La mia è una posizione troppo marginale rispetto alla vita interna delle comunità ebraiche, anche se certo sono appassionato di storie e collaboro con piacere a Moked dove sono libero di esprimere spesso opinioni controcorrente. Detto questo, a me pare che l’ebraismo italiano viva una crisi fortissima, non diversa dalla crisi morale dell’intero paese degli ultimi decenni. Si perpetuano divisioni antiche, che faticano a essere superate. Ci si divide su Israele, ci si divide tra il mondo rabbinico e quello che impropriamente viene definito ebraismo laico, in realtà una galassia composta di tante realtà diverse, che faticano a manifestarsi e anche ad assumere coscienza di se stessi, delle proprie ragioni, che poi sono le stesse che in Israele rappresentano il mondo della secolarizzazione. Mi pare che non ci sia abitudine al dialogo, a comprendersi, ad ascoltare le ragioni degli altri; tout comprendre pout tout aimer, dicevano i miei ebrei socialisti d’inizio Novecento; forse i problemi nascono perché, in un paese dove la cultura cattolica è stata così forte e influente, i limiti di quella cultura per osmosi si sono trasfusi nel mondo ebraico, facendo venire meno la dimensione pluralistica del riconoscersi in voci diverse, per dialogare, per apprezzare le virtù degli altri e riconoscere i propri torti e i propri limiti. Altrove – in Francia, Inghilterra, Usa e Israele – per esempio ci sono meno impalcature.
Tra i tuoi interessi professionali, come hai detto, c’è anche quello per la letteratura. Vorrei chiederti allora se secondo te è possibile tracciare una storia della letteratura ebraico-italiana.
Non so. Quello che manca, e che vorrei che qualcuno facesse, è una storia dell’ebraismo italiano nel Risorgimento, come Giorgio Spini ha fatto per il pensiero protestante. Il tema della letteratura è invece scivoloso, e non so se regge, perché i grandi scrittori ebrei italiani tra XIX e XX secolo – pensa a Svevo e a Saba – hanno sempre celato la propria identità. C’è insomma una frattura tra le prime generazioni di ebrei liberi, che raramente manifestavano la propria identità, e quelli attuali dopo la Shoà, che è stata una svolta anche in questo.
Torniamo alla memoria. A che punto è la tutela della memoria nel nostro paese?
Oggi fioriscono i saggi contro gli abusi della memoria. È un terreno scivoloso, perché vedo scorrere, sottotraccia, un pericolo.
Quale?
Che si diffonda un’idea contraria al 27 gennaio, quasi come reazione a un non corretto modo di salvaguardare la memoria. Del resto, se si fa del Giorno della memoria un esercizio di moralismo, a discapito di una ricerca storica seria, autonoma, al riparo dei riflettori, il rischio è che si generi diffidenza e disaffezione.
A cosa ti riferisci?
Lo ha messo di recente in evidenza Sergio della Pergola, a proposito del caso Bartali: il pericolo, dice lui, vale anche per chi lavora nel campo della demografia, a me interessa quanto accade fra gli storici. Rubo a Della Pergola la metafora dell’arciere, che lui ha applicato contro uno storico israeliano. La metafora calza a pennello per alcuni casi di malcostume storiografico verificatisi con sempre maggiore frequenza in Italia. Lo storico-arciere si avvicina al bersaglio, fissa con forza la sua freccia, poi traccia intorno una bella serie di cerchi concentrici. Infine si gira verso il pubblico e invita all’applauso: “Visto come sono stato bravo!”. Questo metodo furbesco, in storiografia, si chiama critica selettiva delle fonti. Uso e adopero solo i documenti che comprovano la tesi che voglio dimostrare, il resto, che potrebbe far crollare il castello delle mie ipotesi, lo nascondo. Un gioco da ragazzi che non richiede molta permanenza in archivi e biblioteche. Oggi, dopo averlo lodato come salvatore di ebrei, alcuni tendono a macchiare un mito sportivo come quello di Bartali, che è e deve rimanere un mito sportivo, come Maradona per intenderci. Quello che deprime è il mutamento repentino di chi anni fa sull’onda di entusiasmo generale determinato dal film di Benigni aveva cavalcato il mito, salvo poi oggi, di fronte all’avanzare di un fronte ostile agli eccessi delle memoria, pubblica la palinodia di se stesso. E’ accaduto a uno storico che per altro io stimo molto, che in passato ha scritto libri molto interessanti, come Stefano Pivato. Nel giro di un decennio ha fatto passare il povero Bartali dalle stelle alle stalle.
Pensi a qualche altro caso concreto?
