. Purtroppo il governo israeliano sembra del tutto insensibile a questo rischio, certificando la fine di quel progetto politico che Netanyahu ha perseguito negli ultimi 10 anni.
Puoi descrivere questo progetto?
In questi suoi venti anni di «regno», Netanyahu si era candidato ad essere il sovrano dell’intero ebraismo mondiale. Ce lo ricordiamo tutti il suo discorso in sinagoga a Parigi dopo gli attentati all’Hyper Kasher, in cui, di fronte ad un attonito Hollande, invitava gli ebrei francesi a tornare a casa loro. È chiaro che sperava che la paura del nemico radunasse l’ebraismo attorno alla sua leadership forte. Non è andata così. A partire dalla Legge sulla nazione del 2018, con cui veniva puntellato il carattere ebraico dello Stato, la frattura con la diaspora si fa sempre più profonda. Oggi siamo ai minimi storici. Più fallimento di così è difficile immaginare. Basta vedere le contestazioni che seguono Netanyahu ovunque vada.
Quali sono i possibili scenari se in Israele prevalesse questa idea della democratura mediorientale?
Temo che la parte occidentale di Israele non accetterebbe di sottostare a uno Stato che ne cambia il paradigma fondativo. Già mesi fa, in un articolo su Limes, denunciavo il rischio di una guerra civile. Del resto, sappiamo che esistono precedenti storici. Nel dibattito interno è ormai frequente il riferimento alla divisione fra Regno di Israele e Regno di Giuda. A differenza di paesi come Polonia e Ungheria, dove pur non sono mancate forme di opposizione di piazza, in Israele esiste, per le ragioni di cui sopra, una radicata cultura democratica, che si accompagna persino ad una componente libertaria (si pensi ad una città come Tel Aviv), che mai sopporterebbe, a mio modo di vedere, svolte autoritarie. Potrebbe essere un progetto solo imposto con una brutale repressione in stile Erdogan, ma non ne vedo i presupposti, con l’esercito che ha assunto le posizioni che abbiamo visto. Stiamo assistendo a una straordinaria resistenza interna, che, io penso affondi anche le radici nella stessa cultura ebraica, insofferente verso forme «faraoniche» di potere.
Puoi fare un esempio?
Appunto, la reazione dei riservisti dell’esercito, che hanno annunciato il rifiuto di rispondere alla chiamata di uno stato non democratico. La prova di quanto evidenzia già Spinoza, di cui Ben-Gurion era un fan sfegatato, nel suo Trattato teologico-politico, dove ricostruisce la grammatica interna alla «repubblica ebraica». Dice esplicitamente che un esercito di cittadini è parte integrante di questa grammatica, in quanto, in caso contrario, l’esercito rischierebbe di tramutarsi in una milizia privata. Certo contano anche i numeri ed uno Stato di poco più di 9.000.000 di abitanti, con arabi e ortodossi quasi del tutto esclusi dalla leva, deve chiedere la partecipazione militare a tutti, ma esistono anche dei dati culturali che mi pare stiano emergendo con chiarezza. Per questo mi sento tutto sommato fiducioso, e credo che Israele non subirà una svolta illiberale come è successo in Ungheria e Polonia, dove le opposizioni hanno organizzato manifestazioni oceaniche contro le leggi che riguardavano le donne e i loro diritti, ma dove, alla fine, i governi illiberali sono stati sostenuti da una componente ampiamente maggioritaria nel paese.
Quindi, alla fine tutto si risolverà per il meglio?
Non lo sappiamo. Il pericolo di una profonda frattura interna esiste. Non dobbiamo poi sottovalutare il pericolo già evidenziato da Sergio Della Pergola proprio in un’intervista a voi rilasciata: questa crisi rende Israele più debole agli occhi dei suoi nemici. Guarda il forte attivismo dell’Iran, che nelle ultime settimane ha attaccato Israele dalla Siria, dal Libano e da Gaza. È una strategia inedita, del resto l’Iran ha avuto un ruolo enorme nella sconfitta militare del Daesh, cosa che le ha consentito di avanzare in territori dove prima non c’era. In aggiunta, da sempre persegue una politica imperiale. quanto visto nelle ultime settimane è un segno che Israele è percepito come debole e quindi attaccabile. La prova che questa transizione politica produce forti rischi.
Vorrei ora portarti in Italia. Anche il nostro paese sembra al centro di un cambiamento. Il nuovo governo è del tutto legittimo – il primo eletto dal voto dopo molti anni; tuttavia i passi che sta compiendo sollevano ampie polemiche e profondi dubbi. Mi riferisco a tutte le polemiche che hanno preceduto il 25 aprile. Questa classe dirigente secondo te sta cercando una forzatura più autoritaria o si riconosce appieno nel fondamento costituzionale che ha dato vita alla Repubblica?
