Cos’altro può succedere? E poi il peggio è arrivato
Lia Levi racconta a Riflessi quel clima di odio verso gli ebrei che si respirava alla vigilia dell’attentato al Tempio
Signora Levi, che clima si respirava alla vigilia del 9 ottobre 1982?
Non era un momento brutto per noi: era orribile. Pochi giorni prima dell’attentato c’era stata la visita di Arafat a Roma. Era stato accolto da tutti gli onori: in Vaticano, al Quirinale, in Campidoglio. Eppure, non occorreva sforzarsi molto per ricordare che Arafat era stato quel capo terrorista autore di orribili attentati contro gli ebrei. La sua visita era stata vissuta dagli ebrei romani come una grave offesa. E poi c’era un generale sentimento antiisraeliano, a causa della guerra del Libano iniziata quell’anno. Era stato in quel clima che una bara vuota era stata depositata davanti il Tempio maggiore durante la sfilata di un corteo sindacale. Insomma, vivevamo un clima incandescente e profondamente ostile agli ebrei e a Israele.
E la stampa?
Anche la stampa era ferocemente antisraeliana, salvo rarissime eccezioni. C’era una sensazione nell’aria, come se fossimo al culmine del sentimento di odio verso di noi. “Cos’altro può succedere?”, ci domandavamo, quasi per scacciare il pensiero che qualcosa di peggiore potesse accadere. E puntualmente quell’atmosfera ci ha portato a quell’attentato feroce, che Roma non si aspettava, malgrado tutto.
Come si viveva quel clima nella redazione di Shalom?
Noi di Shalom non ci sentivamo isolati. Facevamo puntualmente una rassegna stampa, che si chiamava “l’eco della stampa”, e mettevamo in luce i punti di vista ideologici che animavano le critiche a Israele. Insomma, svolgevamo una funzione critica. C’erano poi amici sinceri di Israele tra i politici e giornalisti, ma a dire la verità non molti. Ricordo che tutto il partito repubblicano, a partire dal segretario Spadolini, era a favore di Israele.
E dopo l’attentato? Che reazione ci fu da parte della stampa, della politica e dell’opinione pubblica?
Naturalmente la stampa si precipitò da noi, ma il popolo ebraico, inferocito, li cacciò tutti: politici e giornalisti. Erano considerati colpevoli di aver creato quel clima sfavorevole.
Quale fu la reazione dei vertici della comunità?
Ricordo due figure in particolare. La prima è quella di rav Toaff, che fu eccezionale, perché prima fece propria l’indignazione generale, però dopo ebbe la capacità di svolgere una necessaria funzione di mediatore, riuscendo a calmare le acque. Un’altra funzione essenziale fu quella svolta da Bruno Zevi, che invitato in Campidoglio fece un j’accuse ancora più efficace di quello pronunciato da Emile Zola [nel caso Dreyfuss, n.d.r.], su antisionismo e antisemitismo, in cui disse che nessuno poteva chiedere agli ebrei di accettare la differenza tra essere ebrei e israeliani. L’antisemitismo, disse, è precedente alla nascita di Israele, e la matrice dell’odio è la stessa. Noi di Shalom ovviamente pubblicammo integralmente il testo del suo discorso.
Veniamo alla sua esperienza personale. Che si ricorda di quel giorno?
Mi ricordo tutto di quella giornata. Ci stavamo preparando, io e mio marito [Luciano Tas, n.d.r.] a fare una gita, quando squillò il telefono. Era la ragazza di mio figlio. In realtà si erano appena conosciuti, e lui l’aveva portata ad assistere alla festività al Tempio maggiore. La ragazza – che poi è diventata sua moglie – disse all’inizio che c’era stato un piccolo incidente. Quando alla fine mi disse che c’era stato un attentato, ci precipitammo all’ospedale.
Che situazione trovaste?
Erano stati ricoverati entrambi al Regina Margherita. C’era una confusione indescrivibile. Tutti i parenti erano accorsi e cercavano i propri cari, chiedevano aiuto perché non sapevano dove fossero esattamente. Anche io, assieme a loro, mi misi in cerca di mio figlio e della sua ragazza.
Erano stati feriti?
Sì. Erano stati feriti dalle schegge contenute negli ordigni, per fortuna non gravemente. Ricordo anche che la ragazza riportò una lesione al menisco per lo spostamento d’aria dovuto alla deflagrazione.
Come fu lavorare al giornale nei giorni seguenti?
Fu molto impegnativo. Naturalmente cercavamo di svolgere il nostro lavoro con la professionalità di sempre, ma era evidente che fossimo anche coinvolti molto sul piano personale. Ricordo che nei giorni successivi ci fu una grande solidarietà da parte dell’opinione pubblica. I giornalisti, come accade sempre in queste occasioni, cercavano i pezzi di “colore”, ma l’impressione è che l’emozione che si percepiva attorno a noi fosse sincera. Le do solo un dato: lo spazio dedicato alle lettere su Shalom occupava di solito poco più di una pagina, ma in quel periodo arrivammo a pubblicare fino a sei pagine di lettere, in gran parte di non ebrei, ed erano tutte di persone commosse e sinceramente addolorate. Del resto, a Roma la presenza della comunità ebraica è fortemente sentita, e in tutta la città era percepibile questa ferita inferta a noi, la più grave dopo quella del 16 ottobre 1943.
Che effetti produsse l’attentato sul piano politico?
Anche lì le cose cambiarono. Il sindacato prese le distanze da quella manifestazione che ho ricordato prima, e molti si scusarono. L’attentato era stato troppo grave, e contribuì a cambiare il clima. Fu una bastonata per chi aveva denigrato Israele e gli ebrei.
Ricorda qualcosa del giorno del funerale al piccolo Stefano Gaj Taché?
Ricordo solo il grande silenzio che c’era. Del resto, il dolore vero vince sempre sulla rabbia e sull’indignazione. Mi ricordo una grande dignità degli ebrei romani.
Un’ultima domanda. Nel suo primo libro, “Una bambina e basta”, lei racconta dell’occupazione nazista a Roma, culminata nella deportazione del 16 ottobre. Si sente di fare un confronto tra queste due ferite subite dalla comunità ebraica di Roma?
Come ho raccontato, ero già stata nascosta dai miei genitori in un convento prima del 16 ottobre del 1943. L’impatto della razzia mi arrivò perciò attutito, anche se in seguito arrivarono degli altri bambini che invece avevano vissuto più da vicino la deportazione dei loro familiari, e che per fortuna erano stati messi in salvo in tempo. Per cui compresi solo dopo lo shock subito dalla comunità il 16 ottobre del 1943, quando, da adulta, compresi con rimorso quanto dovettero aver sofferto i nostri genitori a doverci nascondere. Nel 1982 invece le cose erano cambiate: adesso ero io il genitore, e mio figlio quello che era stato in pericolo. Per questo ho avvertito come più violento il colpo e l’attacco subito con l’attentato al Tempio.
Leggi il testo integrale dell’intervento di Bruno Zevi in Campidoglio l’11 ottobre 1982 (fonte: memoriebraiche)
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