Tempo fa ci fu il libro “Partigia”, che cercava di dimostrare le zone d’ombra dell’esperienza resistenziale di Primo Levi, anche qui adoperando la critica selettiva delle fonti, ovvero, direbbe Della Pergola la tecnica del furbo arciere; si era già preso di mira Arnaldo Momigliano (e si continua tuttoggi a farlo, a più di trent’anni dalla sua morte!), cercando di dimostrare oltre ogni misura di decenza il coinvolgimento nel fascismo. Non so se ne valga la pena. Contro questi casi di malcostume storiografico, solo in questi casi, mi accade di perdere la pazienza. Si crea un caso per trovare una macchia, un segreto, per fare scandalo e infrangere i miti e soprattutto far parlare molto di se stessi, vendere libri. Vedi anche le recenti affermazioni di Alessandro Barbero su Gerusalemme. Sul libro di Sergio Luzzatto mi feci il sangue cattivo e mi dispiacque ritrovarmi isolato nel prendere posizione, fui lasciato praticamente solo.
Come si reagisce?
Io credo che, complice la pandemia, siamo a un momento di svolta. Quando la pandemia finirà dovremo immaginare mostre, percorsi storici, impegni nuovi, ricerche più solide. L’arciere deve mutare le sue strategie. Dovremo riscrivere il nostro calendario civile. Sarebbe opportuno che chi fa questo lavoro si fermasse a riflettere sugli errori commessi, perché i risultati del 27 gennaio non sono quelli che auspicavamo.
Che si dovrebbe fare?
Il Giorno della memoria andrebbe ripensato su nuove basi: bisognerebbe rinforzare le biblioteche scolastiche, rafforzare la letteratura a scopo di memoria, dare alle generazioni la risorsa della grande letteratura che guida l’età di transizione dei nostri giovani. Quando scompariranno le voci dei testimoni, resteranno le voci della grande letteratura.
Come immagini questi nuovi percorsi?
Meno viaggi fisici, e più viaggi all’interno della letteratura. Si possono fare viaggi della memoria meravigliosi senza lasciare la classe. E poi meno lacrime, e più prospettiva storica positiva, che indichi la direzione; non basta fare un elenco di nefandezze, anzi è controproducente.
Che intendi?
Croce già ci ammoniva: un sano percorso educativo richiede non la semplice lista dei crimini e degli orrori, ma la messa in evidenza del passaggio dal male verso il bene. Bisogna promuovere una memoria virtuosa, non ripiegata su sé stessa. La ipotesi più concreta è rinsaldare gli istituiti scolastici, irrobustirli. Anche immaginando quelli che chiamo “percorsi obliqui”.
Puoi fare qualche esempio?
Certo. Pensa ai romanzi di George Perec, o a “Aquiloni” di Romain Gary; pensa al Primo Levi di “Se questo è un uomo”, non a quello de “i sommersi e i salvati”, molto più pessimista. O ancora, pensa a tutte le memorie pubblicate prima del 1950, da piccole case editrici, in cui emerge chiara la filosofia del “ciononostante”. Nonostante la Shoah, si tornava a vivere e a ricostruire; in esse c’era una forza primitiva, aurorale, di chi voleva ricostruire la vita, sperava e voleva una vita migliore. Del resto, questo è un carattere della grande letteratura. Pensa a Leopardi, o alle narrazioni bibliche: hanno sempre prospettiva, di ritorno alla vita, rappresentano il concatenarsi del male verso il bene, del male verso la vita, Oggi rischiamo di perdere la speranza che sorgeva sulle ceneri di Auschwitz.
È un bel proposito per chiudere questo incontro.
È quello che credo. Vorrei che ai giovani si insegnasse quella che Salvemini chiamava l’educazione morale, più che quella civica; e questo può arrivare soltanto dall’arte, dalla musica, dalla grande letteratura, che eleva il pensiero di chi studia. Nessun processo pedagogico può basarsi sulla malinconia, sul puro dolore; occorre tracciare una linea verso il bene. Indicare sempre l’azzurro del cielo, questo deve fare la memoria. Se la scuola non fa questo, tradisce la sua missione.
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4 risposte
Bravo Alberto, bravo Massimiliano! Riflessioni magnifiche che mi hanno fatto pensare a molti temi del passato. Una cavalcata a ritroso nella nostra storia stimolante e su aspetto che avevo dimenticato!
Sempre “centrato”, e non come uno storico, di mestiere arciere, ma come un intellettuale che si guarda intorno e si chiede come sia possibile non essere riusciti a generare qualcosa di meglio in questa Italia e in questo mondo ebraico italiano.
Bravo Alberto
Da qualche decennio, caro Alberto, le tue riflessioni sono per me riferimento. E non per me solo. Con diverse persone condivido questo pensiero. Ma attraversiamo crisi faticose in cui scegliere il più facile, l’obiettivo costruito intorno alle tesi, è cosa assai frequente. E quanto fatica si fa a tenersi fuori da questa corrente, la stessa fatica del maestro degli aquiloni di Romain Gary, divenuto anche lui un caposaldo dei miei progetti, come dei tuoi. Insistiamo, Alberto, anche se pochi danno segno di ascoltare: chi ascolta, poi, non ama salire sulla scena per dichiararsi, ma agisce sottovoce, o con voce pacata. Ma ti è vicino.
Grazie per la interessante retrospettiva sulla storia della cultura ebraica del Novecento e per le riflessioni utili e necessarie sulle prospettive future della Giornata della Memoria.