C’è chi sostiene che vogliano farci digerire la cicuta a poco a poco…. Io penso anzitutto che ci sia una inadeguatezza evidente della classe politica al governo. C’è una mancanza enorme di cultura di governo, che caratterizza l’intera destra italiana, la quale non ha mai creato una vera classe dirigente, perché è una destra postfascista, intrisa di componenti fortemente nostalgiche. Problema che riguarda in primis Fratelli d’Italia ancora legato alla figura di Almirante, già redattore del Manifesto della razza. Non stupisce questo deficit culturale in una destra che non si è mai definita secondo principi liberali. In questo scenario, c’è un discorso da fare su Giorgia Meloni.
Facciamolo.
All’inizio del suo governo ero propenso a pensare che Giorgia Meloni avesse fatto tesoro della lezione subita da Salvini nel 2018, e che dunque sarebbe stata una politica più accorta, e che non avrebbe utilizzato un linguaggio aggressivo nei confronti dell’Unione europea, o nei confronti anche dell’opposizione di sinistra; insomma, pensavo che Meloni sarebbe stata pragmaticamente impegnata in quello che si può definire il “progetto finiano”, cioè la costruzione di una destra moderata. Tuttavia, queste dichiarazioni che tu richiamavi stanno diventando troppe. Per quanto possano essere politicamente incompetenti o incolti, boutade come quelle che abbia sentito dal Presidente del Senato La Russa o espressioni come “sostituzione etnica” è chiaro che genereranno conseguenze. Allora, forse, l’estremismo in patria serve a conservare un bacino di voti utile in chiave europea, dove fra un anno si vota.
L’obiettivo è costringere il centro-destra ad ad abbandonare socialisti e verdi al proprio destino e portarli ad allearsi con le destre radicali, abbattendo definitivamente il cordone sanitario eretto finora. Forse, così si piegano le uscite dei suoi «colonnelli». Un po’ la strategia del poliziotto buono e poliziotto cattivo, in cui a lei è capitata la parte più moderata. Se un simile progetto si realizzasse, sarebbe lo scenario più destabilizzante, capace di imporre delle svolte politiche molto forti: penso ai diritti civili, alla politica estera, all’immigrazione. Sarebbe un progetto del tutto contraddittorio: l’Europa delle Nazioni servirebbe interessi di parte in contrasto l’uno con l’altro. Oggi abbiamo, piuttosto, bisogno di un’Europa forte capace di realizzare una politica economica e sociale adeguata per affrontare le sfide di questo scenario di instabilità permanente.
L’ultima domanda riguarda noi ebrei italiani. Com’è noto, siamo una realtà numerica estremamente limitata, e tuttavia le crisi (o, se vuoi, i cambiamenti) in corso non ci sottraggono, a mio parere, dal prendere posizione. Tuttavia, anche nel nostro piccolo mondo ci sono orientamenti diversi: chi è critico, chi ritiene non si debba prendere posizione, chi è legato al vecchio schema per cui una minoranza deve sempre cercare di affiliarsi a chi governa, sperando di esserne tutelata. Secondo te l’ebraismo italiano che voce dovrebbe far sentire?
Sono un po’ riluttante all’idea che l’ebraismo italiano, o l’ebraismo in generale, debba necessariamente mostrare un volto compatto. Ovviamente l’ebraismo riflette, e forse accentua per sua cultura, le divisioni interne a qualunque società, a qualunque gruppo politico, a qualunque identità. Credo che lo sfondo etico ebraico sia abbastanza ampio da contenere tutti. Io non sono certo uno haredì, mondo lontanissimo da me, ma credo non debba essere liquidato in modo caricaturale, pensando che tradisca i valori ebraici tout court, perché anzi ne dà un’interpretazione anche molto fondata sui testi canonici, oggetto esclusivo dei loro studi. Dobbiamo dunque rassegnarci a convivere con degli elementi di divisione endemici. Certo, c’è però una cosa che non dovremmo mai dimenticare.
Quale?
Ciò che ci accomuna. Noi ebrei abbiamo un destino comune: quello che succede a uno succede in qualche modo anche agli altri. Allora mi sentirei di dire: attenzione a compiere un’analisi politica errata fondata solo su orientamenti ideologici. Valutiamo le possibili conseguenze che le nostre scelte possono avere per le comunità ebraiche.
A cosa pensi?
Penso che mettersi dalla parte di chi cerca una svolta illiberale, che accentua i caratteri nazionalistici di un paese, storicamente non abbia mai portato tanto bene agli ebrei.
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