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Di cosa abbiamo parlato la scorsa settimana

Riflessi ha parlato di: politica italiana, antigiudaismo e antisemitismo, Israele, ebrei di Libia

Lunedì abbiamo parlato con Emanuele Fiano:

https://riflessimenorah.com/testimonianza-memoria-politica-ecco-la-mia-nuova-vita/

Martedì abbiamo parlato di antigiudaismo:

https://riflessimenorah.com/avraham-avinu-abramo-nostro-padre/

Mercoledì abbiamo parlato di antisemitismo:

https://riflessimenorah.com/lantisemitismo-oggi/

Giovedì abbiamo raccontato una storia di riscatto in Israele:

https://riflessimenorah.com/yaron-avraham-una-storia-incredibile/

Venerdì abbiamo ricordato la storia di Roberto Arbib, ebreo dela Libia:

https://riflessimenorah.com/roberto-arbib-una-vita-miracolosamente-normale/

 

Una risposta

  1. Il richiamo critico di Vito Mancuso al comportamento tenuto da Abramo nell’episodio narrato in Genesi, 22 e il dibattito che ne è seguito sul sito http://www.riflessimenorah.com
    ripropongono un tema decisivo, che non riguarda soltanto le tradizioni spirituali che si riconoscono nelle tre grandi religioni monoteistiche. L’inevitabile rapsodicità e schematicità a cui il medium giornalistico costringe (in particolare nella forma dell’intervista) non ha certamente aiutato a individuarlo e ha anzi sovraccaricato la discussione di echi e accenti che credo abbiano «addolorato» tutti gli interlocutori, non solo chi, come Mancuso, apertamente lo confessa. Impegnarsi a liberare il campo dai malintesi che possono essere generati dal contesto in cui le parole sono pronunciate è certamente il primo passo per un dialogo in spirito di verità, ma per cogliere il nucleo problematico reale che a mio parere l’episodio biblico esprime (il rapporto dell’uomo con l’Assoluto) è poi necessario sfrondarlo dall’aggiunta di elementi che attengono a questioni strettamente filologiche e fattuali e anche evitare che il ricondurlo immediatamente all’interno di prospettive esegetiche più ampie e complesse – esercizio certamente legittimo e anzi alla fine auspicabile – abbia l’effetto di stemperarne la portata universalistica e la forza di provocazione radicale che deve avere per ogni spirito in senso lato «religioso».
    Nella tradizione spirituale della filosofia, che è quella in cui mi riconosco, la figura di Abramo, che si dispone a sacrificare il proprio figlio Isacco in obbedienza del comando di Dio, ha interrogato nella forma più radicale Kierkegaard, il cui pensiero ruota tutto attorno a questo enigma: «perché Abramo goda onori e gloria come un Padre della fede, mentre dovrebbe essere additato e cacciato come un assassino» (Timore e tremore, 1843). Kierkegaard accoglie con piena consapevolezza la sfida terribile che l’episodio biblico pone alla coscienza religiosa e adopera la storia di Abramo per rappresentare in exemplum l’essenza della fede come «sospensione teleologica dell’etica». Abramo è «un emigrante dalla sfera dell’etica», «ha cancellato con la sua azione tutta l’etica ottenendo il suo telos superiore fuori di essa». Qualificandosi come un paradosso l’esperienza della fede non può essere comunicata attraverso il pensiero e la parola, e perciò può esprimersi soltanto nel silenzio: «Abramo non può parlare […] poiché parla in una lingua straniera».
    La sofferenza e l’angoscia che l’assunzione del paradosso comporta potrebbero trovare un qualche sollievo nel «generale», nella dimensione comunitaria della vita, nell’affidamento alla possibilità di una comprensione da parte degli altri, ma questa prospettiva si presenta al filosofo danese sotto l’aspetto della meschinità e del filisteismo che contrassegna il suo tempo storico ed è rifiutata a vantaggio di un rapporto d’ amore «privato», cioè personale, diretto e senza mediazioni con Dio. Questo amore incondizionato di Dio s’incarna nella figura di Abramo che suscita in Kierkegaard ammirazione e nello stesso tempo spavento. Il paradosso della fede si compendia tutto in questo aut-aut: «O il Singolo come Singolo può stare in un rapporto assoluto all’Assoluto, e allora l’etica non è la cosa suprema; oppure Abramo è perduto».
    Prima che Kierkegaard la ponesse al centro della propria riflessione religiosa, la vicenda di Abramo si era già presentata al pensiero di Immanuel Kant come un caso particolare delle conseguenze cui può condurre la convinzione che nel dominio della ragion pratica sia possibile raggiungere una certezza assoluta, tale da sentirsi giustificati nel derogare a «un principio morale fondamentale che non richiede alcuna prova [come quello] che sia ingiusto togliere la vita ad un uomo per ragioni di fede» (La religione nei limiti della semplice ragione, 1793). Kant è interessato a cogliere soprattutto il risvolto politico di questa persuasione che gli appare una forma di fanatismo esaltato. Nella sua argomentazione, la figura di Abramo si presenta in compagnia di altre nelle quali questa valenza politica è più esplicita: l’«inquisitore saldamente convinto, fino al martirio, della verità unica ed esclusiva della sua fede statutaria» che commette assoluta ingiustizia verso l’eretico o il governante paternalistico che, volendo attuare nel tempo storico la perfezione incondizionata come lui la intende, realizza piuttosto «il peggior dispotismo che si possa immaginare».
    Qualsiasi fede non può che rimanere problematica e custodire nel proprio cuore il dubbio e la possibilità dell’errore. La sua scaturigine è nella profondità della coscienza morale ma quest’ultima non può fare a meno del confronto incessante con la dimensione comunitaria in cui si dispiega la vita umana. Quando l’illuminismo di Kant viene esemplificato con la massima «Sapere aude!» («Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza»), si dimentica che essa non ne esaurisce la definizione completa perché il vero «principio del pensiero liberale» è quello che raccomanda di «mettersi col pensiero al posto di ogni altro (nella comunicazione con gli uomini)».
    La tensione verso la totalità e l’incondizionato risponde ad un bisogno naturale dell’essere umano ma la fame di senso che ne agita il cuore e la mente può anche ospitare in sé un potenziale immane di distruzione. Gli assoluti devono sempre essere maneggiati con cautela, attraverso il dubbio, il dialogo critico, l’affidamento a una ragione che non può mai perdere la sua vocazione comunitaria. Nel tempo odierno in cui il tema della coesistenza tra le varie fedi religiose e tra le diverse visioni del mondo torna a essere incandescente, la filosofia può dare il suo contributo segnalando il rischio che può annidarsi in ogni tentativo umano, tanto umano, di cogliere la totalità, l’infinito, Dio. Non certo perché questa forma di esercizio spirituale, soprattutto nelle sue voci più impegnate nell’impresa di estinguere la sete dell’Assoluto, possa pretendere di dichiararsi storicamente innocente nello scatenamento dei dèmoni che portano il nome di fanatismo, intolleranza, totalitarismo. Piuttosto per la vocazione originaria a cui può sempre richiamarsi: l’ideale di una ricerca inesausta del bene e della verità, da svolgere in comune, imparando a resistere alla suggestione del possesso compiuto per mantenersi in quell’ apertura alla possibilità dell’errore che è presidio di autentica libertà per sé e per gli altri.
    Del resto, è proprio la confluenza sostanziale tra la tradizione ebraico-cristiana e il pensiero liberale e democratico moderno ad aver contribuito in modo determinante nel costruire quell’ethos comune che ispira i grandi codici etici del nostro tempo, tra cui la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo della cui approvazione e proclamazione ricorre quest’anno il 75° anniversario. È perciò giusto e bello, nel momento in cui siamo di nuovo assordati dal rumore dei fanatismi e rischia di vincere la rassegnazione all’ineluttabilità dello scontro tra le civiltà, pensare che queste tradizioni spirituali possano mobilitare ancora insieme la loro sapienza ermeneutica per rendersi accoglienti nei confronti di tutte le altre sapienze disseminate dentro e fuori l’orizzonte culturale a cui ci è capitato in sorte di appartenere, in modo che possano fecondarsi reciprocamente sostenendo lo sforzo delle donne e degli uomini nell’abitare la terra secondo princìpi comuni di pace, rispetto e condivisione.

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